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Facoltà di psicologia e tirocinio: per un nuovo inizio

10 Apr 15

A cura di Leonardo Dino Angelini

L’attuale maggioranza dell’Ordine degli psicologi in un recente incontro con il sottosegretario Faraone ha proposto di ridurre il tirocinio post lauream a soli sei mesi, (cfr: http://psy.it/comunicati-stampa/allegati/2015-02-26.pdf ) sollevando le ire di molti colleghi che vedono nella contrazione del tirocinio un ulteriore attentato alla serietà del nostro processo formativo.
Concordo con coloro che criticano questa proposta demagogica e svalutante; ma non credo che la soluzione del problema sia nel mero mantenimento dell’attuale assetto del tirocinio; ed anzi penso che la vera soluzione del problema del rapporto fra teoria e pratica psy – perché di questo si tratta – possa partire da un radicale ripensamento del tirocinio, ma – perché sia efficace – debba contemporaneamente essere estesa alla ridefinizione di tutto l’iter formativo.
Partiamo da un raffronto con medicina, già implicito nella visione che Ossicini aveva allorché operò per la nascita del nostro Ordine. Le facoltà di medicina sono strutturate come un luogo di cura all’interno del quale prima della laurea, da un certo punto in avanti, lo studente in medicina deve fare pratica. E questo garantisce per il prossimo medico una formazione teorico-pratica all’interno della quale il tirocinio (il praticantato) ha un posto preminente.
Domanda: si può dire che le facoltà di psicologia abbiano un iter formativo simile? A mio avviso no: le facoltà di psicologia, o almeno le facoltà di psicologia italiane non prevedono l’esistenza a livello istituzionale di alcun momento di tirocinio in itinere interno alle facoltà. Ciò che da qualche tempo viene proposto allo studente è un tirocinio nelle strutture convenzionate privo di qualsiasi riscontro e di qualsiasi legame con il corso di  studi, che rimane teoreticista e sganciato dalla pratica, così come quello post lauream previsto fin dall’inizio degli anni ’90, che rimane in piedi, ed al quale dopo altri sei mesi segue l’esame di stato.
Faccio il tutor di tirocinio da oltre venti anni e posso testimoniare che sia lo striminzito tirocinio in itinere, sia quello post lauream[1] non solo non sono pensati, ma in base alla mia esperienza, sono letteralmente evacuati fuori dall’università: senza alcun controllo sulla serietà, la coerenza, la disponibilità reale da parte delle strutture convenzionate e dei singoli tutor a impegnarsi realmente e lealmente nel processo formativo del tirocinante psicologo.
Diverse sono le prove che possono essere apportate a sostegno di questa tesi. Una per tutte: l’assenza di tutor di facoltà che si preoccupino di guidare e monitorare il tirocinio. Quando – come dicono i didatti del tirocinio (Guerra[2]) – perché un tirocinio possa essere definito tale c’è bisogno di un tutor che sappia insegnare al giovane i segreti del mestiere e – appunto – di un tutor di facoltà (Guerra lo chiama ‘tutor d’aula’) che raccolga i dubbi, le domande, le lamentele, che facilmente nascono in un luogo formativo particolarissimo, distante dalla facoltà e basato sul rapporto individuale e fortemente asimmetrico fra un singolo tutor ed un singolo tirocinante: un luogo di tentazione per eccellenza.
A mio avviso se si vuole rivedere tutto questo in primo luogo occorre agire a monte e ridefinire un piano di studi che permetta la “internalizzazione” e l’assimilazione del tirocinio all’interno delle facoltà. Per fare ciò l’unica via per me è quella di ritornare alla istituzione di un biennio propedeutico, cui segua un triennio specialistico all’interno del quale collocare il tirocinio.
Ciò permetterebbe anche di definire in termini separati i percorsi di laurea breve professionalizzante (educatore della riabilitazione, logopedista, psicomotricista, etc.); e indirettamente – se fatto con criterio, cioè pensando a ciò che offre il mercato – di sfebbrare la pletora di iscrizioni alla specialistica, e di offrire uno sbocco lavorativo reale a coloro che intendano limitare la loro preparazione al triennio.
In secondo luogo occorre rivedere drasticamente il rapporto con i luoghi esterni di tirocinio, selezionando i tutor di tirocinio in essi individuati, istituendo i tutor di facoltà che dovranno lavorare a stretto contatto con i primi e istituendo luoghi di formazione a mio avviso -almeno all’inizio-  autonomi rispetto alle facoltà sia per gli uni che per gli altri, in modo che si formino dei veri e propri pool di tirocinio in grado di garantire qualità e tutele. La cosa migliore sarebbe remunerare sia gli uni che gli altri, reperendo le risorse a partire da un ampliamento dei fondi messi a disposizione dal Miur, e dalle tasse annuali: questo oltretutto, se abbinato alla erogazione di borse di studio per i meritevoli provenienti da famiglie a basso reddito, potrebbe diventare un secondo elemento di scrematura delle iscrizioni a psicologia.
In terzo luogo occorrerebbe centrare la tesi di laurea su elementi teorico-pratici emersi dal tirocinio, fatta eccezione per quegli studenti che abbiano intenzione di laurearsi su argomenti inerenti le materie del biennio propedeutico.
Infine si potrebbe prevedere l’abbinamento del momento della tesi con quello dell’esame di stato, istituendo una procedura che inglobi nell’esame di laurea un insieme di domande volte ad appurare la conoscenza da parte del laureando delle leggi, del codice deontologico, etc. –
In questo modo il neolaureato in psicologia da una parte sarebbe capace, più di quanto sia ora, di introdursi con competenza nell’esercizio della professione. Dall’altra ad introdurvisi con due anni di anticipo rispetto a quanto accade oggi. E ciò, specie per coloro che poi vorranno diventare psicoterapeuti e per le loro famiglie, significa molto: altro che le proposte senza costrutto di Giardina & Co. –
L’elemento reale che impedisce una soluzione simile (per gli psicologi così come per molti altri neolaureati e neodiplomati) è nel fatto che prolungare l’iter formativo di due anni copre la disoccupazione reale del paese; facendo diventare la scuola e l’Università dei silos in cui parcheggiare i neoadulti, contribuendo così ad addolcire i dati sulla disoccupazione giovanile! Nel nostro caso quelli della disoccupazione femminile. È anche per questo che il sottosegretario Faraone acconsente alla proposta Giardina.
 
 
 

[1] sia spesso quello specializzante imposto poi dalle scuole quadriennali di specializzazione a chi voglia diventare psicoterapeuta: ma questo è un altro discorso che faremo un’altra volta.
[2] Cfr.: Luigi Guerra, Il tirocinio nel processo formativo, in:  Tirocinanti e tutor. Il tirocinio come cerimonia di aggregazione del giovane dell’età adulta e del neoprofessionista nella professione, (a cura di L. Angelini, D. Bertani e M. Cantini), Coop Nordest, Reggio Emilia, 2002. pp. 35 \ 47

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