Mi pare che le questioni su cui finora ci siamo soffermati rappresentino importanti elementi di cornice che trasmettono però, a chi immagini la scena, un sentimento di incompletezza, come se il quadro che viene così delineandosi – un quadro che, ribadisco, si riferisce alla rappresentazione mediatica di un evento assunta a stimolo e non all’evento in sé – avesse un vistoso buco al centro. E il buco è un corpo, ostinatamente resistente, che non è certo possibile ignorare. Lì, credo, è necessario concentrarci, perché la presenza di quel corpo ingombrante avvinghiato alla panchina come un albero antico alla terra, il fastidioso e incomprensibile capriccio che lo porta a rifiutare ostinatamente terapia e/o ricovero costituiscono a mio modo di vedere il testo di ogni TSO, che il contesto rischia di occultare. Un testo che ci parla principalmente di due temi, i due ostacoli con i quali la psichiatria ha da sempre difficoltà a misurarsi: la questione dell’ordine che l’autorità impartisce in determinate situazioni al soggetto per soggiogarne la volontà (TSO), e la presa sul corpo che rappresenta il grado estremo della messa in opera concreta di quell’ordine (contenzione).
Il TSO – Il medico glielo ordina per il suo bene, lo Stato glielo ordina con la sua autorità; ma il soggetto risponde no, ostinatamente. Si crea un’impasse. E quando questo si è verificato nella mia esperienza, a livello almeno preconscio ho avvertito la sensazione di quanto paresse inutile, assurdo, incomprensibile (quasi un dispetto) essere trattenuti lì per ore otto, dieci, dodici professionisti dall’ostinata (e insensata?) volontà di una persona. Il personale sanitario ha altri appuntamenti in sede, le radio di servizio sulle vetture chiamano i militi della croce e gli uomini delle forze dell’ordine ad altri interventi. E invece bisogna stare lì a insistere (implorare) per cercare di convincere il soggetto, dare fondo all’inventiva, e poi alla fine, a volte, bisogna persino lottare fisicamente, rischiare di farci e fargli male, per impadronirci di quel corpo e portarlo là dove tanto il soggetto sa che dovrà comunque andare, e là da dove sa anche che in capo a una settimana o qualche giorno in più tornerà. Ma perché tanta fatica, e persino dei rischi?
Dal suo punto di vista le cose stanno però diversamente, ed è da quel vertice di osservazione – dentro il suo mondo – che è necessario porci se vogliamo operare lo sforzo del comprendere (Jaspers). Vedremo allora che la stessa questione che ai nostri occhi può apparire di poco rilievo per l’altro può avere significati importanti: sfuggire alla posizione infantile in cui fatalmente lo stiamo costringendo decidendo per lui; all’identità di malato di mente che gli imponiamo con quell’atto; ai farmaci dai quali forse teme che sentirà manipolata la sua soggettività; al luogo in cui sente che sarà in nostro potere. Una parte del pensiero giuridico del Settecento si poneva il dubbio se lo Stato abbia il diritto di punire l’evasione del prigioniero, perché espressione dell’anelito naturale alla libertà che rappresenta l’inalienabile diritto dell’uomo; nelle iniziative del soggetto per sottrarsi al TSO sulla base di esigenze soggettivamente avvertite e nel suo rapporto con lo Stato mi pare siano in gioco valori del genere. Il soggetto ha un diritto naturale a sottrarsi all’obbligo; e lo Stato ha un analogo diritto a mettere in atto iniziative per impedirglielo. Ma entrambe le posizioni meritano di essere guardate con rispetto. E’ un conflitto di volontà, come tale va riconosciuto e trattato. Ricordo, in proposito, come uno degli episodi più buffi della mia carriera quello in cui fui citato come testimone nel processo contro una paziente che un carabiniere accusava di diffamazione, perché nel corso di un TSO con relativo inseguimento gli aveva urlato: “tanto lo sanno tutti che tua moglie è una puttana!”; mi sforzai di spiegare il suo stato d’animo e il carattere generico dell’affermazione, e fui contento che il giudice avesse compreso la bizzarria della situazione assolvendo. Il rifiuto del soggetto ad adeguarsi potrà assumere la forma della fuga o della resistenza, e a volte anche (non pare questo il caso) della reazione; e tutto ciò va messo in conto, perché dal suo punto di vista è comprensibile e dobbiamo attrezzarci per gestirlo nel modo più indolore per tutti. Ricordo che in un’occasione accompagnavo una paziente in auto per un ricovero consensuale; d’improvviso, a una frenata, aprì la portiera e si diede alla fuga. La inseguii e la raggiunsi in un deposito all’aperto di bottiglie pieno di cocci di vetro. Ci sedemmo e mentre le parlavo e aspettavamo colleghi e vigili lei prese uno dei cocci cominciando a giocherellarci. Le chiesi di consegnarmelo; lei rise come se proprio non ci avesse pensato e mi disse: “ma lei ha paura che mi tagli?”. Me lo porse. Un’altra volta mi trovavo in un corridoio stretto, davanti a me il paziente che conosceva la casa e tirò improvvisamente giù una scaletta retraibile che dava sul tetto, cominciando a salire; istintivamente gli afferrai un ginocchio. “Mi lasci!” urlò caricando dall’alto al basso il pugno all’altezza del mio viso. Dietro di me un piccolo esercito, ma davanti solo io che involontariamente ostruivo il passaggio agli altri. Ebbi un attimo di titubanza, poi gli dissi risoluto: “non posso, mi dispiace”; poi più affettuosamente “su, scenda…”. Questa volta fu lui a prendere qualche tempo per pensare; eravamo tutti immobili, poi abbassò il pugno e scese. L’incontro psichiatrico, salvo poche indispensabili eccezioni nelle quali chiediamo alla forza pubblica di tutelarci, avviene normalmente per entrambi a mani nude e senza scorta; è un (af)fidarsi reciproco e non mi pare possa esserci alternativa. Non sempre però le cose vanno come in questi due casi e talvolta la fuga da un provvedimento per la sua salute espone, paradossalmente, il soggetto o altri a rischi più gravi. Conosciamo tutti esempi di fuga o reazione finiti tragicamente per qualcuno (il soggetto, un operatore sanitario, un appartenente alle forze dell’ordine). Noi operiamo perché pensiamo che quello sia il suo bene, ma dobbiamo considerare che il soggetto può non vederla così e dare al suo punto di vista il peso che gli spetta, sforzarci di immedesimarci e tollerare fatica e durata, ovviamente senza rinunciare a perseguire quello che, nel suo interesse e in scienza e coscienza, avvertiamo come dovere. Il dramma che egli sta vivendo e quindi la possibilità di una resistenza anche disperata sono da mettere in conto, come le risorse di tempo, fatica e personale anche ingenti che potranno essere necessarie a vincerla nella sicurezza di tutti. E’ per queste ragioni che io credo che la messa in atto del TSO sul territorio (casa, strada, negozi…) rappresenti, soprattutto quando a essa si accompagna l’esigenza della presa sul corpo, di gran lunga l’atto più delicato e difficile in psichiatria, per complessità tecnica, rischi di incidente e implicazioni pratiche e emotive. Perciò è importante fare di tutto per limitarne il numero; perché ogni TSO è urto violento di due volontà contrapposte, e in questo come in ogni urto qualcuno può farsi male, più spesso moralmente, fortunatamente più di rado fisicamente. Quei pochi TSO che non è possibile evitare costituiscono momenti gravi e solenni nel funzionamento del servizio, il momento straordinario in cui, come le acque del Mar Rosso miracolosamente si ritirarono, per un attimo la Costituzione e il suo millenario fondamento nel diritto si sospendono per consentire il passaggio di quell’ambulanza e il fatto che quel soggetto sia curato in circostanze eccezionali. Del resto, dal punto di vista giuridico, il TSO è l’eccezione: il trattamento, ordinariamente volontario, diventa eccezionalmente obbligatorio rompendo il patto tra psichiatria, Stato e cittadino sancito dalla Costituzione e ribadito dalla 180. Credo che in quella situazione più che mai la psichiatria debba sforzarsi di essere robusta quando e quanto occorre, ma sempre contestualmente rispettosa[i]; questa scommessa ne costituisce il senso, il nucleo significante, e in quel momento si gioca più che in ogni altro.
La presa sul corpo – Tutto ciò vale a maggior ragione quando il TSO implica la necessità di trasformare la presa sul soggetto, che esso costituisce, in presa sul corpo. Spesso l’autorevolezza della parola del medico o la fiducia e l’affetto maturate nella relazione, l’autorità rappresentata della divisa del personale di pubblica sicurezza o almeno quella della firma del Sindaco in calce all’ordinanza, la soddisfazione di vedere in queste forme sancita, riconosciuta formalmente e rivestita d’importanza la propria obiezione e di vedersi, nell’obbligazione, riconosciuta la dignità di soggetto si rivelano sufficienti. A volte funziona il ricorso a una formulazione equivoca che infondo rappresenta, con il consenso di tutti, una sorta di tregua e permette di partire in uno stato che potremmo definire di congelamento e riconoscimento consensuale del dissenso. Un dissenso formale che permette al suo interno un consenso pratico. Si tratta di quelli che Maria Grazia Giannichedda cita come TSO “striscianti”[ii], o qualcuno più cinicamente definisce ricoveri “spintanei”, compromessi credo accettabili se utili a evitare da un lato che una malintesa libertà si trasformi in abbandono e dall’altro l’uso della forza. Accettabili perché la psichiatria, infondo, è soprattutto un incontro tra persone, ed entro certi limiti l’individuazione della soluzione deve essere lasciata a quell’incontro.
Ma, più di rado, tutto questo non basta. Non c’è verso di muoversi. E allora a un certo punto (quale però? chi compie la valutazione? su che base?) si avverte necessario che l’eccezione al diritto che il TSO già costituisce, spingendosi fino alla presa del corpo, diventi atto di forza plastico, concreto. E’ una situazione che, per analogia, possiamo definire di “contenzione sul territorio”, una circostanza meno dibattuta e pensata – ma non meno problematica nelle implicazioni giuridiche, relazionali, corporee e tecniche – rispetto a quella in ospedale, oggetto anche recentemente di importanti approfondimenti[iii. E a proposito della quale fa certo pensare che sia sottolineato in qualche testo di “evitare la compressione del collo”[iv].
Quell’attimo eccezionale e solenne, ovunque si svolga, è uno di quelli in cui lo Stato – sia esso rappresentato dagli appartenenti alle forze dell’ordine o dagli operatori del servizio psichiatrico pubblico – viene meno alla rinuncia alla disponibilità del corpo del soggetto che ebbe secoli fa nell’”Habeas corpus” fondamento. E lo Stato, col prendere eccezionalmente possesso di quel corpo, ne diventa responsabile; Luigi Manconi e Valentina Calderone, nel presentare una casistica di situazioni critiche[v], si (ci) pongono la domanda se esso sappia sempre farlo con la cautela, prudenza e delicatezza necessarie. Perché il corpo dell’altro è oggetto fragile che ne custodisce la vita, e va maneggiato con cura.
Non so quanto queste considerazioni siano o meno pertinenti al caso dal quale siamo partiti, ma qui non interessa. Spero invece che da questi sparsi pensieri, dubbi, domande – lo ribadisco a lato di quello sfortunato episodio e non nel merito di esso – nessuno si senta offeso, ma possano nel loro piccolo favorire quell’apprendere dall’esperienza e intorno a essa che, nel divenire ragionamento condiviso, è per la psichiatria strumento prezioso di miglioramento delle pratiche.
[iii Segnalo, oltre alle "Ulteriori raccomandazioni" emanate dal gruppo di lavoro della SIP nel 2014, il parere formulato dal Comitato Nazionale di Bioetica il 23 aprile 2015 e due importanti volumi pubblicati quest'anno dall'editore AlphaBeta Verlag di Merano: … e tu slegalo subito. Sulla contenzione in psichiatria di G. Del Giudice e Il nodo della contenzione. Diritto psichiatria e dignità della persona a cura di S. Rossi.
[iv] Royal College of Psychiatrists: Il trattamento della violenza imminente. Linee guida per la pratica clinica (1998), Roma, CIC, 1999, p. 76..
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