IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale
di Antonello Sciacchitano

Una condizione necessaria per pensare il collettivo è pensare la variabilità

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9 febbraio, 2016 - 17:15
di Antonello Sciacchitano

Non posso tirarmi indietro. Per progredire in questa rubrica, per poter trattare del soggetto collettivo in termini non antropomorfi, di solito quelli che presuppongono un piccolo uomo – un homunculus – dentro l’uomo, sono costretto ad affrontare un argomento molto astratto, uno di quelli che di solito sono dal senso comune poco graditi, quindi interdetti in nome della concretezza e del sano realismo.
Perché esito, allora? Temo forse di essere censurato? Di non ricevere commenti favorevoli al testo qui postato?
Sì, anche. Ma soprattutto temo me stesso. Temo di non essere all’altezza di un compito che, epistemologicamente parlando, è più sottile che arduo e pertanto non è molto gettonato in letteratura, soprattutto quella “psi” che, come si sa, è orientata in senso umanistico e in pratica è inibita di fronte ai più semplici teoremi della scienza, a cominciare dalla meccanica.
Allora la prendo alla larga, sfruttando proprio un riferimento classico.
Gli ateniesi del secolo di Pericle e i romani del secolo di Cicerone, non avevano un modo per dire “sereno variabile”, cioè per esprimere una banale previsione metereologica. (Tra parentesi, gli antichi non facevano previsioni. I loro oracoli formulavano predizioni, che secondo il teorico delle probabilità Bruno de Finetti sono cose un po’ diverse dalle previsioni, che gli antichi non sapevano formulare, non conoscendo il calcolo delle probabilità, e che sono sempre meno banali delle predizioni. Chiusa parentesi).
Allora, gli ateniesi del secolo d’oro non dicevano “variabile”; dicevano “polimorfo”, poikílos. Ancora oggi in medicina si parla di “poichilocitosi” per indicare il fenomeno di globuli rossi che assumono forme diverse. Aristotele distingueva forma e materia, atto e potenza, su una base linguistica assai ristretta. L’unica variabilità anticamente concepibile era la transizione (o metabolé) da una forma all’altra dell’ente, dalla potenza all’atto, essendo inteso che prima e dopo la transizione le due cose rimanevano distinte e scollegate: non formavano una variabile.
Non avendo la parola per dire che qualcosa varia, rimanendo se stessa, il greco non riusciva a concepire il fluire del tempo. All’amputazione semantica si aggiungeva l’interdizione del principio logico di identità e non contraddizione, che vieta a una cosa di essere diversa da sé stessa. Il risultato fu la celebre batteria di pseudo-paradossi di Zenone sull’impossibilità del movimento. Il movimento è impossibile per il filosofo ontologico, perché a ogni istante sia Achille sia la tartaruga sono fermi nel punto in cui sono. Non c’è transizione (o metabolismo) da un punto all’altro, da un istante all’altro. A ogni istante il corpo supposto in movimento è fermo; è in quiete; ma la somma di tante quieti non può dare il movimento. Ergo, il greco antico non sapeva concepire la velocità, quindi la meccanica. La costruzione meccanica più perfetta da lui concepita fu la meccanica archimedea, che non era dinamica ma statica; era in quiete, essendo fondata sull’equilibrio della leva.
Legato com’era alle forme, l’antico greco sapeva concepire, addirittura in modo rigoroso, la geometria, ma non il calcolo. Inventò la dimostrazione a partire da assiomi, come la pratichiamo tuttora, ma non praticò il calcolo numerico, di cui invece erano esperti Babilonesi ed Egizi. La stessa nozione di grandezza (meghéthos) non fu mai ben definita da Euclide che, al seguito di Eudosso di Cnido, la trattò con l’algoritmo delle proporzioni o delle similitudini – termini che convocano di nuovo la forma.
Ci vollero 14 secoli di cottura intellettuale e l’innesto dell’algebra araba per portare un genio come Cartesio a concepire la geometria delle variabili, dove la x è un valore e non solo la misura di una lunghezza; dove la x2 è un valore e non solo la misura di un’area; dove x3 è un valore e non solo la misura di un volume. Tra valori si stabiliscono relazioni, che comprendono valori noti e valori ignoti. Nasce così un nuovo oggetto matematico: l’equazione, che sta alla base della scienza moderna. Parallelamente, si cominciò a configurare un calcolo dei valori delle variabili, che aveva anche valore pratico, commerciale, per esempio. Un’espressione eguagliata a zero è un’equazione; due espressioni con variabili diverse eguagliate tra loro definiscono una funzione, che dice come varia una variabile rispetto a un’altra (principio di covarianza, detto un po’ alla buona).
Non la faccio lunga. Mi limito a dire che, se c’è una variabile, c’è un collettivo di valori, che si possono trasformare con certi algoritmi l’uno nell’altro. Tanto mi basta per pensare il collettivo – l’insieme dei valori – in contrapposizione all’individuale – il singolo valore. Tanto mi occorre per uscire dalla psicologia individualistica, come quella dell’identificazione, e accedere a una vera “psicologia collettiva”, come quella che vorrei cominciare ad abbozzare in questa rubrica.
La cosa si può fare in tanti modi. Ne accenno a uno, non l’unico possibile, tanto per fare un primo piccolo passo dall’astratto al concreto.
Allora, la variabile è un insieme di valori (non necessariamente numerici). In tale insieme si possono introdurre relazioni di vario genere: ordinamenti, che stabiliscono precedenze tra valori; topologie, che stabiliscono vicinanze e coesioni tra valori; algebre, che portano da valori operandi a valori operati. Mi fermo al caso più semplice di relazione: la simmetria.
Faccio un esempio numerico banale: +5 e -5 sono numeri simmetrici rispetto allo zero. Perché entrambi distano 5 unità dallo zero, mi dice subito l’intelligentone che ha capito tutto. Certo, ma non è quello che mi interessa far notare, perché qui non mi preme far riferimento a considerazioni quantitative come la distanza (la metrica), ma voglio rimanere a livello qualitativo. +5 e -5 sono simmetrici rispetto allo zero, perché certe trasformazioni li trasformano in valori ancora simmetrici rispetto allo zero. Per esempio, moltiplicare i due numeri per -1 porta +5 in -5 e -5 in +5, che sono ancora simmetrici. Anche il calcolo degli inversi trasporta valori simmetrici in valori simmetrici. (Siamo di fronte a un transfert; stai attento psicanalista! Lo vedo che stai pensando ad altro con la tua attenzione egualmente sospesa.)
Da qui la definizione moderna di simmetria: la simmetria è un invariante (maschile!) rispetto a un certo insieme di trasformazioni della variabile. La simmetria tra i valori è ciò che non varia anche quando i valori variano. La definizione antica di simmetria oggi è decaduta. Secondo Euclide, infatti, due grandezze erano simmetriche se avevano una comune unità di misura, quindi si poteva dire che avevano la stessa forma.
Variabile/invariante: vedi il guadagno? Concependo la variabilità si riesce a concepire ciò che non varia: l’essenza, direbbe il filosofo, ultimamente e originariamente platonico; la struttura, dice il matematico. +5 e -5 sono i due “soggetti individuali” che entrano a far parte del “soggetto collettivo” di coppia (–5, +5), tenuto insieme – in bilico sul punto zero – dalla simmetria. La simmetria è una struttura.
Il campo della teoria delle simmetrie fu aperto da un giovane matematico all’alba del XIX secolo. Il suo nome fu Evariste Galois; morì a 21 anni in duello alla pistola per amore di una donna di incerti costumi. Da allora la sua teoria dei gruppi di simmetria – oggetti a loro volta simmetrici rispetto a qualche supersimmetria di ordine superiore – ha invaso – fecondato – molti campi della scienza: dalla geometria alla meccanica quantistica, passando di generalizzazione in generalizzazione attraverso la teoria delle categorie. Anche la nozione di generalizzazione sarà prima o poi da affrontare in questa rubrica, in quanto presenta il concetto di collettivo da un punto di vista sempre più astratto… no, anzi, concreto. Arriverà mai questa matematica elementare (nel senso degli Elementi di Euclide) a colonizzare il campo psicologico? Lacan lo presagiva; forse se lo augurava, parlando dei suoi matemi logico-topologici. Noi lo vedremo alle prossime puntate. Basta non perdere di vista la nozione di variabile, che tuttora ricorre raramente (o per nulla) negli scritti dei padri fondatori della psicanalisi, rimasti ancorati a concezioni un po’ antiquate di scienza, ma che sarà il filo rosso che ci accompagnerà nelle prossime puntate.

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