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BABADOOK, IL MALE RIPOSA IN CANTINA. LEGAMI INFERNALI TRA MADRE E FIGLIO

1 Lug 17

A cura di martucci

 
L’estate – come è noto – non è una stagione felice per le novità cinematografiche. Le sale sono meno frequentate e le grandi produzioni evitano di “bruciare” i prodotti migliori con uscite in luglio o in agosto. Esiste una filmografia di seconda schiera che viene utilizzata in questo periodo, dove si suppone un pubblico distratto e meno esigente; ed il genere horror vi ricorre di frequente.
Tuttavia capitano a volte delle sorprendenti eccezioni. E’ il caso di The Babadook, la pellicola di esordio di Jennifer Kent, una regista australiana con precedenti di attrice e con contatti di formazione con Lars von Trier. Il film, premiato al Sundance Festival del 2014, ha riscosso grandi apprezzamenti di critica e di pubblico a livello internazionale. Definito – alquanto limitativamente – un “horror freudiano” e – più felicemente – una “favola morale”, la pellicola conferma quanto gli appassionati ben conoscono da tempo: in campo cinematografico (ma anche letterario), le categorie dell’horror e più in generale del fantastico sono straordinariamente propizie a sviluppare efficaci metafore politiche (Carpenter docet) e/o filosofico-esistenziali (per restare in Australia basti ricordare il Peter Weir del folgorante Picnic at Hanging Rock).
La protagonista del film di Jennifer Kent è Amelia, una giovane vedova che tra le tante difficoltà di una esistenza squallida accudisce il suo unico figlio Samuel, di sei anni. Il rapporto madre-figlio (magistralmente descritto) è complesso ed estremamente logorante, poiché il bambino è iperattivo, insonne, indisciplinato, spesso violento coi compagni che lo temono, ed alterna aspetti di disarmante innocenza a tratti di crudeltà. Per Amelia il figlio è l’unica ragione di vita ed insieme un instancabile persecutore. L’ambivalenza estrema dei sentimenti connota sin dal primo vagito il legame materno ed è indelebilmente segnato dalla colpa originaria, tremenda ed insensata, che pesa sulla nascita di Samuel. La colpa di aver ucciso il padre. L’uomo, infatti, era deceduto in un incidente automobilistico verificatosi mentre accompagnava in ospedale la moglie in preda alle doglie.

Un giorno nella stentata e triste vita dei due compare misteriosamente un libro dal titolo Mr. Babadook, che si presenta come un volume di filastrocche per bambini. Malvolentieri, per le insistenze di Samuel, Amelia lo legge ad alta voce: in realtà si rivela una sorta di evocazione di un' entità maligna, Babadook appunto, che inizierà presto a manifestarsi: “Chiudi gli occhi, lui è con te… sei già morto, un, due e tre”. Il terzo che porta morte pare inscritto nel destino di questa coppia madre/figlio.
Sin qui si ripropongono gli stilemi di genere del libro maledetto, del babau o uomo nero o boogeyman, ma poi la trama si allontana dagli stereotipi. La coppia diventa protagonista di una favola nera in cui è la madre a trasformarsi progressivamente nell’orco, a farsi da perseguitata a persecutrice, ad agire la rabbia, il rancore, l’odio, la frustrazione e la vendetta nei confronti del figlio maledetto. Diviene il mostro di cui Samuel temeva l’avvento nella prima parte del film e giunge ad un passo dal figlicidio. Ma riesce a fermarsi e la pellicola si conclude in modo sorprendente. Senza scendere nei dettagli, madre e figlio conquistano un insperato equilibrio: Babadook viene soggiogato, ma non eliminato. Confinato in cantina come una sorta di impresentabile animale domestico, nutrito coi vermi raccolti nel giardino, condividerà da invisibile l’improbabile, ritrovata “normalità” domestica della famigliola.
I piani di lettura e le possibilità metaforiche sono molteplici, specialmente per uno psicoanalista. Ma stavolta lasceremmo da parte il modulo interpretativo analitico a favore del registro narrativo/letterario.
Uno dei tratti che sono stati segnalati come più disturbanti nel film della Kent è la rappresentazione degli aspetti violenti nella relazione “sacra” per definizione, quella fra madre e figlio. E i richiami sono inevitabilmente corsi a diversi e clamorosi delitti familiari. Ma il perturbante è probabilmente tale solo per i contemporanei: sotto il profilo dell’antropologia culturale l’idealizzazione della famiglia e dei rapporti fra adulti e bambini è una costruzione sociale recente, in gran parte frutto della rivoluzione borghese del XVIII e XIX secolo. Nella coscienza individuale e collettiva si sono infatti sviluppate delle forme difensive di negazione inconscia dell’aggressività fra generazioni. Un’ idealizzazione che non cancella altre realtà: non a caso il sociologo Murray Straus ha sostenuto che la famiglia è il contesto dove la violenza fisica assume le maggiori dimensioni, “fatta eccezione delle guerre”.
Su questo tema alcuni apologhi sfolgoranti sono nati dalla penna di Ray Bradbury, ritenuto il padre americano della fantascienza umanistica, con Cronache Marziane e Fahrenheit 451, a nostro parere semplicemente uno dei più significativi maestri della letteratura novecentesca tout court. Nel crudelissimo "Gioco d’ottobre" (The October Game, 1948) si narra della vendetta di un uomo contro la moglie, attuata tramite l’assassinio e lo smembramento della piccola figlia, che egli avverte come estranea e ostile: «Quale processo di alchimia era avvenuto in Louise per cancellare il bruno di un uomo bruno, per sbiancare gli occhi castani e i capelli neri, per lavare e sbiancare il feto durante il periodo prenatale fino alla nascita della piccola Marion, bionda, con gli occhi azzurri, le gote rosa? A volte lo assaliva il sospetto che Louise avesse concepito la bambina come un'idea, completamente asessuata, un'immacolata concezione frutto di una mente e di cellule sprezzanti. In segno di rigetto di lui aveva prodotto una bambina a propria immagine e somiglianza».
I brandelli della bambina vengono fatti passare di mano in mano al buio fra gli amichetti ignari, nell’allegria di un macabro gioco di Halloween: «”Ehhhhh!” dissero i bambini. “La strega è morta, è stata uccisa, ed ecco il coltello con cui è stata ucci-sa”. Porse il coltello al bambino che gli sedeva a fianco. Fu passato di mano in mano, lungo tutto il cerchio, in un coro di strani gridolini, risa soffocate e commenti da parte degli adulti. “La strega è morta, ed ecco la sua testa” sussurrò il marito e porse a chi gli stava più vicino un oggetto rotondo. “Oh, io so come si fa questo gioco" esclamò un bambino nel buio, tutto felice. “Si prendono le interiora di un pollo dal frigorifero e le si passa in giro dicendo ‘ecco le interiora della strega!’. Poi si prepara una testa di creta e la si fa passare per la sua testa, e si prende un osso spolpato per braccio, una biglia e si dice ‘ecco il suo occhio!’ e alcuni chicchi di grano-turco e si dice ‘ecco i suoi denti!’ e un sacchetto pieno di budino e si dice ‘ecco il suo stomaco!’» .

Ma i fanciulli stessi sono tutt’altro che innocenti. La loro angelificazione romantica è culturalmente recente, mentre sterminata è la letteratura che li condanna alla prossimità con un naturale demonismo. Le magistrali novelle di Bradbury rappresentano i massimi vertici simbolici di questo genere narrativo (1).

I fanciulli del celeberrimo "Veldt" (The Veldt, 1950) trascorrono tutte le loro giornate in un’avveniristica stanza dei giochi, che traduce i loro impulsi e desideri in immagini olografiche, che rappresentano sempre la stessa scena: un’arida savana, con dei leoni intenti a divorare un qualche animale. Alla fine i leoni sbraneranno i genitori, incautamente avventuratisi nella nursery.
Un altro parenticida è il neonato descritto nel terrificante "Piccolo assassino" (The Small Assassin, 1946), un poppante apparentemente normale ma dagli occhi però «azzurri, profondi, acuti» fino all'innaturalità. La madre, che pure lo ha fortemente voluto e partorito con fatica, non lo ama affatto, lo avverte distante ed ostile, pericoloso. Forse, si ipotizza, è eccezionalmente nato già pienamente consapevole, come i cuccioli animali di certe specie inferiori. E la sua consapevolezza priva di limiti emotivi– come si deduce da tanti indizi disseminati nella narrazione – lo porta ad odiare la madre e il padre che riuscirà a far morire. Perché dovrebbe amarli, o esser loro grato? Lo hanno sottratto, concependolo, al limbo sereno della preesistenza, costringendolo ad una vita che è dolore. D’altronde, nelle magiche narrazioni bradburyane, i bambini sono nemici naturali degli adulti che loro malgrado diverranno, cacciati dal loro Eden provvisorio. Chi non vuole crescere ha una sola strada: divenire un demone, come Peter Pan (nomen omen).
«E’ un fatto sfuggito forse ai più degli osservatori, appunto per la sua semplicità e frequenza, e appena avvertito ora con chiarezza da Moreau, Perez e Bain, che i germi della pazzia morale e della delinquenza si trovano, non per eccezione, ma normalmente, nelle prime età dell’uomo, come nel feto si trovano costantemente certe forme che nell’adulto sono mostruosità; dimodoché il fanciullo rappresenterebbe come un uomo privo di senso morale, quello che si dice dai freniatri un folle morale, da noi un delinquente nato» (2).

Conseguentemente la “pazzia morale” si origina «in tutti fin dalla infanzia, delle cui abitudini, non interrotte dall’educazione, non sarebbe se non una continuazione». Così rifletteva Cesare Lombroso nell’ultima riedizione de L’Uomo delinquente. Vent’anni dopo Sigmund avrebbe scritto
«L’impressione così sconcertante, che ci sia nell’uomo tanta malvagità, comincia a venir meno. Questa spaventosa malvagità è semplicemente il tratto iniziale, primitivo, infantile della vita psichica, che possiamo trovare operante nel bambino (…)» (3).
Probabilmente ignaro di queste affermazioni Mr. Howard, l’anziano e acido maestro protagonista di Let’play poison (1952), altra celebre short story bradburyana, sembra in qualche modo riecheggiarli: «Certe volte… certe volte penso che i bambini siano piccoli mostri cacciati dall’inferno perché il demonio non riusciva più a tenerli a bada. E sono convinto che si debba fare qualsiasi cosa pur di raddrizzare le  loro barbare menti. (…) Voi siete assolutamente di un’altra razza… Le vostre motivazioni, la vostra disobbedienza… Non siete umani! Siete… BAMBINI!».

Inutile dire che non avrà scampo: alla fine gli ex alunni (suoi assassini) giocheranno spensieratamente a “veleno” sulla sua sepoltura, sotto gli occhi inconsapevoli e distratti degli altri adulti.

(1) Quelle da noi citate sono raccolte quasi tutte nella famosa antologia Il popolo dell’autunno (I ed. italiana, Mondadori 1978).
(2) LOMBROSO C. (1896): L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, alla giurisprudenza ed alle discipline carcerarie, vol.I, V ed., Torino, Bocca.
(3) FREUD S. (1976): Introduzione alla psicoanalisi (1915-1917), in Opere, vol.VIII, Torino, Bollati Boringhieri.

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