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Malattia mentale e pericolosità. Alle origini di una categoria criminologica e culturale

16 Feb 15

Di rita.corsa e martucci
ABSTRACT
The Authors examine the historical and cultural itineraries that produced the equation "psychic pathology = dangerousness". During the nineteenth century, the success of the concept of degeneration and the spread of evolutionism in biology and social science contributed to the affirmation of the trinomial "madness – crime – bio-determinism".  The convergence of positivist anthropology, Lombrosian criminology and organicistic psychiatry nourished the idea of a proximity between crime and madness, and directed management of criminal and civil asylums towards prevailing aims of control and social defense.
The Authors highlight the importance of the extensive work of the popularization of new criminological and psychiatric categories carried out by social scientists of that age.
 

 
ABSTRACT
Gli Autori esaminano gli itinerari storico-culturali che originarono l’equazione “patologia psichica = pericolosità”. Nel corso del XIX secolo, il successo del concetto di degenerazione e la diffusione dell’evoluzionismo in campo biologico e sociale contribuirono all’affermazione in ambito scientifico del trinomio “follia – delinquenza – biodeterminismo”. La convergenza fra antropologia positivista, criminologia lombrosiana e psichiatria organicista alimentò l’idea della prossimità fra crimine e follia e orientò la gestione dei manicomi criminali e civili verso prevalenti finalità di controllo e difesa sociale.
Gli Autori evidenziano l’importanza della vastissima opera di divulgazione popolare delle categorie  criminologiche e psichiatriche svolta dagli scienziati sociali dell’epoca.

 
 
 
E’ di stretta attualità il lento e tormentato percorso legislativo ed attuativo verso la definitiva soppressione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (O.P.G.). Rispetto ai dibattiti in corso, può essere opportuno ed utile rievocare gli itinerari storico-culturali che favorirono l’affermazione a livello scientifico e sociale dell’equazione “patologia psichica = pericolosità”. Vedremo come le matrici di tale paradigma vadano in larga misura ricercate nella stretta alleanza operativa che si determinò tra la psichiatria positivista ottocentesca e la neonata scienza criminologica.
 
Il secolo dei manicomi
 
            «Come da un secolo si ammise, contro le opinioni medievali, che la pazzia non dipende dalla nostra libera volontà, così ora bisogna riconoscere che non ne dipende nemmeno il delitto. Delitto e pazzia sono due sventure: trattiamoli entrambi senza rancore, ma difendiamoci da entrambi» (Ferri, 1892, p. 718).
La citazione è tratta dall’edizione del 1892 del Trattato di Sociologia Criminale, uno dei testi più noti e fortunati di Enrico Ferri, giurista, parlamentare, futuro leader socialista. Ferri, seguace critico di Cesare Lombroso, era, dopo questi, il nome probabilmente più prestigioso della scuola criminologica italiana e massimo promotore della Scuola Positiva, la corrente che si batteva per un rinnovamento del sistema penale ispirato alle conquiste delle scienze sperimentali, dove alla classica concezione della colpa basata sulla  responsabilità personale cui consegue la pena afflittiva doveva subentrare la categoria della pericolosità sulla base delle caratteristiche bio-psichiche individuali, da contrastare con un insieme di misure preventive, trattamentali e contenitive (i c.d. “sostituti penali”) in un’ ottica di difesa sociale.
La frase di Ferri sintetizza molto bene il successo riscosso in una parte significativa della cultura italiana (ma anche europea) dalla nuova concezione delle due più inquietanti manifestazioni del disordine sociale: il crimine e la follia. Esse andavano affrontate sulla base di dati empirici, con il criterio razionale di un approccio rigoroso ma tecnicamente “neutrale”, scevro da emotività e da rancori vendicativi.
In numerose opere dedicate alla storia del controllo sociale ed all’antropologia della devianza capita di incontrare la definizione dell’Ottocento come “secolo dei manicomi” (1). È un concetto che trae origine dall’effettivo rapido diffondersi della nuova istituzione in Europa, a partire dal trentennio fra il 1810 ed il 1840, soprattutto in Inghilterra, in Francia ed in una parte dei regni tedeschi, oltre che nella stessa Italia e che ha indotto taluni studiosi a sostenere una stretta connessione fra la prima rivoluzione industriale, l’affermazione della follia come categoria a se stante, della psichiatria come scienza medica autonoma e il proliferare della fondazione di nuovi manicomi (Dörner, 1975).
La chiave di lettura più nota e suggestiva di questa trasformazione epocale è senz’altro quella sviluppata da Michel Foucault in scritti celeberrimi come la Storia della follia nell’età classica (1961)  e Sorvegliare e punire (1975).
Secondo il filosofo francese l’eredità trasmessa alla psichiatria moderna sarebbe quella del grand renfermement, cioè della reclusione dei pazzi non in istituti specifici, ma negli ospedali generali o in istituzioni analoghe, a partire dalla seconda metà del Seicento. Il ricovero dei folli, insieme a tanti altri tipi di devianti e marginali (vagabondi, libertini, mogli e figli ribelli), non sarebbe stato caratterizzato da nessuna finalità curativa, ma solo segregativa, un mero affaire de police  (Foucault [1961] 1988, p. 73, pp. 153 ss.).
La nascente psichiatria, in definitiva, non avrebbe fatto altro che offrire una copertura medica e scientifica alla pratica dell’internamento (Castel, 1980, pp. 41-73).  Come scrive Foucault «É fra le mura dell’internamento che Pinel e la psichiatria del XIX secolo incontrano i folli; è là – non dimentichiamolo – che li lasceranno non senza gloriarsi di averli liberati» ([1961] 1988, p. 71).
Quest’ultimo aspetto sarebbe divenuto centrale nell’elaborazione moderna di un paradigma scientifico del controllo sociale, secondo il processo descritto dallo stesso autore in Sorvegliare e punire. In questa chiave di lettura, l’atto fortemente simbolico di Pinel che, nel 1793, spezza le catene degli alienati reclusi a Bicêtre, preparerebbe in realtà il passaggio ad un "incatenamento legale". Con il suo tipico gusto provocatorio e paradossale, il filosofo francese segnala un particolare evento come emblema di un transito epocale, a cavallo fra XVIII e XIX secolo: l’internamento nel 1803 di Donatien Alphonse François Marchese de Sade — già recluso per molti anni alla Bastiglia in epoca pre-rivoluzionaria — nella casa di cura per malattie mentali di Charenton. Questo "passaggio di consegne" avrebbe sancito il mandato custodialistico attribuito dal nuovo secolo alla nascente psichiatria (Corsa, 2005/2013).
In fin dei conti anche il primo teorico delle istituzioni totali, Jeremy Bentham, aveva immaginato di accogliere “umanamente” i folli nel suo Panopticon, liberandoli, come Pinel, da ceppi e catene: «Le  celle individuali esposte alla sorveglianza, come nel caso della prigione, possono rendere – in questo caso come in altri – inutile l’uso delle catene e di altri strumenti di sofferenza corporale.  Senza dover progettare la costruzione di appositi manicomi  (…) in ogni casa di ispezione carceraria, ogni cella libera potrà fornire a questi infelici un appartamento tranquillo e adatto alle loro esigenze»  (Bentham [1791] 1995, letter XIX, pp. 81-82)
 La difesa sociale da questo genere di turbolenze non era dunque più affare della polizia ma compito della medicina psichiatrica, che avrebbe presentato la centralizzazione nelle strutture manicomiali come una conquista di civiltà, grazie al superamento di una situazione che vedeva una moltitudine di infelici sofferenti psichici dispersi in ospizi religiosi e privati, ospedali comuni, camerate delle prigioni, già esposti alle violenze arbitrarie di carcerieri ed alla squallida miseria di un abbandono indifferente (2). Tuttavia queste interpretazioni basate sull’applicazione di grandi modelli teorici portano inevitabilmente a forzature e semplificazioni, che ignorano, ad esempio la più complessa realtà di esperienze come quelle degli antichi Stati italiani, con l’ospedale di Santa Maria della Pietà a Roma, o la Casa di Santa Dorotea dei Pazzerelli a Firenze, sorti fra il XVI ed il XVII secolo, o lo stesso Ospizio della Maddalena a Bergamo, di origini trecentesche.
Il pregiudizio illuminista ha portato a sottovalutare le pratiche di ancìen regìme, riconducendole alla storia dell’assistenza a poveri e malati o della brutale segregazione di indesiderabili.
Ciò che emerge da nuove ricerche storiografiche «è l’originale e precoce intreccio tra finalità custodialistiche da un lato e terapeutiche dall’altro, che caratterizza il ricovero dei pazzi in molti antichi ospedali italiani (…)» (Roscioni, 2003, p. XIV). L’atteggiamento ambivalente verso i manicomi è in realtà presente sin dalle origini dell’internamento ospedaliero, almeno dalla metà del Cinquecento.
In ogni modo non ci proponiamo di ripresentare ancora una volta un’analisi dei percorsi di strutturazione delle istituzioni psichiatriche (segnatamente di quelle manicomiali) nell’arco del XIX secolo. Il nostro intendimento è quello di richiamare il contributo essenziale recato dalla criminologia positivista – particolarmente da quella lombrosiana – alla costruzione/affermazione del concetto di pericolosità dell’insano di mente, una pericolosità non solo derivata dalla effettiva commissione di delitti ma intrinseca alla sua natura di deviante psicobiologico e sociale.
 
 
Dalla paura del “furioso” alla pericolosità dell’alienato
 
            Nel millenario e contraddittorio rapporto delle culture con la sofferenza psichica, l’elemento della temibilità, della paura ispirata dai folli è largamente ricorrente, soprattutto a partire dal basso Medio Evo, quando ospizi e ospedali cominciano ad accoglierli. La volontà pietosa di assistenza, i tentativi empirici di cura, s’intrecciano sempre con intenti segregativi, rivolti anche a disciplinare l’agire incomprensibile del malato.
Così ad esempio nell’Ospedale romano di Santa Maria della Pietà, era contemplata sin dagli statuti del 1563 la presenza di una «guardia delli pazzi» tenuta a «governare» i pazzi, gestirli, controllarli e «tenerli netti» (3). Il pericolo che si ravvisa nelle azioni dei pazzi è fatto discendere da impulsività e irragionevolezza legate ad un disordine affettivo e morale che va contrastato anche con le punizioni corporali, tanto che si parla di «fare incatenare li furiosi e di gastigare li disubidienti, e di tenerli in timore con moderazione» (in Roscioni, 2003, p. 250).Come statuiva lapidariamente Paolo Zacchia nel suo fondamentale trattato seicentesco sui Mali Hipochondriaci, «ma più d’ogni altro accidente è alla fine miserabile quello, che toglie all’huomo l’uso della ragione, & lo rende non solo simile, ma da meno de’ Bruti irragionevoli»  (Zacchia, 1645, p. 33)
Tra Illuminismo e Positivismo i nuovi saperi introducono una concezione diversa, dove la pericolosità attiene ad una speciale categoria antropologica, in cui rientrano tanto i folli che i criminali, accomunati da tratti degenerativi e di arresto evolutivo. Sarà proprio l’affermata contiguità fra crimine e follia, conseguenza di un’analoga alterità organica e psichica, a consolidare potentemente, nei circuiti della comunicazione e nella stessa percezione del sentire comune, lo stereotipo della pericolosità del folle e quindi della conseguente necessità di un suo controllo permanente.
Non si deve dimenticare che nel XIX secolo per la prima volta si afferma una società di massa influenzata dai grandi canali di comunicazione (in primis la stampa quotidiana e periodica),  e che gli esponenti della prima criminologia – Lombroso fra tutti – saranno sempre attenti ad impegnarsi alla divulgazione popolare delle nuove verità, fedeli al mandato sociale che il Positivismo conferiva allo scienziato. In realtà, prima ancora della nascita ufficiale in Italia dell’antropologia criminale (4), nella comunità scientifica e culturale europea si era già largamente diffusa la categoria della degenerazione, anche in conseguenza dell’affermarsi dell’evoluzionismo in campo biologico e sociale.
Come è noto il concetto di degenerazione teorizzato dallo psichiatra francese Bénédict-Augustin Morel nei suoi celebri trattati del 1857 e del 1860, ed ampliato dal suo collega e connazionale Moreau de Tours, sosteneva l’idea che una serie di fattori patogeni, legati anche a disordini morali, fossero all’origine di forme di decadenza della razza umana, con l’affermazione di un legame ereditario fra gli arresti organici di sviluppo, la pazzia e la nevrosi da un lato, il delitto e la genialità dall’altro. In seguito,  l’ulteriore estensione della categoria  oltre l’ambito clinico la trasformò in un abusato paradigma esplicativo in campo antropologico, etnologico, storico, sociologico, dove ogni manifestazione psico-fisiopatologica assumeva il significato di sintomo o stimma di degenerazione.
Era una visione che trovava largo seguito specialmente in Francia e in Inghilterra. Nel 1868, uno  studioso britannico, Thomas Beggs, aveva  illustrato i pericoli letali della degenerazione in una relazione alla Associazione Nazionale per la Promozione delle Scienze Sociali:  «Poveri e criminali sono una classe degenerata; le loro condizioni derivano da difetti di organizzazione; è un fatto che gli uomini, le donne e i bambini che formano le classi pericolose hanno cervelli deboli o malati e sono rachitici, scrofolosi o sfiancati. Essi sono costituzionalmente inadatti o incapaci di imparare o di continuare qualsiasi lavoro fisso o permanente. Ciò è spesso il risultato di una trasmissione ereditaria, alla quale si aggiunge un’infanzia trascurata o la cattiva crescita, talvolta per insufficiente o precaria fornitura di cibo, o per alimenti di qualità inadeguata, o per una precoce indulgenza in comportamenti innaturali o viziosi» (Beggs, 1868, pp. 7-8).
Era necessario agire concretamente per controllare le classi “pericolose” e preservare dalla decadenza le nazioni europee. Una delle proposte che in quegli anni meglio sembrò rispondere a tali finalità, fu proprio l’eugenica, con l’applicazione dell’evoluzione darwiniana ad unità biologiche collettive (la razza e la popolazione) per contrastare le minacce della degenerazione.
Anche in Italia gli stereotipi della degenerazione ebbero larga diffusione, pure in ambito medico. Nel 1874 Gaspare Virgilio, medico primario del manicomio civile di Aversa, così scriveva: «Potendo la tendenza a delinquere essere niente altro che uno stato morboso (il che ci studieremo dimostrare) è di fatto dovuto in gran parte alla medicina l’applicarvi i rimedi, qualora sia in grado di apprezzarne la natura delle cause»  (Virgilio, 1874, p. 382). Se l’individuo delinquente è portatore di uno stato morboso, affetto da «tutti quei caratteri dell’ordine fisico intellettuale e morale pei quali il delinquente possa venir classificato nella categoria di quegli individui che rappresentano una deviazione morbosa del tipo umano», ciò consente, nell’ottica degli alienisti, di stabilire un legame tra i delinquenti e i folli, «i quali indiscutibilmente vanno ritenuti quale una degradazione morbosa della specie» (ibid., p. 384).
In un simile, favorevole contesto storico, la triade “follia – delinquenza – biodeterminismo” trovava le sue radici naturali e richiedeva soltanto la comparsa di un “catalizzatore ideologico” per distillarsi in un concetto “forte”, in grado di trasformarsi in una vera categoria culturale. È quanto avvenne con l’invenzione (nel significato etimologico di “scoperta”, “ritrovamento”) dell’atavismo (il riemergere di tratti primitivi in individui moderni) come teoria criminologica, e con la sua comunicazione narrata in termini semplici e suggestivi alla emergente società di massa: risiedono in questo probabilmente la vera genialità e l’irriducibile originalità di Cesare Lombroso, autore del primo tentativo organico di indagare sulla personalità del delinquente per formulare delle ipotesi sulle cause individuali del delitto, tanto da venir generalmente considerato «il padre della moderna criminologia» (Correra e Martucci, 2013, p. 21).
 
 
L’incontro fra psichiatria e antropologia criminale nel nuovo Stato italiano
 
            Nel percorso formativo di Cesare Lombroso – alienista, medico legale, antropologo – la questione del legame fra follia e crimine costituisce un nodo centrale.  Sin dal 1865 l’ancor giovane Lombroso intraprende lo “studio sistematico del pazzo”, applicandovi il metodo sperimentale.
Le opinioni degli autorevoli studiosi francesi e l’osservazione delle anomalie organiche in casistiche nutrite sono sufficienti per suggerire allo psichiatra veronese la cosiddetta “natura atavica” del delitto e l'affinità fra la pazzia (intesa come disturbo mentale cronico) e la criminalità. E’ però probabilmente un incontro fortuito a radicare in lui il convincimento della natura primitiva del crimine, quello con uno dei più noti omicidi seriali dell’epoca, Vincenzo Verzeni, lo strangolatore di donne condannato ai lavori forzati nel 1873. Questo contadino ventenne, originario della provincia bergamasca, «figlio e nipote di cretinosi, cretinoso e pellagroso  anch’esso», accusato di aver strangolato e dilaniato diverse donne  nel corso di uno o due anni, viene sottoposto a perizia affidata proprio a Lombroso. Tra i due si instaura una relazione di confidenza che va al di là del contesto giudiziale e, dopo la sentenza, Verzeni confessa le emozioni e le pulsioni dei suoi numerosi omicidi, in cui al piacere dello strangolamento si  accompagnava quello del cannibalismo  (Lombroso, 1873). Afferma di non provare rimorso e di ritenere giusta la pena in quanto, se fosse uscito libero «non avrebbe saputo resistere alla tentazione di sbranare e strangolare altre donne». 
É verosimile che sia stata proprio la figura di Verzeni, più di qualsiasi altra prima e dopo, a costruire il prototipo lombrosiano del pazzo atavico con gli istinti del carnivoro predatore: «Ora gli istinti primitivi, scancellati dalla civiltà, possono ripullulare anche in un solo individuo, quando in lui è deficiente il senso morale per l’ambiente in cui vive, ed è pervertito il senso carnale per l’eccessiva continenza» (Lombroso, 1873, p. 210). Applicando le categorie antropologiche dell'evoluzionismo darwiniano, il criminale è considerato un individuo che, a causa di una serie di anomalie, presenta caratteristiche feroci ed impulsive proprie di fasi ancestrali della razza umana, che lo portano inevitabilmente in conflitto con la società moderna: un “pazzo primitivo” la cui follia consiste «nel riprodurre al fisico e al morale i nostri proavi».
I riflessi delle teorie lombrosiane sulla psichiatria italiana (e non solo) saranno importanti,  pur in presenza di rapporti non sempre facili tra le due correnti, anche  per gli atteggiamenti disomogenei manifestati in campo psichiatrico a proposito dell’antropologia criminale.
D’altra parte il paradigma psichiatrico di Pinel, fondato sul principio del trattamento morale, non aveva trovato da noi grande favore, probabilmente per la distanza sussistente rispetto alla concezione della follia come malattia delle passioni, impostasi almeno parzialmente in Francia nei primi decenni del XIX secolo. In Italia la psichiatria (o freniatria) del tempo riservava maggiori consensi alle scuole mediche tedesche, si affermava in opposizione all'astrattezza di una filosofia metafisica e non poteva che incontrarsi con un'antropologia positivista, anzi «sembra quasi che positivismo, organicismo e psichiatra (…) facciano tutt'uno» (Frigessi, 2003, p. 154).  Ciò porterà a realizzare fra le due discipline un’alleanza definita come «soprattutto tattica» (ibid., p. 168), ma comunque importante.
Con l'avvento della freniatria, lo psichiatra si affermava come la sola autorità competente a curare la follia: il malato psichico – sempre potenzialmente pericoloso – andava in primo luogo allontanato dalla società e dai suoi stimoli destabilizzanti. In tale prospettiva, il manicomio diventava l'unica e vera pratica terapeutica, una realtà artificiale connotata da architettura, arredamento, organizzazione e disciplina peculiari.
Senza voler qui affrontare la questione dei manicomi criminali, la cui istituzione fu fortemente sostenuta da Lombroso e dai suoi simpatizzanti, si vuole sottolineare come le impostazioni antropologiche e criminologiche finirono per influenzare significativamente i percorsi dei manicomi civili, con il primato del metodo sperimentale che si traduceva nell’osservazione sistematica del corpo dell’alienato, dalle analisi urinarie ai rilievi antropometrici, sino all’algometria elettrica, ossia la misurazione della sensibilità dolorifica differenziale. Così, cercando i “fatti oggettivi”, la giovane psichiatria tentava di avvicinarsi alle invidiate certezze della medicina generale positivista, una ricerca che, privilegiando i corpi, fatalmente trascurava le persone.
Ancora nel 1906, il dott. Mario Falciola, aiuto nel Manicomio Provinciale di Como, scriveva che «il VI Congresso Internazionale di Antropologia Criminale che esalterà l’opera scientifica di Lombroso, segnerà il trionfo di quel Metodo Sperimentale nello studio medico-legale delle alienazioni dall’illustre Maestro inaugurato or fa otto lustri» (Falciola, 1906, p. 495).
Altro aspetto determinante per il consolidamento di un preconcetto di temibilità fu certamente il sostanziale pessimismo sulle reali possibilità di una guarigione o perlomeno di un effettivo recupero dei malati mentali, certo legata ai limiti terapeutici dell’epoca ed alla convinzione del fondamento strettamente organico e immodificabile delle patologie (5). Questo atteggiamento è ben sintetizzato nell’affermazione di Enrico Ferri: «Ci sono delle sventure che non perdonano, e danno soltanto qualche tregua: non potendone liberare del tutto l'individuo, facciamo almeno che egli non ne colpisca ancora la famiglia, la società» (Ferri, 1892, p. 76).
La sfiducia nelle prospettive terapeutiche induceva ad accentuare l’aspetto disciplinare, volto a neutralizzare la bizzarria e l’impulsività dei malati di mente. Coerentemente, nel 1869 Lombroso si esprimeva in termini assai duri sul trattamento degli alienati: «La moda ispirata dalla mansuetudine dei tempi (…) ha proclamato come ultimo e nuovo farmaco delle alienazioni, la dolcezza, la persuasione, l’astinenza da ogni mezzo contenitivo e perfino, che Dio li perdoni, l’assoluta libertà. Illusione ben singolare, quando si pensi come questo supremo bene riesca dannoso anche pei sani quando non sieno squisitamente educati ed onesti (…) Per parte mia io credo che pei pazzi occorre tanta severità quanta dolcezza, e forse più della prima che della seconda; massime quando si tratti di alienati ricchi, avezzi, prima, ad usare ed abusare della loro volontà (…) Fortunatamente pei partigiani della non restraint esiste un mezzo, comune agli avversari, e che ne tempera i danni – la doccia ed il bagno freddo. La doccia è, come la chiama l’egregio mio maestro, il Verga, nient’altro che una bastonata liquida, che maschera però ogni intenzione repressiva con una vernice terapeutica così densa da restare quasi velata ai profani, e qualche volta anche alla trepida coscienza del medico» (Lombroso, 1869, pp. 175-179) (6).
Ovviamente le istanze di difesa sociale divenivano massime nei confronti dei criminali riconosciuti pazzi, rispetto ai quali illustri esponenti della  psichiatria e criminologia positiviste manifestavano aperto disprezzo e repulsione. Il celebre freniatra Gaspare Virgilio, in uno scritto sul manicomio criminale, si confessava  «poco tenero di codesta classe perniciosa, infetta e infettante, da cui la società (che non vuole credersi in diritto di toglierla di mezzo) aspetta inutilmente la rigenerazione» (Virgilio, 1884, p. 18). Il barone Raffale Garofalo, un magistrato di posizioni conservatrici, importante esponente della criminologia italiana,   giungeva a negare esplicitamente la differenza tra pazzi e criminali: il «manicomio criminale, che ardentemente si invoca da ogni parte», doveva tradursi in un «carcere per l'alienato», dal momento che «la pazzia nociva o criminosa si punisce con la reclusione del pazzo»  (Garofalo, 1885, p. 225)  né escludeva la pena di morte per i più pericolosi. 
 
 
Divulgazione scientifica e narrativa della follia
 
            Conviene soffermarsi ulteriormente su di un aspetto già accennato, la cui importanza spesso si tende a trascurare o a sottovalutare: la vastissima opera di divulgazione delle nuove categorie  criminologiche e psichiatriche svolta in Italia (e in gran parte d’Europa) dagli scienziati sociali, indirizzata non solo al consesso accademico, ma anche ai ceti popolari in nome del primato di una pedagogia del sapere.
Ad autorevole testimonianza del prestigio conquistato dalle idee lombrosiane, si può richiamare la stessa voce del padre della psicoanalisi. In una lettera del 18 febbraio 1926, indirizzata ad Enrico Morselli, nome illustre della psichiatria italiana, Sigmund Freud così scriveva: «Sebbene estraniato da molto tempo dalla religione dei miei antenati, non ho mai abbandonato il sentimento dell’affinità con il mio popolo e penso con soddisfazione che Lei chiama se stesso scolaro di uno dei miei compagni di stirpe, il grande Lombroso» (Freud, 1926; 1990, p. 302).
La centralità comunicativa di Cesare Lombroso emerge anche in campo giornalistico: egli fu tra i collaboratori scientifici abituali del Corriere della Sera, de La Stampa e della Gazzetta del popolo – con contributi su medicina, psicologia, criminologia – ed intervenne su molti altri quotidiani italiani (L’Adige, La Riforma, Il Giorno, Il Progresso, l’Avanti!), raggiungendo pressoché tutta la penisola e avvicinando i lettori alle tematiche trattate «con stimoli e riflessioni singolari, nonché una scrittura efficace e ardita» (Forno, 2010, p. 207). 
Ma i suoi articoli erano ospitati sin negli Stati Uniti, su testate di rilievo come il New York World e il New York Journal; quest’ultimo, che arrivava a ben seicentomila copie giornaliere, ripubblicava regolarmente e «sempre nel posto d’onore» quanto Lombroso scriveva sui giornali italiani (Forno, 2010, p. 224).  Molti altri studiosi vicini alle posizioni lombrosiane – antropologi, giuristi, psichiatri – intervenivano nel dibattito politico e sociale sui quotidiani o su riviste di grande tiratura come L’illustrazione italiana.
Né va dimenticato che la neonata medicina mentale aveva compiuto fin dagli inizi un sorta di annessione della letteratura europea: l'alienista trovava nell'opera letteraria una conferma della sua pratica e l'intersezione tra medicina e letteratura si sarebbe sviluppata durante tutto l'Ottocento in un lungo dialogo, alternando mimetismi e dissensi (7). In particolare, temi, immagini e idee lombrosiane sono ripresi in contesti letterari fra loro eterogenei da scrittori famosi: da Emìle Zola a Guy de Maupassant, da Bram Stoker a Conan Doyle. Nei romanzi di Zola Lombroso ammirava la «descrizione più perfetta di quella che io chiamo vertigine criminale epilettoide, ch'é per me il fondo del reo-nato». Del resto, in un articolo uscito sulla autorevole Revue des deux mondes (1 dicembre 1897), il famoso critico letterario e scrittore polacco Théodore de Wyzewa, riconosceva che metà della narrativa italiana si ispirava alle «doctrines lombrosistes» e che nell'altra metà formule di risonanza lombrosiana si incontravano ad ogni pagina. Basti ricordare Verga, Capuana, Dossi… e di De Amicis  è stato scritto che «Cuore traduce Lombroso» (Colombo, 1975, p. 20).
I riflessi di tutte queste contaminazioni andarono ben oltre l’orizzonte dei romanzi. In definitiva, l’intreccio fra criminologia positivista, psichiatria, divulgazione scientifica e letteratura di massa che si realizza nella società italiana post-risorgimentale si rivelò determinante nella affermazione popolare di una vera e propria categoria narrativa sui temi della follia e del crimine, dove la semplificazione delle nuove idee concorrerà a ispirare e rafforzare stereotipi, convincimenti e orientamenti collettivi (8).
Non fu certamente estranea a questo clima l’approvazione, dopo dibattiti protrattisi per circa 40 anni, della ben nota legge 14 febbraio 1904, n. 36, intitolata «Disposizioni sui manicomi e sugli alienati», una normativa  poco attenta agli aspetti terapeutici,  dominata invece da preoccupazioni di difesa sociale e che, senza aderire esplicitamente ad una visione scientifica generale, aveva finito per formalizzare la concezione della pericolosità come qualità potenziale intrinseca alla malattia mentale e, più in generale, a qualsiasi tipo di devianza sociale. Basti ricordare l’obbligo di segnalazione alla pubblica sicurezza e di iscrizione al casellario giudiziario che scattava in seguito al ricovero in un manicomio civile, a prescindere dalla commissione o meno di reati da parte dell’internato. 
 
 
«Una immensa latrina»
 
            Ma rispetto al sistema manicomiale che si andava costituendo, come si ponevano quegli studiosi che avevano più o meno consapevolmente contribuito a diffondere quei convincimenti che ne venivano posti a giustificazione?  In molti casi con aperta perplessità e insoddisfazione.
Ci piace concludere rievocando ancora una volta il nome più rappresentativo: nei primi anni del Novecento Cesare  Lombroso avrebbe stigmatizzato «sistemi medievali di custodia e pene ai pazzi nel XX secolo» ed «un manicomio criminale in A. [Aversa] che potrebbe chiamarsi una immensa latrina» (Lombroso, 1903, p. 94).  Del resto, poco prima, accostandosi al socialismo, il padre dell’Antropologia Criminale era giunto ad una sorta di svolta epistemologica rispetto al suo pensiero precedente, affermando provocatoriamente la «funzione sociale del delitto» (Lombroso, 1896). Alla fine del secolo, di fronte a un’Italia in cui tramontavano gli ideali risorgimentali e le tensioni sociali andavano crescendo, Lombroso riconosceva come vero motore della storia proprio il soggetto trasgressivo, fosse esso il rivoluzionario, il genio, il folle o l’anticonformista. Lungi dall’essere solo una sostanziale predisposizione al delitto, una «qualità pericolosa», pazzia e degenerazione potevano anche produrre creatività e innovazione.
Paradossalmente, in questa nuova visione è la normalità a risultare socialmente infeconda ed è il consumatore piccolo borghese, espressione paradigmatica dell’ “uomo-massa” contemporaneo ad essere stigmatizzato:  «Il vero uomo normale non è nemmeno colto, non è nemmeno erudito, non fa che lavorare e mangiare – fruges consumere natus» (9)  (Lombroso, 1896, p. XIII).
Ma questo esito sorprendente – che rende testimonianza della complessa ed evolutiva personalità dell’uomo – giunge ormai distaccato e tardivo, inadeguato a mutare o quanto meno temperare le ricadute socioculturali  della tanto a lungo affermata affinità fra pazzia e crimine. E saranno ricadute destinate a protrarsi nel tempo, per molti anni a venire.
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Note
 
 
1. Cfr. Martucci e Corsa, 2006.
 
2. Lo proclamava enfaticamente Bonacossa nel suo Saggio di Statistica del Regio Manicomio di Torino: «La medicina, secondata dai lumi sparsi per ogni dove dalle scienze che prevedevano incremento in Europa, riuscì finalmente, dopo varie inutili prove, a vincere ogni ostacolo frapposto dall’ignoranza, e tanto ottenne, che scossesi la gente adontate per la barbara e superstiziosa dimenticanza, a cui avevano per sì lungo tempo abbandonati i dementi, intrapresero ad alleviare in ogni maniera la miseranda condizione di essi. Laonde non più con ceppi né con prigioni, non più con minacce ed ingiurie né con percosse, ma con una dolce e moderata libertà, con appropriati e ben costrutti edifizi, con una ragionata ed equa medicina vollero a questa terribile calamità dell’umana specie andar incontro e riparare» (Bonacossa, 1837, p. 9).
 
3. Cfr. Roscioni, 2003, p. 248.
 
4. Tradizionalmente la si colloca nel 1876, l’anno della pubblicazione presso l’editore Hoepli della prima edizione de L’Uomo delinquente, il libro di Cesare Lombroso considerato il vero e proprio manifesto della nuova disciplina.
 
5. Riportando gli esiti delle proprie osservazioni psichiatriche effettuate “col metodo sperimentale”, Lombroso affermava «Le cause morali (…) furono pochissime e furono poche anche le morali associate alle fisiche (…) Fra tutte le cause l’influenza ereditaria spicca in un modo saliente così che credo poter affermare che otto volte su dieci la si possa riscontrare» (Lombroso, 1865, pp. 27-30).  Il milanese Andrea Verga, uno dei padri della psichiatria italiana, sosteneva le basi organiche della pazzia: «un’affezione congenita», oppure «acquisita ed accidentale del cervello (…) per la quale alterandosi le relative funzioni della sensibilità, della intelligenza e della volontà, un individuo appare diverso dalla comune degli uomini e da quel che era egli stesso» (Verga, 1874, p. 81).
Le straordinarie applicazioni tecnologiche delle neuroscienze in ambito neuropsichiatrico stanno riproponendo in una nuova versione questa antica e sempre attualissima tensione positivista.
 
6. Per amore della verità bisogna ricordare che, nella sua seppur breve esperienza alla direzione del manicomio San Benedetto a Pesaro (1871-1872), lo stesso Lombroso aveva posto in essere iniziative assai avanzate, ancora sotto lo stile del “trattamento morale”: dalle “scuole di alfabetizzazione” alle “conferenze”, dalle uscite domenicali degli alienati per gite nelle campagne alla stampa di un giornale affidato a questi ultimi.
 
7. Cfr. Rigoli, 2001.
 
8. Erano peraltro dinamiche comuni ad altri Paesi europei. Già nel 1860 in Inghilterra, il presidente dell’Association of Medical Officers of Asylums and Hospitals for the Insane (AMOAHI), John Charles Bucknill, lamentava la volubilità e la suggestionabilità dell’uomo della strada: «Adesso l'opinione pubblica è decisamente contraria ai manicomi; ma ben presto la marea defluirà, e poi qualche episodio di violenza volgerà di nuovo i pregiudizi del mutevole pubblico contro la libertà dei dementi. Pochi esempi che la colpiscono in un senso o nell'altro sono sufficienti per far cambiare direzione all'opinione pubblica» (Bucknill, 1860-61, p. 310).
 
9. Qui Lombroso adatta una frase di Quinto Orazio Flacco: «Nos numerus sumus et fruges consumere nati» (Epistulae, Liber primus, II, p. 27); «noi siamo nati a far numero, e a consumare pane».

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