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Novembre 2014 III – Fascino e tormenti

29 Nov 14

A cura di luca.ribolini

IL RAPPORTO TRA FREUD E IL DUCE 
di Giorgio dell’Arti, altrimondi.gazzetta.it, 16 novembre 2014

Einstein Incontro tra Freud e Einstein, il 28 dicembre 1926, a Berlino, in casa del figlio Ernst. Il giorno dopo Freud scrisse alla figlia Anna: «Einstein era molto interessante, sereno, felice, abbiamo parlato per due ore, anche discusso, molto più sull’analisi che sulla teoria della relatività. Sta leggendo, naturalmente non ha convinzioni, ha l’aspetto più vecchio di quanto avessi pensato».
Savinio Savinio, avendo scritto su un settimanale che Leopardi era morto per un’insistente “cacarella”, Mussolini fece chiudere il settimanale e vietò a Savinio di scrivere su qualunque altro giornale o rivista d’Italia.
Gestapo Il 15 marzo 1938 la Gestapo perquisì l’appartamento di Freud e la sede della sua casa editrice, la Psychoanalytisches Internationales Verlag, gestita dal figlio Martin. La figlia Anna fu costretta ad aprire la cassaforte e i nazisti rubarono tutto il denaro.
Espatrio «Posso raccomandare la Gestapo a chicchessia» (dichiarazione che Freud dovette rilasciare per poter ottenere il nulla osta necessario per l’espatrio).
Forzano Mussolini cercava gloria anche come scrittore e assoldò a questo scopo Giovacchino Forzano, incontrato all’Opera di Roma all’inizio del 1923 in occasione della prima de I compagnacci di Primo Riccitelli, di cui Forzano aveva scritto il libretto. Il 7 luglio 1929, Mussolini affidò a Forzano la stesura di un dramma sulla fine di Napoleone, da trattarsi, a onta della verità storica, facendo perno sul tradimento. Il dramma, intitolato Campo di maggio, andò poi in scena nel 1931 e Forzano ne scrisse a Ugo Ojetti, il quale registrò nel suo diario: «La sera della prima Mussolini mandò la famiglia in palco (era andato alla prova generale), provò ad andare a un altro teatro; ma non era finito il primo atto che nervoso egli si presentò all’Argentina, e rimase in fondo al palco ad ascoltare. “Sembrava un giovane autore, – dice Forzano – contava le chiamate, criticava gli attori”. Il giorno dopo lo chiamò. Volle fare aggiungere due battute, quella, fra l’altro in cui Napoleone si duole di non aver avuto fiducia nell’Italia e nella sua unità, ché l’Italia gli sarebbe stata fedele. E il pubblico applaude sempre a quella tirata che è l’opposto della verità storica. Il pubblico, si vede, egli lo conosce bene».
Dedica Nella traduzione tedesca, che Forzano portò in dono a Freud, l’opera risultava scritta, oltre che da Forzano, anche da Mussolini. La dedica di Mussolini e Forzano a Freud: «A Sigmund Freud / che renderà migliore il mondo, / con ammirazione e / riconoscenza / Vienna 26 aprile 1933 XIo Benito Mussolini und G. Forzano».
Controdedica «A Benito Mussolini coi rispettosi saluti di un vecchio che nel detentore del potere riconosce l’eroe della civiltà» (dedica scritta da Freud sul frontespizio di un libro mandato in regalo a Mussolini nel 1933).
Offensivi Nelle due informative diffuse dal ministero dell’Interno il 22 e il 23 gennaio 1940, si leggeva che in Italia i libri di Freud e quelli di psicoanalisi in generale erano proibiti, perché l’autore era ebreo e perché «offensivi per la religione cristiana». Freud era già scappato in Francia da due anni.
Notizie tratte da: Roberto Zapperi, Freud e Mussolini. La psicoanalisi in Italia durante il fascismo, Franco Angeli, Milano, pagg. 144, € 18,00
http://altrimondi.gazzetta.it/2014/11/16/il-rapporto-tra-freud-e-il-duce/

VERSO UNA TERAPIA PERSONALIZZATA DELLA DEPRESSIONE 
di Giuliano Castigliego, giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com, 16 novembre 2014

È più facile parlare della morte piuttosto che della vita di una persona affetta da depressione.” Questa la sconsolata considerazione cui giunge, prendendo spunto dal recente suicidio di Robin Williams e dalla reazione allo stesso dei media, l’editoriale di Nature nella sua attuale edizione speciale dedicata alla depressione. Un’edizione da non perdere (la maggior parte degli articoli sono tra l’altro gratuiti), non tanto perché contenga sconvolgenti novità nella comprensione e/o nel trattamento della malattia quanto piuttosto perché fa, molto criticamente, il punto sulle insoddisfacenti strategie di ricerca finora utilizzate, mette in discussione i concetti attuali e suggerisce – discutibilmente – possibili nuovi percorsi.
Il punto di partenza è quello che si conosce da tempo, da quando cioè alla fine degli anni 90 si è cominciato a parlare di depressione come di una bomba a tempo. Che sta scoppiando. 350 milioni! di persone soffrono attualmente nel mondo di depressione. La disabilità che tale malattia produce può inoltre trascinarsi per anni, anche perché molto spesso, soprattutto, ma non solo, nei paesi in via di sviluppo, non è diagnosticata o non lo è correttamente e ancor meno correttamente trattata e le cure non sono sempre efficaci – ma vale la pena di ricordare che dalla depressione si guarisce in oltre l’80% dei casi! Ne consegue che la depressione è la prima causa mondiale di disabilità, misurata in anni “persi” (YLD) perché vissuti con disabilità fisica o psichica. Con 76,4 milioni di anni persi, la depressione rappresenta infatti il 10,3 % del carico totale di disabilità, battendo di gran lunga malattie somatiche quali disturbi respiratori, cardio-vascolari, diabete etc. Se si considera poi che alcolismo e disturbi d’ansia sono al 5 e 6 posto (con rispettivamente 27,9 e 27,6 milioni di anni persi) di tale poco invidiabile classifica delle cause di disabilità, si ha una sintetica idea dell’impatto devastante che hanno i disturbi mentali a tutt’oggi, nonostante gli outing di tanti depressi famosi e le benemerite campagne pubbliche contro lo stigma della depressione. In realtà il quadro è molto sfaccettato e i tassi della depressione, e soprattutto le risorse e le strategie contro la stessa e le malattie mentali in genere sono molto diverse nei diversi paesi. Come ben evidenziato dall’infografica di Nature i tassi di prevalenza della depressione possono variare dal 22,5 % dell’Afghanistan al 3,02 % della Cina, anche se in questo caso le percentuali basse sono dovute più a mancanza di diagnosi che a mancanza di malattia. Per non dire della disparità di risorse materiali ed umane: se metà della popolazione mondiale vive con 2 psichiatri per centomila abitanti, la Svizzera ne ha quaranta (me compreso). Non si può certo dire che le folte schiere psichiatriche rendano i cittadini elvetici psichicamente più sani (la prevalenza di depressione ad es. è stimata in Svizzera al 6,16 mentre in diversi paesi europei è intorno al 5 e negli Stati Uniti al 4,45) il che potrebbe far legittimamente dubitare degli psichiatri svizzeri se non della psichiatria in generale, dubbio non proprio nuovo. Ma il confronto con il sistema sanitario e in particolare il costosissimo ma accessibilissimo e dotatissimo sistema di assistenza psichiatrica/psicoterapeutica svizzero consente di mettere a fuoco alcuni punti, che rimangono in ombra nella pur straordinariamente ricca e stimolante sintesi di Nature.
Innanzitutto l’aspetto socio-culturale. La depressione, sindrome biologica sostanzialmente univoca, si declina però diversamente nei diversi contesti socio-culturali, assumendo anche caratteri, quadri clinici e significati culturali e sociali, oltre che individuali, diversi. All’inizio della mia attività di psichiatra in Svizzera con in mente ancora l’immagine dei/delle depresse italiane distese esanimi in lacrime su letti disfatti facevo fatica a trovare la depressione nei volti composti ed irrigiditi di svizzere/i in lotta col dovere morale del lavoro. A parità di sofferenza le manifestazioni e le interpretazioni della stessa sono assai diverse.
L’elvetica facilità d’accesso alle cure, cioè all’assistenza psichiatrica e anche psicologica!, la loro sostenibilità economica e la libertà di scelta delle terapie e del terapeuta anche per le persone meno abbienti – senza farraginose burocrazie di uffici, autorizzazioni, code eccetera – giocano a questo punto un ruolo decisivo. Tali condizioni consentono infatti alla persona malata di sentirsi riconosciuta e sostenuta nella propria sofferenza e di svolgere almeno un (piccolo) ruolo attivo nella scelta di come e da chi farsi curare. E con la terapia di far crescere e sviluppare lo spazio della riflessione interiore e della consapevolezza, che rimangono essenziali anticorpi contro le malattie mentali. Certo questa è solo una parte del problema.
L’altro aspetto su cui si focalizza l’attenzione di Nature è l’efficacia rispettivamente l’inefficacia delle terapie e la prevedibilità delle stesse nel singolo paziente. Se è vero che la terapia farmacologica con antidepressivi e meglio ancora la terapia combinata farmacologica e psicologica è molto efficace garantendo una guarigione nell’80% dei casi, è doveroso riconoscere con Nature che c’è ancora molto da fare sia per quanto riguarda la terapia farmacologica, che per la comprensione dei meccanismi della malattia e a maggior ragione per la validazione delle diverse forme di psicoterapia. Semplificando si può dire che negli ultimi decenni si è assistito ad una sostanziale stagnazione nel mercato degli antidepressivi. Ne sono stati sintetizzati certo diversi con molto minori effetti collaterali, ma non significativamente più efficaci dei vecchi triciclici. Non è affatto vero che l’ingordigia economica faccia produrre alle case farmaceutiche troppi antidepressivi È piuttosto vero il contrario, gli elevatissimi costi di sperimentazione, la tendenza al risparmio e ad andare sul sicuro ha indotto le case farmaceutiche a sintetizzare relativamente pochi nuovi antidepressivi con il rischio di una riproposizione di molecole molto simili tra loro. Ora i risultati per certi versi sorprendenti dell’impiego endovenoso di ketamina nei pazienti depressi sembrano aprire strade nuove sia alla sintesi di nuovi farmaci sia alla comprensione di meccanismi della malattia diversi da quelli noti (deficit di amine biologiche, serotonina, noradrenalina, dopamina). Ma è soprattutto sul versante delle psicoterapie che le incertezze sono maggiori, e i fondi per la ricerca molto più scarsi (solo il 15% del totale).  Quali psicoterapie sono davvero efficaci e soprattutto quali per chi? Anche qui però si stanno facendo passi importanti. È di questa settimana la notizia riportata da Nature della scoperta del primo potenziale biomarker per poter discriminare in partenza tra pazienti depressi che rispondono ai farmaci e altri invece che rispondono alla terapia cognitiva
“The study, led by neurologist Helen Mayberg of Emory University in Atlanta, Georgia, used positron emission tomography (PET) scans to measure metabolic activity in various brain regions of people with untreated depression (see also Nature). Patients were randomized into groups and treated for 12 weeks with either a commonly used antidepressant drug or cognitive behaviour therapy. The study’s results were clear-cut. Below-average activity in a brain area called the right anterior insula — which is linked with depression-rele- vant behaviours such as emotional self-awareness and decision-making.”
Sempre di questi giorni è la notizia, che non ho ritrovato su Nature, di un altro potenziale biomarker capace di indicare quali pazienti depressi risponderebbero e quali no alla psicoterapia di tipo psicodinamico  La psicoterapia, per intenderci, originatasi dalla psicoanalisi freudiana, centrata sull’analisi delle precedenti esperienze e in particolare dei rapporti del paziente, a partire da quello paziente-terapeuta analizzato alla luce di transfert e contro-transfert. Quella insomma che viene spesso confusa con la psicanalisi e giudicata inefficace se non addirittura come non-scienza.
“Psychodynamic psychotherapy might be considered the original form of ‘personalized medicine,’ since it draws directly from a patient’s unique experiences to shape the course of treatment,” says Joshua Roffman, MD, MGH Department of Psychiatry, lead author of the report. ”
Non solo è stato (da tempo) dimostrato che la psicoterapia di tipo psicodinamico è efficace contro la depressione così come contro altri disturbi mentali ma è stato ora possibile dimostrare una correlazione diretta tra il metabolismo di una particolare regione cerebrale e la risposta a questo tipo di terapia.
Nel recente studio 16 patienti depressi che non rispondevano alla terapia farmacologica! sono stati sottoposti per 16 settimane ad una terapia psicodinamica – videoregistrata e controllata da altri psichiatri – e sono stati sottoposti a PET prima e dopo la terapia. 9 dei pazienti inoltre hanno portato a compimento l’intera terapia e 7 l’hanno invece interrotta. Ebbene, è stato anzitutto dimostrato che la riduzione dell’attività metabolica di una specifica regione cerebrale, l’insula anteriore, prima e dopo il trattamento era significativamente correlata con una maggiore riduzione dei sintomi depressivi e con il grado di insight, di consapevolezza cioè dei partecipanti allo studio.
Inoltre la PET prima del trattamento terapeutico ha evidenziato una significativa differenza tra l’attività metabolica di un’altra area cerebrale, il precuneato (la regione posta cioè all’estremo del lobo parietale, appena prima del cuneo occipitale) tra pazienti che hanno successivamente portato a termine o la psicoterapia psicodinamica e quelli che l’hanno interrotta. I pazienti con una maggior attività metabolica nel precuneato – regione già associata con la consapevolezza di sé e la memoria – dimostravano anche una maggiore “psychological mindedness”, la capacità cioè di riconoscere e comprendere le proprie emozioni, motivazioni e azioni, e per lo stesso motivo portavano a termine con successo la terapia psicodinamica. Il contrario invece per quelli con ridotta attività metabolica nel precuneato, destinati ad interrompere la terapia psicodinamica.
“As with all psychiatric interventions, it is notoriously difficult to know ahead of time who is likely to have a good response to psychodynamic psychotherapy and who is not,” says Roffman, an assistant professor of Psychiatry at Harvard Medical School. “Identification of biological markers that could predict treatment success is a ‘holy grail’ in psychiatry; and while the measured differences in psychological mindedness between completers and noncompleters were insignificant, the significant difference in precuneus metabolism suggests that it may a sensitive predictor of treatment response, something that needs to be confirmed in larger trials.”
Altri straordinari progressi sono auspicabili ed immaginabili, soprattutto se neuroscienziati e psichiatri ma anche psicanalisti, psicologi, sociologi, antropologi etc intensificheranno il dialogo da poco timidamente avviato.
Forse tra pochi anni PET e magari esami molto più semplici ci diranno in anticipo qual è la terapia più adatta per ogni tipo di disturbo psichico. La doverosa attenzione alla scientificità dei metodi psicoterapeutici non deve però far dimenticare l’insostituibile unicità del rapporto paziente/terapeuta, che, indipendentemente dal tipo di terapia, continua ad essere a tutt’oggi il principale fattore di guarigione. Perché come diceva Balint “la terapia si realizza né nel paziente né nel medico [terapeuta] ma tra i due”.
http://giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com/2014/11/16/verso-una-terapia-personalizzata-della-depressione/

TARTUFO CULTURALE. Lasciatemi con Molière, quello di Garboli, che già aveva capito e disse: “Come ridere di Lacan?” 
di Guido Vitiello, ilfoglio.it, 17 novembre 2014

Lasciatemi, vi prego: spenderò i prossimi mesi chiuso nella mia stanza in compagnia di Molière, rileggendo il poco che ho letto e leggendo tutto il resto. I contatti con i miei simili si ridurranno a qualche mancia allungata dall’ombra ai consegnatori di pizze a domicilio. Non che voglia scimmiottare il misantropo Alceste (“Laissez-moi, je vous prie” è la sua prima battuta), ma non vedo altra scelta dopo aver letto questa frase di Cesare Garboli: “Spesso mi chiedo che cosa ne sarebbe di tanta mitologia culturale contemporanea, se esistesse oggi un provocatore della stessa forza comica di Molière”. Dunque l’ho sempre avuta sotto gli occhi, la chiave, e mi ostinavo a cercarla per angoli bui. Era qui, in questo breve articolo del 1986 intitolato “Come ridere di Lacan?”, uno dei testi di Garboli che Carlo Cecchi ha raccolto per Adelphi in “Tartufo”.
Con il suo personaggio più nero, diceva Garboli, Molière ha creato un archetipo; non già dell’ipocrisia, come per lo più si ritiene, ma del potere intellettuale e spirituale quando nasce dal risentimento e dalla frustrazione. Tartufo è prete, politico e psicoanalista in un sol uomo; è il curatore d’anime, il guaritore di nevrosi e il diplomatico sopraffino; ma è anche l’attore che porta a un grado eroico la malafede congiunta all’intelligenza, l’arci-impostore che illumina suo malgrado l’impostura generale, l’incantatore di famiglie perbene che semina scandalo “nel quieto e mortale teatro di tutti i giorni”, lo spirito intimamente servile che per spadroneggiare deve richiamarsi agli interessi del Cielo. Il cielo della religione, nel Seicento di Molière; oggi il cielo della cultura e del prestigio intimidatorio che conferisce ai suoi sacerdoti. Intorno al 1968, mentre traduceva “Tartuffe”, Garboli conobbe Lacan in casa di amici e subito fiutò, dietro l’uomo, l’archetipo. Si ritrovò sotto il naso una strana varietà di Tartufo e capì che, proprio come Molière, non aveva l’obbligo di prenderlo sul serio: “Quale mutilazione può essere più orribile di quella che ci vieta di ridere di ciò che è comico?”.
Non sono così certo che l’archetipo di cui parla Garboli sia nato con Molière, e ricordo un bel libro di Michael André Bernstein, “Bitter Carnival”, che descriveva una famiglia di personaggi tutto sommato simili a Tartufo trovandone i capostipiti già in Orazio. Ma non è questa la chiave a lungo cercata di cui dicevo. Quel che mi ha conquistato, al punto da spingermi alla clausura spontanea, è l’idea che il modello della critica della cultura possa o debba essere il teatro, e che a certi incantesimi si possa sfuggire solo immaginando di assistere a una commedia di Molière. Si perde tanto tempo e tanto ingegno a confutare delle idee, delle posizioni, quando il più delle volte basterebbe catalogare delle pose, delle posture, dei modi di occupare il palco. Un nuovo Molière potrebbe mettere in scena tutta la cabala dei moderni devoti, che giurano di servire gli interessi del Cielo della cultura (“La cabale des dévots”, per inciso, è il titolo molieriano di una splendida satira culturale di Jean-François Revel). Fossi il Re Sole, per esempio, commissionerei al commediografo una pièce sui benjaminiani d’Italia, di tutti i più cabalistici e i più devoti, superati forse solo dagli heideggeriani di provincia. Immagino poi che l’autore del “Medico per forza” si divertirebbe un mondo a satireggiare i teorici di quella strana trouvaille che ha nome “biopolitica”. E non vedo alternativa a un Molière per ritrarre in una scenetta, che so, Agamben e Toni Negri in giro per l’America Latina, intenti ad ammannire a un pubblico assorto quegli intrugli di teologia e marxismo che puzzano d’impostura tartufesca da lontano un miglio.
Molière non è più nei dintorni, ma scommetto che nel suo teatro c’è tutto quel che serve per osservare con gli occhi giusti il teatro della cultura di oggi. E così mi recludo. Lasciatemi, vi prego.
http://www.ilfoglio.it/articoli/v/122924/rubriche/mliere-teatro-tartufo-culturale.htm
 

PSICOTERAPIA, SE BREVE NON SEMPRE È EFFICACE A LUNGO. Messa in discussioni dagli esperti
di Redazione, ansa.it, 18 novembre 2014

Nella cura della psiche non sempre le terapie che durano meno e richiedono un minor dispendio di denaro sono un vantaggio: spesso, sul lungo termine, si può rimanere delusi, perché i benefici rischiano di non essere duraturi. Alcune psicoterapie brevi, come la terapia cognitivo comportamentale, una delle più diffuse “terapie parlate” e con la quale si curano con un numero di sedute da 5 a 20 in particolare i disturbi dell’ansia e dell’umore provando a cambiare il modo in cui si affrontano i problemi, sembrerebbero infatti non avere un beneficio duraturo sulle persone che vi si sottopongono. A distanza di due anni, infatti, chi è stato trattato con questa terapia per ansia o depressione non sembra stare meglio di chi non l’ha effettuata. Questo il pensiero di Oliver James, uno dei più noti psicologi inglesi, espresso in un articolo sull’edizione online del Daily Mail. Secondo James, occorrerebbe focalizzarsi sull’offerta tramite i servizi sanitari pubblici anche di terapie alternative, come ad esempio quelle psicoanalitiche, che vanno più nel profondo e hanno effetti più duraturi, sebbene richiedano un investimento maggiore di tempo e di denaro perché necessitano di più sedute.
“Al giorno d’oggi, quando si intraprende una terapia si vuole essere sicuri che le cose funzionino e siccome si ha poco tempo si vuole anche che funzionino rapidamente – spiega Roberto Goisis, psicoanalista della Spi (Società psicoanalitica italiana) – la terapia cognitivo comportamentale, sottoposta a prove di validazione, si è dimostrata efficace e rapida ma sembra esserlo nel breve periodo, mentre le terapie psicoanalitiche, che sono più lunghe, appaiono però più efficaci e stabili nel tempo”. “Anche a livello psicoanalitico, in ogni caso, esistono delle terapie brevi” conclude Goisis, focalizzando in particolare l’attenzione su una novità che arriva dalla Gran Bretagna, la Dit (Dynamic interpersonal therapy), con la quale si prova a curare la depressione in 16 sedute.
http://www.spiweb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=5327:psicoterapia-se-breve-non-sempre-e-efficace-a-lungo-ansa-18-novembre-2014&catid=745&Itemid=353

RECALCATI E IL MIRACOLO DELL’ORA DI LEZIONE. 
Lo psicoanalista autore de «L’uomo senza inconscio» presenterà il suo nuovo libro a Napoli, nella sala Silvia Ruotolo. Con lui la giornalista Titti Marrone

di Redazione, corrieredelmezzogiorno.corriere.it, 19 novembre 2014
Non c’è trasmissione di sapere senza un trasporto erotico: il buon maestro, oggi come ieri, ama il sapere, rendendo il sapere oggetto di desiderio. Di questo e d’altro parlerà venerdì 21 novembre alle 18,30 Massimo Recalcati nel corso della presentazione del suo «L’ora di lezione» (Einaudi). L’incontro si terrà nella sala consiliare Silvia Ruotolo, in via Morghen 84. Subito dopo il professore visiterà la libreria Iocisto dove incontrerà i lettori.
Per continuare:
http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/arte_e_cultura/2014/19-novembre-2014/recalcati-miracolo-dell-ora-lezione-230570402515.shtml
 

MASSIMO RECALCATI, FASCINO DISCRETO DEL LACANIANO POP 
di Stefano Olivari, indiscreto.info, 21 novembre 2014

La presentazione di L’ora di lezione – Per un’erotica dell’insegnamento (Einaudi) da parte di Massimo Recalcati, a cui domenica siamo andati nella veste di tassisti-accompagnatori, ci ha ricordato una volta di più che in ogni settore la credibilità presso gli addetti ai lavori è in qualche modo in contrasto con il successo commerciale. Nel variopinto e conflittuale mondo di psichiatri, psicoanalisti e psicologi (Recalcati è psicoanalista) questo meccanismo è ancora più evidente, a maggior ragione quando ad uscire dalla nicchia è uno che nasce studioso di Jacques Lacan come appunto Recalcati (che lo pronuncia come un francese vero, ‘Lacon’). Di più: Recalcati il suo percorso di analisi lo ha portato avanti a Parigi con Jacques-Alain Miller, che del defunto maestro è erede culturale oltre che genero (fossero italiani noi in sala d’aspetto diremmo ‘La solita Italietta’, invece vuoi mettere la meritocrazia francese?).
Messo nella giusta prospettiva Lacan, Recalcati da qualche anno ha svoltato in senso pop andando alla caccia di quel pubblico femminile mediamente acculturato che è il target di quasi tutti i libri commerciali dei colleghi, da Raffaele Morelli a tanti altri, ma anche di psichiatri come Vittorino Andreoli e Willy Pasini. Il successo del 55enne Recalcati presso il pubblico femminile è in effetti notevole, con percentuali da Take That, riuscendo ad intercettare varie fasce: dalla signora di mezza età che pensa di avere una vita vuota (sapesse la nostra…) alla ragazza convinta che tutto nella vita abbia un significato, dalla professoressa delle medie con Repubblica nella borsa all’impiegata che passa tre ore al giorno in treno sentendosi superiore al vicino di posto con Harmony o Tuttosport (se non direttamente Candy Crush). Siamo dalla parte di Recalcati: è molto più difficile convincere all’acquisto un pubblico generalista che fare il fenomeno in una nicchia di persone che la pensa più o meno come te. In questo senso ci sembra che lo psicoanalista milanese, ex compagno di scuola del nostro/vostro Glezos all’istituto agrario (Milano è un paesone e ci sta stretta, solo New York e Saturno ci consentirebbero di dare il massimo) prima di laurearsi in filosofia, abbia avuto negli ultimi anni una evoluzione: ce lo ricordiamo quando parlava con sufficienza nannimorettiana di una giornalista di Gioia che gli aveva chiesto ‘Professor Recalcati, quale è il segreto della felicità?’, mentre adesso non ha più paura di andare verso il popolo.
Nella presentazione della scorsa settimana, nell’ambito di Book City, Recalcati ha tenuto per un’ora la scena da solo (cosa non facile, senza il moderatore a lanciare temi) e lo ha fatto in maniera interessante e coinvolgente nonostante il tema (la scuola e più in generale l’insegnamento) sia uno dei più trattati nella storia dell’umanità. Il problema, che avevamo notato leggendo il suo Cosa resta del padre? (su Indiscreto Paolo Morati ha recensito Non è più come prima) è che quasi tutto può essere detto in un quinto dello spazio e del tempo. Il concetto base dell’ultima opera è che la scuola debba formare un atteggiamento mentale, una predisposizione al sapere e alla sua rielaborazione, più che un enciclopedismo per forza di cose parziale. Da qui l’utilità di passare un pomeriggio a meditare su una poesia, cosa che si può fare solo negli anni di scuola (nessun disoccupato quarantenne, pur con la giornata libera, si metterebbe a meditare su Rimbaud), ma non per un valore storicizzato della poesia stessa quanto per sviluppare l’attitudine a conoscere e a conoscersi. Non proprio tesi nuove, siamo in zona banalità ma comunque una banalità ben presentata. Imbarazzante l’endorsement a Renzi (“Finalmente un presidente del Consiglio che capisce l’importanza della scuola”), per un momento abbiamo sperato che fosse ironico nei confronti delle maestre italiane di passaporto, ma nordcoreane dentro, che facevano cantare i loro alunni all’arrivo del premier.
Con riscatto di Recalcati nel finale, quando le mitiche ‘domande del pubblico’ non sono state poste da esseri umani ma da archetipi, tipo la casalinga di Treviso o il pastore lucano di Sogni d’oro. Prima domanda, che in realtà era un autosbrodolamento, di un anziano professore dall’accento avellinese con (si è intuito) un libro nel cassetto in cerca di pubblicazione. Seconda domanda di una signora milanese, casalinga (ma con domestica fissa, a occhio) disperata con figlia pseudoribelle iscritta a forza al liceo classico e che odia latino e greco. Terza domanda di una studentessa al secondo anno di psicologia, forse marchigiana, evidentemente innamorata di Recalcati e che da Recalcati voleva farsi notare. Il professore se l’è cavata da grande entertainer, accattivandosi l’uditorio femminile anche con l’esibizione del figlio, avendo il coraggio di stupire (ma non troppo) quando ha detto che se un ragazzo non vuole fare il liceo classico è bene che non lo faccia. Una passione può sempre nascere in un secondo tempo, una vera formazione può e deve essere discontinua.
http://www.indiscreto.info/2014/11/massimo-recalcati-fascino-discreto-lacaniano-pop.html

L’ULTIMA VERGOGNA 
di Viviana Ponchia, quotidiano.net, 22 novembre 2014

LE TANGENTI sulla pelle dei bambini, con quelle sulle case di riposo e sui funerali, chiudono il cerchio della vergogna. Alle estremità della vita e appena un po’ più in là è bello immaginare riserve inviolabili dove a nessuno può venire in mente di fare affari. E invece ci sono stimati professionisti che per un viaggio sul Mar Rosso riescono a convincere le mamme che la tetta è superata, molto meglio un frappè di latte in polvere. Ipotesi su come un pediatra trovi il coraggio di speculare sulla nutrizione di un neonato: il mercato inflazionato delle terre di mezzo (dentiere, protesi d’anca, silicone) spinge a tentare esperimenti inediti e comunque se uno ha preso quella specializzazione lì non può consigliare una valvola cardiaca difettosa. L’ipotesi numero due – etica professionale alla frutta – è altrettanto valida ma qualunquista. Resta una terza possibilità: sfruttamento dell’ignoranza. E qui entrano in gioco le madri.
QUALE DONNA non dubita della buona fede del medico che prescrive cocktail artificiali al posto della poppata? Quale donna non ha un’amica con l’occhio lungo che dice senti, fai un favore a tuo figlio e a te stessa, non dare retta a quel cretino e attaccalo al seno? C’è una letteratura sterminata sui vantaggi del latte materno e bisogna domandarsi come un piccolo pediatra predatore possa smontarla da solo. Anche il più cretino di tutti ha letto Freud e potrebbe sfruttarlo per dirottare una sprovveduta sul biberon con una mimica efficace e una citazione: «Un bambino sazio cade fra le braccia della madre e si addormenta felice con un sorriso sulle labbra rosse: questa immagine rappresenta il modello della soddisfazione sessuale che conoscerà più tardi». O quell’altro, Otto Gross, che pure di Freud fu un fiero oppositore: il piacere nel corso dell’allattamento non è del tutto innocente. Quei medici avranno tentato lo spauracchio della nevrosi, insistito sulle virtù dei beveroni che fanno diventare intelligenti, con moltissimi denti e gli occhi blu. Qualcuno avrà fatto ricorso al terrore mitologico: Giunone che allatta Ercole ormai adulto e barbuto. Vede, signora, è così che prendono il vizio.
http://www.quotidiano.net/l-ultima-vergogna-1.424414
 

UNO, NESSUNO CENTOMILA SADE. PORNOGRAFO LIBERTINO O ILLUMINISTA RADICALE? I testi meno noti su leggi, libertà e ateismo offrono un quadro inedito del “Divin Marchese” 
di Paola Dècena Lombardi, La Stampa, 22 novembre 2014

Sade, chi era veramente? Un abietto, aristocratico Lucifero, che da astuto giacobino d’occasione ha cavalcato gli sconvolgimenti della Rivoluzione francese per accreditarsi poi come un filosofo-scrittore, più per aspirazione e prestiti che per originale realizzazione? O è stato la vittima sacrificale di un’epoca di passaggio di cui ha condiviso privilegi e lussuria, utopia rivoluzionaria e disillusione? Celebre più per la dismisura dell’erotismo che pervade quasi tutti i suoi romanzi e per l’ateismo che erige a sistema, assai meno per l’esperienza di vita e per gli altri scritti: per chi si accosta alla lettura di Sade, a due secoli dalla morte, l’interrogativo resta. Chi era veramente l’uomo accusato di «libertinismo estremo», che tra brevi arresti e detenzione ha passato più di trent’anni recluso, prima tra il forte di Vincennes e la Bastiglia, poi tra l’Ospizio per carcerati e malati di mente di Charenton?
All’erotismo di Sade si è rivolto quasi subito l’interesse critico, ma il percorso per una rivalutazione è stato lungo. E al lettore, soprattutto italiano, sfugge in gran parte l’altro Sade, l’autore di testi di carattere filosofico, politico e critico letterario. Il Dialogo tra un prete e un moribondo, che mette in scena un’apologia dell’ateismo in nome dell’uomo secondo natura; La modalità della sanzione delle leggi, in cui Sade propugna la partecipazione popolare diretta nell’elaborazione del processo costituente, e L’idea sui romanzi, che ripercorrendo dalle origini la storia dell’affabulazione fino alla narrazione romanzesca, dalla dissertazione erudita e dalla lettura critica della letteratura contemporanea approda a un’appassionata autodifesa, propongono un piccolo tassello dell’altro Sade. E riferendosi a tre momenti diversi della vita ne rivelano atteggiamenti, stati d’animo e letture che danno la misura della sua cultura illuminista.
Nel primo, il tu con cui il moribondo si rivolge al prete che gli risponde con il voi, rispecchia l’orgoglio dell’aristocratico che «circondato dal lusso e dall’abbondanza, giunto all’età della ragione (ha) creduto che la natura e la fortuna si fossero unite per colmarmi dei loro doni. E un pregiudizio così ridicolo (lo) ha reso altero, dispotico e collerico». La foga con cui il citoyen mette in guardia dal pericolo di una delega che non tenga conto dell’assenso popolare nel sancire le leggi, può far supporre una strategia per rafforzare la sua fede politica, ma anche l’anarchismo che caratterizza tutti i suoi comportamenti.
Scritta in carcere, quando ancora spera nella libertà, L’idea sui romanzi che metterà in prefazione ad Aline e Valcour, è l’ancora di salvezza che dovrebbe convincere a riabilitarlo. Attraverso la rassegna erudita che all’inizio mette a dura prova il lettore ma che poi si stempera nell’interpretazione, c’è la passione dell’uomo di lettere gran lettore e grafomane, che nella scrittura e nella rappresentazione di pièces teatrali troverà l’unica via di salvezza alla sua condizione.
Contro la mitizzazione poetica e morale dei surrealisti, Klossowski e Lacan, Bataille e Foucault, Deleuze, Barthes e Sollers, tra gli altri, con i loro saggi hanno indagato in modo critico aspetti di carattere religioso, filosofico e psichico, letterario dell’opera complessa e della travagliata esperienza di vita di Sade. Ma di fronte all’ambiguità della dismisura dello scrittore e dell’uomo, resta il desiderio di saperne di più. Cosa c’è a monte dell’esperienza? Cos’ha segnato profondamente l’infanzia e l’adolescenza di Sade? Il suo silenzio in proposito, interrotto in brevi frasi o allusioni, sembra riflettere un pudore di chi non voglia coinvolgere i suoi corruttori.
Dalla montatura del caso Sade da parte dei contemporanei e dalle contraddizioni e ambiguità dell’uomo, che emergono sul filo dei testi in cui molti sono i calchi e i prestiti, la figura di Sade appare, almeno a chi scrive, doppiamente vittima: del suo tempo e di se stesso. È inevitabile, infatti, chiedersi perché non abbia cercato mediazioni più proficue mostrando ravvedimento o maggiore prudenza. Perché abbia seguitato a subire una condizione disumana rivendicando «una fermezza d’animo che non ha mai saputo piegarsi e che non si piegherà mai». Per orgoglio aristocratico o per identificazione nel ruolo di filosofo-martire perseguitato? In questo caso, l’idea di Freud che il sadismo comporti necessariamente un elemento masochista, risulterebbe pienamente confermata. E con l’esempio più appropriato.

QUEL DETENUTO S’È CONQUISTATO UNA FAMA COSÌ TRISTE. «La prima terapia sperimentale alla base della moderna antipsichiatria»?

La Stampa, 22 novembre 2014
Dal carteggio in appendice al volume di Castelvecchi pubblichiamo un brano di Roulhac du Maupas, direttore nell’ospizio di Charenton, che sostituì l’abate Coulmier dopo anni di lamentele del medico capo Royer-Collard, il quale, non condividendone i metodi, si era più volte rivolto al ministro dell’Interno. Autoritario ma paternalista con i reclusi, Coulmier concedeva grande libertà di movimento. Su suggerimento di Sade, cui permise di avere accanto l’amante, autorizzò feste e rappresentazioni teatrali dai suoi testi, con gli stessi reclusi come attori, che sono considerate la prima terapia sperimentale alla base della moderna antipsichiatria:
 
A.S.E IL MINISTRO DELL’INTERNO
7 settembre 1814
Signore, S. E. non ignora quale trista fama il marchese de Sade si sia conquistato. A seguito della parola data per iscritto al mio predecessore M. de Coulmiers, nel floreale dell’anno X, che avrebbe lavorato «soltanto a distruggere le cattive impressioni che potevano essergli state messe in conto e a meritare la sua stima», ottenne dalla polizia di essere trasferito da Bicêtre a Charenton… Quando ho preso in mano l’Amministrazione della Casa il 1° giugno scorso, ho trovato M. Sade che godeva, di fatto, di una libertà quasi completa poiché, oltre alle uscite quasi al di fuori della Casa, si diverte a passeggiare in ogni parte della Casa e dei giardini che è aperta agli ospiti liberi e questo a tutte le ore in cui gli va di passeggiare.
M. de Sade in stato di arresto per decreto firmato Napoleone in fondo ai rapporti presentati al Consiglio privato seguita ad essere prigioniero di Stato a Charenton. A 74 anni, affetto quotidianamente dopo i pasti da coliche di stomaco molto violente come lui stesso mi ha detto e Mme Quesnet mi ha confermato, non nego che possa aver bisogno di stare all’aria aperta e di camminare. Ma con tale pretesto deve anche essergli facilitato il contatto con tutti i frequentatori della Casa, il possesso delle penne, dell’inchiostro della carta e la possibilità di scrivere, far copiare e inviare le sue opere all’esterno? Non vedo che un mezzo per prevenire i pericoli da cui è minacciata la Società per la residenza di M. de Sade a Charenton. S.E. voglia ritirarlo da questa casa e consegnarlo a S.E. il Direttore generale di Polizia del Regno affinché ne disponga come giudicherà e trovi un modo di accordare la sicurezza e i pubblici costumi con i riguardi dovuti all’età e alle malattie di M. de Sade…
Ma scongiurandola di liberarci finalmente di M. de Sade, debbo al contempo supplicarla di provvedere affinché la Casa di Charenton non perda una rimanenza di 8.934 franchi delle sue vecchie spese di pensione…
Roulhac Du Maupas
 
http://materialismostorico.blogspot.it/2014/11/i-saggi-di-sade-su-leggi-liberta-e.html
(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)

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