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DIFFICILE SEPARARE, DIFFICILE TENERE INSIEME. Félix Voisin, la costruzione dell’anormale come campo unitario e alcune questioni odierne sui confini della psichiatria

1 Feb 16

A cura di Paolo F. Peloso

Mi ero imbattuto nel nome di Félix Voisin (1794-1872) come quello del giovane collega che accompagnò Esquirol durante la sua visita a Geel, forse il primo incontro (e scontro), tra la psichiatria dei medici e il lavoro di salute mentale posto in essere da un gruppo spontaneo di laici, quello dei contadini della cittadina belga, appunto[i]. Non sapevo altro di lui. Si era laureato a Parigi nel 1819 con una tesi dedicata a un argomento suggestivo e sorprendentemente attuale, l’utilità del coraggio e della reazione morale nelle malattie. Allievo di Esquirol e adepto della frenologia, fondò nel 1822 con Jean-Pierre Falret la casa di cura per alienati di Vanves, presso Parigi. Nel 1830 pubblicò la sua prima opera importante dedicata alle applicazioni della fisiologia del cervello allo studio dei bambini che necessitano di una “educazione speciale”, e nel 1833 iniziò a esercitare la sua funzione clinico-pedagogica presso la sezione per idioti ed epilettici dell’Ospedale degli Incurabili di rue de Sèvres a parigi, trasferendosi nel 1840 a Bicètre dove continuò a lavorare nel campo dei bambini idioti e anormali fino alla pensione, nel 1865. Nel 1834 aprì una scuola ortofrenica – un termine del quale sottolinea l’assonanza con l’ortopedia, una sorta perciò di ortopedia del cervello attraverso l’ortopedia della mente – che ebbe vita breve. Nel 1838 pubblicò uno studio sull’organizzazione cerebrale difettosa della maggior parte dei criminali e nel 1843 uno sull’idiozia dove sostiene tra i primi la necessità di sviluppare metodi educativi speciali per i bambini idioti. Nel 1848 si espresse in favore dell’abolizione della pena di morte[ii].
Nell’interessante saggio che gli dedica sull’ultimo numero di History of Psychiatry, Claude-Olivier  Doron[iii] attribuisce a Voisin la responsabilità di aver dato un contributo fondamentale all’estensione della categoria di anormale – resa poi celebre dal seminario ad essa dedicata nel 1974-75 da Foucault – dai lunatici in due direzioni, quella dei bambini problematici e degli idioti e quella degli “idioti morali”, cioè i delinquenti. Per l’autore, ai margini dell’alienismo tradizionale di Pinel ed Esquirol, la finalità di Voisin era rimodellare la pedagogia e, molti anni prima di Lombroso, l’azione penale sulle peculiarità antropologiche degli individui, allo scopo di migliorarli. Alla base della sua concezione teorica e del suo lavoro stava un’impostazione fedele al paradigma frenologico che – al di là delle rappresentazioni caricaturali – operando uno sforzo per superare la dicotomia tra fisico e morale vedeva l’uomo in bilico, tanto dal punto di vista intellettivo che dell’inclinazione affettiva o morale, tra i possibili estremi della genialità e dell’idiozia. L’esercizio e il conseguente sviluppo delle diverse facoltà ne determina l’evoluzione in una direzione piuttosto che nell’altra. Il cervello, per la frenologia, non è quindi un organo dato per formato alla nascita e non segna ineluttabilmente il destino dell’uomo, come sarà per il degenerazionismo. Piuttosto, ne accompagna l’evoluzione e si modifica in rapporto alle diverse inclinazioni che l’uomo assume, in una relazione con la mente che, al di là dei necessariamente grossolani riferimenti anatomo-morfologici, non può non evocare le più recenti e dinamiche concezioni in materia di plasticità cerebrale.
Nei tre campi paralleli dell’intelligenza, della salute mentale e della prevenzione del crimine è perciò indispensabile intervenire, per Voisin, in primo luogo nell’infanzia ma non solo, con un’educazione specifica volta a favorire caso per caso lo sviluppo delle facoltà più funzionali al pieno sviluppo dell’uomo nelle sue diverse dimensioni. Si va così delineando un campo trasversale unitario dell’anormale che attraversa la psichiatria ma si estende nelle due direzioni della disabilità intellettiva e del comportamento criminale, nel quale assistiamo con Voisin a una “quasi infinita estensione del potere medico pedagogico” (Doron). Un potere trasformativo che, nelle sue concrete attuazioni, avrebbe posto certo rischi di standardizzazione dei comportamenti e di stigmatizzazione che Voisin non sembra cogliere pienamente nella loro importanza e gli furono già rimproverati dai contemporanei; a dimostrazione anche in questo caso che, ancora per Doron, anche in psichiatria spesso “le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni” 
Nel campo dello studio degli idioti Voisin sembra rigettare quindi la concezione di Esquirol il quale, rigettando a sua volta la concezione originale di Pinel, aveva sostanzialmente ridotto l’idiozia al campo delle capacità intellettive e ne aveva decretato di fatto l’espulsione dall’area delle malattie mentali stabilendone l’incurabilità con gli strumenti dell’alienismo. Per Voisin, al contrario, l’idiozia rientra tra le varie possibili anomalie nello sviluppo delle diverse funzioni cerebrali, e può perciò riguardare tanto la sfera intellettiva che anche quella delle inclinazioni affettive o morali; in tutti questi casi può essere resa oggetto di cura attraverso un intervento sostanzialmente pedagogico. Proprio l’idea di una concezione dell’idiozia che possa contemplare anche una compromissione delle sole funzioni che presidiano l’inclinazione morale, gli consente poi di leggere anche il comportamento criminale come un fenomeno che può spesso essere compreso nel campo dell’idiozia, e rappresenta appunto un’idiozia nell’ambito della formazione del carattere o dell’inclinazione e sensibilità morale che, come le altre forme di idiozia, è passibile di cura. Rispetto a Esquirol, mi pare quindi interessante notare con Doron che, mentre questi tentò di recuperare, attraverso il concetto di monomania, una piccola parte dei criminali al campo di pertinenza dell’alienismo, Voisin operò invece per recuperare il criminale in quanto tale a una lettura del suo comportamento su base frenologica e a una possibilità di trattamento all’interno di istituzioni volte alla riabilitazione morale del delinquente, anziché alla sua segregazione. Egli scrisse anzi nel 1830 che, come l’azione di Pinel aveva liberato il folle dalla segregazione per consegnarlo alla cura, lo stesso si sarebbe dovuto fare per l’uomo criminale. Mi pare quindi che Voisin abbia qualche importanza anche nella genesi di alcune idee che, nel corso dell’Ottocento, porteranno in Italia a Lombroso. Invita infatti a spostare l’interesse in materia criminologica dall’atto all’autore, e in questo anticipa senz’altro l’impostazione del collega italiano. Quanto all’idea che il comportamento criminale possa essere previsto sulla base della morfologia cerebrale, essa potrebbe essere considerata anche un elemento comune tra le loro concezioni, e a prima vista lo è. Ma il cervello che l’uno e l’altro hanno presente è ben diverso. Il primo è un organo plastico, morbido, in perenne evoluzione, sul quale è possibile intervenire con l’azione pedagogica che ha per oggetto il bambino, il folle o il delinquente. Il secondo è un organo fisso, pietrificato, nel quale è indelebilmente scritto il destino dell’uomo. Il delinquente nato di Lombroso non può cambiare, l’uomo delinquente di Voisin sì; e la società e la scienza debbono impegnarsi in questa direzione.
Così sintetizzato e commentato l’articolo dedicato da Doron, al quale rimando e che credo valga senz’altro la pena di conoscere integralmente, a questo importante pioniere dell’alienismo, vorrei fermarmi ora su quelli che mi paiono gli aspetti di maggiore attualità di alcuni dei problemi da lui posti e affrontati. In primo luogo, nel campo della concezione del cervello, mi paiono interessanti la sua concezione plastica, evolutiva dell’organo e l’idea di una relazione mutuamente trasformativa tra esso e la mente, idea che deriva dalla frenologia ed è andata perdendosi nel corso della seconda parte dell’Ottocento, per riaffermarsi come sappiamo solo in anni relativamente recenti. Nel campo della criminologia sembra rigettare del tutto una concezione retributiva della pena, per sposarne invece una volta a porre l’uomo delinquente e le esigenze connesse al suo recupero al centro del discorso, in una prospettiva appassionatamente filantropica e umanistica.
Altri aspetti di attualità dei problemi che Voisin affronta hanno a che fare con la quotidianità dei nostri servizi, e soprattutto con la necessità/impossibilità in cui spesso ci imbattiamo di porre dei confini tra i campi di pertinenza della psichiatria e quelli del trattamento dei minori, di quello dei disabili intellettivi, di quello delle personalità patologiche o dell’azione penale sul criminale.
Il primo è costituito dal fatto di identificare nell’infanzia il momento in cui è possibile operare il massimo per prevenire l’evoluzione nelle diverse direzioni dell’handicap su base organica, della malattia mentale, del carattere disfunzionale, del comportamento antisociale e criminale.
Il secondo da quello di identificare come campi paralleli, e in parte inevitabilmente sovrapposti, quello dell’handicap intellettivo su base organica e quello dell’assistenza psichiatrica, recuperando anche il primo quindi a una prospettiva di curabilità dalla quale la dicotomia operata da Esquirol, e perseguita in genere in seguito dalla psichiatria, aveva rischiato di escluderlo. Ma cogliendo anche molto lucidamente il fatto che nell’ambito della disabilità intellettiva è sempre difficile cogliere quanto sia da attribuire al difetto organico originale e quanto invece alle complicanze legate alla reazione caratteriale, relazionale e in termini di sofferenza che, anche in rapporto con l’atteggiamento degli altri, col tempo si possono sovrapporre.
Soprattutto, mi pare molto attuale il fatto che la figura di Voisin – uno psichiatra che ha operatoi soprattutto fuori dalla psichiatria – attraverso l’introduzione del concetto di un’idiozia che può riguardare anche la sfera del carattere e dell’inclinazione morale, colga anche il problema rappresentato da un’esigenza di “trattamento”, in senso criminologico e multidisciplinare, per quei casi nei quali il crimine non può essere ascritto a una malattia mentale come strettamente l’intendiamo, ma piuttosto, ad esempio, a difficoltà a controllare gli impulsi o a sentire dentro di sé l’altro soggetto, la vittima, come un valore. E’ un problema, dunque, questo della “zona grigia” costituita da condizioni che non possiamo considerare di malattia mentale per come la psichiatria ha definito il suo ambito ma avvertiamo comunque di anomalia di qualche aspetto del funzionamento mentale, che accompagna la psichiatria e il diritto penale dai decenni nei quali ha avuto origine la loro declinazione moderna. Non dobbiamo sorprenderci perciò di ritrovarlo nel corso del dibattito ottocentesco sull’istituzione del manicomio criminale – e lo abbiamo recentemente definito, riprendendo un’espressione di Andrea Verga, la “questione del claustro”[iv] – e di vederlo ritornare a proporsi oggi, nel momento in cui la questione degli OPG è in gran parte restituita alla psichiatria clinica ed esso rappresenta uno dei possibili elementi di complicazione[v].
Per Voisin, disabilità intellettiva, malattia mentale, anomalie disfunzionali del carattere e quella parte del comportamento criminale che trova in particolari caratteristiche del modo di essere del soggetto la causa principale paiono rappresentare un campo unitario d’intervento, che raccoglie i soggetti che saranno poi nella psichiatria francese definiti gli “anormali”. “Non dobbiamo mai separare troppo rigorosamente”, del resto, “l’uomo dall’uomo”, ammoniva in proposito Voisin nel 1830. Le difficoltà epistemologiche, etiche e pratico-organizzative di questa impostazione mi paiono evidenti; si tratta in tutti i casi di problemi complessi e operare il possibile per distinguerli e affrontarli in modo separato è un passo indispensabile per cercare di farlo in ciascun caso adeguatamente, senza peraltro trascurare gli aspetti di problematicità dell’intervento che non sono gli stessi. Altrettanto evidente però mi pare la difficoltà, nella quale non è da sorprendersi se così spesso ci imbattiamo, di stabilire tra questi campi confini netti e insieme ad essa il rischio del crearsi di terre di nessuno, buchi assistenziali, dove ciascuno tende a ritirarsi nel proprio dominio e l’intervento, complessivamente, latita o non è adeguato. Occorre perciò tenere insieme, e non è certo facile, la necessità di avere confini, ma insieme quella di stabilire aree di connessione e di corresponsabilità che li attraversino per le situazioni di attribuzione incerta o compresenza di più problemi; non dobbiamo dimenticare che è sempre l’organizzazione, peraltro, a dover compiere sforzi per adeguarsi alla realtà di come i bisogni si danno, e non possiamo pretendere che siano essi a conformarsi all’organizzazione che noi scegliamo di dare alla risposta.
 

[i] P.F. Peloso, Psichiatri a scuola dai contadini? Il “miracolo” di Geel tra devozione, integrazione e terapia dei folli, Humanitas, 70, 2015, 379-388.
[ii] Per il dibattito sul tema, a partire dall’intervento di Carlo Livi nel 1862, ricordo: P.F. Peloso, T. Dening (2009), The abolition of capital punishment: contribution from two nineteenth-century Italian psychiatrists, History of Psychiatry, 20, 215-225.
[iii] C.O. Doron, Félix Voisin and the genesis of abnormals, History of psychiatry, 26, 387-403. Notizie bio-bibliografiche su Voisin sono rese anche disponibili online da Michel Caire: http://psychiatrie.histoire.free.fr/pers/bio/voisinf.htm.
[iv] P.F. Peloso, F. Paolella (2015): Dei claustri, e altro. Le origini del manicomio criminale nella psichiatria italiana dell’Ottocento, in: Il policlinico della delinquenza (a cura di G. Grassi e C. Bombardieri), Milano, Franco Angeli, 15-71.
[v] M. Biondi, P. Boccara, G. Corrivetti, M. Digiannantonio, S. Ferracuti, G. Nicolò, R. Perini, E. Pompili, M. Vaggi, F. Veltro, Chiusura OPG. Benissimo ma gli psicopatici non possono stare nelle nuove REMS, Quotidiano Sanità, 31 gennaio 2016.
 

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