Le parole di Rolando Ciofi apparse ieri sera su POL.it mi incoraggiano a postare a mia volta qualche pensiero, sedimentato durante la giornata di ieri e con esse, in qualche misura credo, consonante. Ieri mattina mi ero svegliato, come tutti in Europa, frastornato per le notizie d’agenzia sulle quali a notte tarda mi ero addormentato. Sono stato più volte a Parigi, avrei potuto essere lì la sera del 13. Mi lascia sgomento la tragedia di corpi di persone normali straziati in una normale serata sui viali, al concerto, allo stadio, al caffè o in pizzeria. Una ragazza italiana tra gli altri, il che mi fa sentire quel sangue ancora più vicino, ancora più mio. La cifra dei morti la sera della strage si intuiva intorno al centinaio; è stata più alta. Una sera di guerra. Non ero, però, tanto frastornato da non raccogliere l’associazione che mi è balzata alla mente con una notizia scorsa velocemente sul quotidiano del mattino precedente: almeno 43 morti, 243 i feriti in un duplice attentato kamikaze a Burj al Barajneh, periferia sud di Beirut. Altre persone, più povere, in gran parte massaie e bambini uccisi in un centro commerciale. E subito mi pare che l’una e l’altra notizia siano collegate: stesse ore, stesso odore di sangue umano, stesse grida di terrore impotente, stesso mandante diretto, pare, l’IS. E stesso contesto intricato e indecifrabile di responsabilità indirette, nel quale non mi addentro. Confronto lo spazio dedicato alle due notizie sui quotidiani del 13 e su quelli del 14: un breve richiamo in prima pagina per Beirut, quasi tutte le prime pagine per Parigi. Certo, i morti del 12 sono meno di un terzo di quelli del 13, ma non credo che sia questa la ragione. Né credo sia questa la ragione per cui il parallelo che ricorre a proposito di Parigi è quello, più lontano nelle dimensioni, nei luoghi e ormai anche nel tempo, dell’11 settembre; e mai quello più vicino nelle dimensioni, nello spazio e nel tempo del massacro libanese del giorno precedente. Certo, New York e Parigi sono città più grandi e importanti di Beirut, ma non credo sia neppure questa la ragione per cui ci impressiona di più saperle ferite. Certo più stretti sono per noi i legami storici, geografici, culturali, politici e affettivi con la Francia rispetto al Libano, ma anche questo può spiegare una differenza, non però così tanta. Piuttosto, che civili muoiano a Beirut, Damasco o Baghdad è cronaca quotidiana, una “non notizia”, ma proprio questa assuefazione alla morte di “quella gente là”, “laggiù”, “ammazzati tra loro”, mi pare il cuore del problema. Mi chiedo se io fossi un uomo di Casablanca, Algeri, Teheran, se la vivrei proprio allo stesso modo: tragedia planetaria a Parigi, normale routine a Beirut dove vivono (e muoiono) persone più simili a me. Ed è quindi lì, nella penombra della cronaca, che vado a ripescare il trafiletto di quella strage del giorno prima perché sento che anch’esso mi “interessa” (mi guizzano alla mente mentre scrivo questa parola due frasi celebri e lontane tra loro nel tempo, di Terenzio e don Milani) quanto l’evento parigino che occupa oggi, giustamente, il centro della scena. Perché mi spinge a chiedermi se davvero noi europei potessimo pensare che in un mondo globale, nel quale la pressione dei corpi dei profughi contribuisce a rendere ogni fantasia di separazione velleitaria, il fiume di sangue che quotidianamente allaga nella nostra indifferenza un’area così vicina, quell’assuefazione alla macelleria umana e quell’inflazione del valore del sangue che la cronaca di quei territori pervadono, alla lunga non avrebbero investito, in un modo o nell’altro, anche il nostro sangue, trascinandoci nel vortice. Se davvero abbiamo potuto pensare che quella guerra che ci vede così indissolubilmente implicati da anni avrebbe potuto continuare a essere combattuta laggiù, tra le “loro” case, in tutte le Burj al Barajneh dove quotidianamente si soffre una strage, e lasciare indenni le nostre. E così bruscamente ci svegliamo dal torpore, e scopriamo che è possibile morire a Parigi come in quei luoghi da troppo tempo si muore. Ci svegliamo perché, dispiace constatarlo, a oltre mezzo secolo dalla fine dell’era coloniale il “nostro” sangue versato l’altro ieri a Parigi continua ad avere un valore diverso, o almeno un colore più intenso, nelle risonanze politiche, mediatiche, emotive rispetto al “loro” versato alla periferia di Beirut il giorno prima. Anche se la lunga incessante scia di sangue è la stessa alla quale ci siamo abituati, che adesso ci stupiamo di vedere scorrere anche per i boulevard.
E qui il flusso dei pensieri mi impone una breve digressione. Perché il fenomeno di questo rischio che s’instauri uno scarto di valore tra corpi di persone noi psichiatri lo conosciamo bene: è nella storia del manicomio – ma in qualche misura sappiamo che il fenomeno tende a riproporsi anche nelle istituzioni della nuova psichiatria e chiede ancora attenzione – che è anche storia di corpi “nostri” e “loro” di valore diverso. I loro corpi che possono stare in locali rumorosi, sporchi e maleolenti nei quali non accetteremmo di far permanere a lungo i corpi nostri o quelli dei nostri cari; corpi diversi, di diverso valore, che possono essere allineati nudi e sciacquati serialmente con la canna dell’acqua in una situazione che per noi o i nostri cari non accetteremmo (e che, non a caso, si è recentemente riproposta in un CIE). Bene, io credo che questa differenza, questo scarto di statuto e di valore che l’istituzione può istituire tra corpi umani – sulla quale richiamo una illuminante conferenza che Franco Basaglia tenne all’Università di Genova nel 1967[i] – possa offrirci se ci pensiamo un paradigma efficace anche per la comprensione del rapporto coloniale di ieri[ii], e del diverso valore che oggi assume il sangue versato al centro di Parigi e in una periferia libanese.
E così, lungo questo filone di ragionamento che mi porta a individuare nelle disuguaglianze materiali e non solo e nel diverso valore dell’appartenenza a “noi” e “loro” nella storia antica e recente del Mediterraneo uno dei temi evocati da questi tragici accadimenti e dalla loro risonanza non equilibrata, mi vengono in mente due testi. Si tratta de I dannati della terra scritto durante la rivoluzione algerina dallo psichiatra Frantz Fanon, e del più recente Non persone. L’esclusione dei migranti in una società globale di un sociologo della mia città, Alessandro dal Lago. Ripenso e rimando ad essi perché avverto un’esigenza di non limitarmi, di fronte al massacro parigino, al lutto (e a quello libanese all’oblio), o ad aderire alla chiamata all’impegno che suona sì comprensibile ma troppo lineare e acritica per cui “noi (i buoni, i portatori di valori universali) reagiremo uniti in modo ragionevole ma fermo” che suona da più parti (le più ragionevoli, appunto; delle altre qui non mi occupo). Non di questo si tratta, io credo; piuttosto, semmai, di partire col riconoscere le (anche) nostre generali e specifiche responsabilità per rendere universalmente e concretamente credibile ai più un progetto di pace, che nasca intanto dall’attribuire al sangue lo stesso colore e valore, a qualunque uomo, donna, bambino esso appartenga, e qualunque sia il luogo – il centro di una lucente capitale dell’Occidente come un grigio sobborgo della parte povera del mondo – nel quale viene sparso. E dal fatto di provare nell’uno e nell’altro caso lo stesso turbamento. Perché mi pare che non possiamo pensare che il dolore per il sangue sparso a Parigi possa essere davvero universale, riguardi come si è detto un sentimento comune di appartenenza all’umanità, se non è, senza ambiguità, lo stesso per quello sparso altrove. Credo che come europei ci spetti oggi una responsabilità storica: dimostrare nei fatti agli altri il carattere potenzialmente universalistico e inclusivo delle nostre proposte, che non è sufficiente affermare a parole, e qui la strada è ardua. Ma la storia del mondo coloniale e quella del manicomio sono lì a dirci che dove tra il sangue o il corpo dell’uno e dell’altro prende piede, inconsapevolmente, una gerarchia di valore, è difficile che possano nascere sentimenti e progetti condivisi. Siamo parigini, insomma, in questi giorni; ma è importante che non dimentichiamo di essere anche abitanti di Burj al Barajneh nell’ora della spesa.
Nell’immagine: momenti dopo la strage a Burj al Barajneh (Beirut), il 12 novembre
mi sento come Editor della
mi sento come Editor della rivista in dovere di ringraziare pubblicamente Paolo Peloso per quest riflessioni che faccio mie e che meritano davvero un dibattito aperto e approfondito