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RECENSIONE al saggio “Lo schermo empatico Cinema e neuroscienze”

16 Nov 15

Di Redazione Psychiatry On Line Italia
“Nessuno produrrebbe nulla senza i suoi fantasmi, e quando il fantasma è inconscio, la sua traccia nel film è considerevolmente trasposta”, così scriveva Christian  Metz nel suo classico e insuperato Cinema e psicoanalisi del ’93. Perché una premesse psicoanalitica, a commento del primo, autorevole libro per il lettore italiano su cinema e neuroscienze? Non vuole essere un deragliamento, ma piuttosto un omaggio al grande lavoro svolto da Gallese e Guerra: complesso, ma imperniato intorno al concetto stesso di intersoggettività, il libro ‘chiude il cerchio’ ipotizzato dalla psicoanalisi fin dai suoi esordi a inizio secolo e i grandi teorici del cinema. Perchè il cinema – ci si è sempre domandati – e nessun’altra arte (sì: arte, non intrattenimento, come ha sempre sottolineato Gabbard) è in grado di raggiungere con la stessa forza l’immaginario di milioni di persone nel mondo, diverse tra loro per storia, gusti e cultura? In cosa è racchiuso il mistero di quella che Pasolini chiamava la potenza fisica, mitica del cinema, capace di creare un rapporto personalissimo tra il mondo interno dello spettatore e il corpo dell’attore in scena? E quale il contributo delle neuroscienze, alla comprensione di questo mistero?
Come psicoanalista e appassionata di cinema, non posso che guardare con piacere a questo lavoro poderoso, corredato di ampi studi, letteratura, ricerche e immagini, che Vittorio Gallese, il nostro neuroscienziato forse più noto dopo la scoperta dei ‘neuroni specchio’ nel ’92, e il teorico del cinema Michele Guerra hanno finalmente pubblicato. Tra i molti pregi, ripeto quanto detto in apertura: il testo bene evidenzia come il contributo delle neuroscienze sembri chiudere (e insieme aprire) un percorso, incastra il tassello mancante al mosaico delle intuizioni psicoanalitiche (Musatti fu tra i primi a interessarsi con passione e rigore a cinema e psicoanalisi), delle acute incursioni filosofiche (di cui ho solo ricordato Christian Metz e Pasolini, ma che seguono tutta una scuola che arriva oggi fino all’arguto Slavoj Zizek) e della storia della teoria del cinema. Freud ne sarebbe stato altrettanto felice: era suo auspicio, più che mai, che un giorno le scoperte psicoanalitiche trovassero l’ambito appoggio della Scienza, al suo tempo declinata più in un sapere ‘biologico’ oggi ritenuto obsoleto, e sostituito a pieno titolo dalle neuroscienze.
Il complesso approccio con cui i due Autori affrontano il cinema, e una serie di film in particolare, è da loro definito come “estetica sperimentale”, dove estetica è da intendersi in senso strettamente etimologico, come percezione multimodale del mondo attraverso il corpo. Corpo e intersoggettività sono concetti chiavi del libro, e si ripropongono a più riprese: il cinema chiama in causa il concetto stesso di intersoggettività, e questa è inevitabilmente abitata dal corpo, il corpo fisico e il corpo percepito, creando quell’humus, quel rapporto specifico e particolare che è patrimonio solo dell’arte cinematografica. Le esperienze neuroscientifiche ampiamente supportate, sembrano corredare di basi scientifiche quella relazione fantasmatica, cosi ben descritta da Metz, per cui un film ci piace o no, ci immergiamo in esso o in personaggio, ci eccitiamo, ci commuoviamo o ci lascia disturbati o indifferenti non a caso, ma a seconda dello scambio fantasmatico tra il mondo interno, l’inconsico-presconcio di chi guarda e la scena visiva. Un’illusione che sappiamo essere illusione, ma viviamo e percepiamo come del tutto reale. In poco più di un’ora e mezza, avviene il miracolo ‘terapeutico’ per cui attraverso lo scambio famtasmatico possiamo vedere temporaneamente realizzati desideri, pulsioni inconsce che attribuiamo al personaggio, è lui/lei che agisce per noi, lasciandoci al sicuro nelle nostre poltrone e pronti a rientrare al sicuro nei nostri Io appena si riaccendono le luci. Proiezione e identificazione, sono i meccanismi inconsci alla base della fruizione filmica. Alla domanda, dunque, che si pongono gli Autori come fil rouge del libro – “perché andiamo al cinema?” – domanda cui ne seguono a cascata molte altre che lascio scoprire al lettore, la complessa e sofisticata risposta neuroscientifica sembra dare ragione al vecchio Metz: perché lì, sullo schermo empatico, proiettiamo fantasmi che non vivremmo nella vita quotidiana, pulsioni libidiche e aggressive, in una mise en scène simile al sogno, un tempo chiamata abreazione, scarica, dove ci liberiamo momentaneamente dall’ingorgo che ferite e desideri possono provocare in noi.
E’ chiaro che sto attuando una semplificazione, mi si perdonerà, nel tentativo di leggere questo libro a suo modo unico e originalissimo non solo come isolato testo a sé che instauri nuove verità, ma come lettura integrata a cavallo tra neuroscienze, cinema e psicoanalisi,  poiché credo che il complesso fenomeno cinematografico non si esaurisca in nessuna di queste, ma proprio in virtù della sua complessità non si dà l’una, diciamo, senza le altre.
Il libro si compone di sei capitoli che prendono in esame diversi aspetti dell’estetica sperimentale sopra citata: il ruolo principe dell’empatia (e quindi dei neuroni specchio) e la simulazione incarnata (embodied); i falsi movimenti e gli sguardi, attraverso l’analisi di Notorius, uno tra i capolavori che il libro prende ad esempio; il concetto di ‘stile’, sempre difficile a definirsi, e di tecnica cinematografica, corredato da un’ampia rivisitazione delle opere di Stanley Kubrick, da tutti riconosciuto uno dei grandi innovatori, un turning point author certamente caro a Gallese e Serra (Intermezzo Kubrickiano). Seguono capitoli sullo stacco, l’armonia, lo specchio, il tutto rapportato alla multisensorialità cerebrale, per concludersi con ipotesi e studi sulle nuove aperture che il cinema sta vivendo, il digitale e la “nuova grammatica” di minuscoli schermi quali gli iphone, oggi più diffusi delle sale cinematografiche; aperture un tempo pensate impossibili, e oggi alla portata di tutti. Il cinema può sopravvivere, con la sua magia e la sua potenza mitica, con la sua narrativa incarnata, se racchiuso in un cellulare nello zaino, in un ipad portatile, se estromesso dal rituale, cosi importante in Metz nel definire lo scambio fantasmatico, che ci porta nella sala buia, immersi in poltrona, soli con le nostre fantasie nella privatissima empatia tra me e il personaggio? La domanda è più che altro filosofica, e gli autori non sembrano pessimisti sul futuro del cinema degli schemi (a differenza di molti, tra cui citano Spielberg): il cinema terrà il passo con le tecnologie, concludono, ne seguirà certamente le nuove estetiche, ma sempre allo scopo di condurre lo spettatore dentro quell’immaginario che è  e resta il regno del cinema, e il suo incanto. Pur non avendo risposte, mi sento di condividere un futuro non allarmista: laddove esiste un bisogno profondo, lo strumento in grado di esprimerlo non verrà mai sconfitto. Al bisogno profondo di specchiarsi nel corpo del personaggio, pur modificandone le forme di fruizione, la funzione principe del cinema non verrà mai meno. Non sono scomparsi i libri, nonostante gli e-book….
Un’ultima considerazione, a favore di un libro che, sulle prime, denso di studi neuroscientifici potrebbe spaventare i lettori più pigri o legati a una certa narrativa poetica del cinema, quali io stessa: nessun pericolo, Lo schermo empatico riesce perfettamente a coniugare correttezza statistica e scientifica con passione pura per la settima arte. Venendo a chiudere quel tassello mancante che avrebbe reso felice Freud, oltre che i vari teorici del cinema, non priva il lettore appassionato di cinema né della poesia né della libertà immaginativa che ci piace mantenere tale. Non è uno di quei casi, insomma, in cui la scienza distrugge la poesia.

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