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LA PAROLA RUBATA

10 Feb 16

Di maimonide@iol.it
Premessa
a) Lacan ci invita, nelle ultime righe della Overture degli “Scritti”, a intuire, negli stessi, una conseguenza nella quale dobbiamo metterci del nostro.
 
b) G.B. Contri scrive, nella sua introduzione agli “Scritti”, che il testo di Lacan è molto particolare, tanto da sentirsi in obbligo di smentire, come potrebbe apparire in certi passaggi dell’opera lacaniana, che il francese sia, per elezione, la lingua più efficace per l’insegnamento della psicanalisi.
Gli scrupoli di Contri sono ben giustificati, come egli dice, dalla necessità di evitare di  passare dal ruolo di   traduttore a quello di traditore, ma soprattutto dalla volontà, ottimamente da lui conseguita, di restituirci completamente il senso dell’Opera, dopo averci avvertiti delle cautele da lui usate nella traduzione di certi termini e del doveroso compito di “metterci del suo” nel riempire i vuoti che fisiologicamente restano in una traduzione, assumendo gli stessi, per l’appunto, come occasione di arricchimento personale dell’opera originale.
 
Al di là della osticità e delle ruvidità del testo lacaniano (in genere),  condivido l’invito che trapela da  Lacan stesso, a che gli studiosi della sua opera sappiano  utilizzare al meglio la propria lingua, per creare  giochi di parole, metafore, metonimie, antonomasie, ellissi, iperboli, ossimori, spostamenti sintattici, artifici,  e fare, come ci dice Contri, di una ipotetica mancanza, (la ignoranza della lingua francese o la difficoltà della traduzione o la osticità del testo), una occasione di arricchimento di tutta la sua opera: ognuno secondo una propria competenza linguistica,  il proprio linguaggio e la propria lingua.
 
c) Leggendo “Desiderio, Godimento e Soggettivazione” di Recalcati, mi sono trovato spesso, in tantissimi passaggi, nella condizione di intuire qualcosa di non ancora detto, cosa che elicitava in me la soddisfazione di aver colto un inedito da aggiungere: salvo poi trovare, qualche pagina dopo,  scritta in forma chiara e completamente esaustiva, quello che io pensavo di avere appena scoperto.
Però, man mano che approfondivo lo studio, mi si aprivano nuove concettualizzazioni, integrazioni,  speculazioni teoriche che comunque erano lì, tra le righe, implicite, celate e rinviate a nuovi possibili  arricchimenti.
Questo mi è capitato anche con altre opere riferite  nelle note, per cui ho ritenuto opportuno  titolare questo articolo, parafrasando il  racconto di E.A. Poe, “La Lettera Rubata”, a significare 1) che a volte non riusciamo a vedere proprio ciò che è sotto i nostri occhi,
2) che la verità è ovunque e bisogna spillarla[1];
3) che spesso è la foresta a nascondere l’albero e non il contrario;
4) che il termine Altro è polisemico e ubiquitario nell’opera di Lacan e dei suoi epigoni e che gli stessi invitano noi studiosi a scovarne e coglierne significanti/significati inediti.
 
In questa relazione utilizzerò, seguendo un consiglio di Lacan[3], slittamenti metonimici, per arrivare alla formulazione di un concetto implicito nella letteratura lacaniana, che mi sembra per l’appunto estremamente chiaro, eppure non formulato  esplicitamente o, se mi sono perso qualche passaggio di autori e studiosi dell’opera lacaniana, non adeguatamente enfatizzato.
 “Ruberò”[4], quindi il termine Altro[5] agli autori cui faccio riferimento e segnatamente da quei passaggi riportati nelle note, unicamente al  fine  di evidenziarne la sua polisemia.  
La relazione è per l’appunto l’esplicitazione di questo nucleo concettuale e una speculazione sui sensi speculari di Io e Altro, che, spero,  siano apprezzate dall’editore e, conseguentemente, anche dal lettore. 
 
Una Nuova declinazione dell’Altro
Tra le varie declinazioni dell’Altro, assumerò come utile alle  mie riflessioni, quella di come il soggetto vorrebbe essere introiettato e pensato dall’Altro materno e successivamente anche dall’altro paterno e poi, nelle relazioni sociali, in specie in quelle più significative, come nei rapporti sentimentali e amicali.
È ovvio che questo Altro che ogni soggetto umano vorrebbe essere, che crede di essere,  appartiene al registro dell’immaginario, perché non ci sarà mai la certezza che fattualmente l’Altro di cui si vuole essere l’Altro, ci contenga psichicamente, nel registro del simbolico, come tale.
 
Se il Desiderio  del soggetto umano si esplicita nella domanda di riconoscimento e d’amore: Chi sono io per te?”, l’unica risposta accettabile per il soggetto è: ”Tu per me sei l’Altro: e ti riconoscerò come tale sempre e comunque, perché tu possa diventare quello che sei e non quello che io vorrei tu fossi; ed io, per quel che potrò,  sarò disponibile per questo. Inoltre,  quando e se avrai necessità, io sarò lì ad aiutarti, se tu lo vorrai, ricordandoti  questo  tuo statuto, che in me non tramonterà mai ”.
 
Ogni altra risposta, al di fuori del senso di quella inequivocabile di cui sopra, renderebbe questo Altro, destinatario della domanda, una figura vissuta dal soggetto richiedente, con ambiguità, che potrebbe alimentare il  sospetto di poter essere assoggettati a una  volontà capricciosa ed enigmatica, portatrice di un desiderio che oscilla in modo inquietante verso il godimento[6], facendo permanere il soggetto stesso, in una penosa condizione di ansia e angoscia.
 
 
 
 
Specchio Nello Specchio
“All'inizio c'è solo il caos informe del vivente, il suo eccesso di vita "senza Legge", l'esistenza come "necessità stupida". È solo l'azione dell'Altro che può attribuire un senso umano a questa vita rispondendo alla sua condizione di "assoluto abbandono"[7].
Questo senso è generato dal desiderio della madre a che il figlio si soggettivizzi, perseguendo il proprio desiderio.
 
Se consideriamo la fase dello specchio come quella che prematuramente istituisce l’Io, un’altra lettura potrebbe essere quella per la quale il bambino si significa, nello specchio,  come soggetto capace di incidere sulla realtà, sulla realtà della madre che, a sua volta, giubilando, alimenta e ingigantisce questo senso di onnipotenza del bambino.
In sostanza sappiamo che è la madre giubilante nel gioco dello specchio, a dare senso al bambino come soggetto, anticipandone ed esaltandone eccessivamente la percezione di un Io totalmente compiuto sia fisicamente che psichicamente; ma è altresì vero che  nel gioco simmetrico del riflesso speculare, il bambino pensi di essere egli quello che dà senso all’Altro: e quindi si significa come Io, proprio perché si percepisce come Altro della madre: quello cioè necessario e sufficiente alla compiutezza della madre stessa, che, proprio per questo, giubila! 
Il bambino vede Sé come l’Altro della madre, specchio nello specchio: immagine di sé come Altro, colta negli occhi della madre attraverso lo specchio.   
 
È su tale illusione che il bambino può fondare la sua possibilità di  percepirsi un Io, ovviamente in una modalità immaginaria, illusoria, narcisistica, eccedente.
Ritengo, lo ripeto, che il giubilo di madre e figlio dinanzi allo specchio sia il “riflesso”, per il bambino, della sua grande illusione di essere quell’Altro che completa la madre, ne colma la mancanza, che invece ci sarebbe,  se lui non fosse lì.
Il che, sul piano pragmatico e semantico non fa una piega, nel senso  che la  madre esiste come tale, perché c’è il figlio che ne istituisce e ne conferma il ruolo.
 
È  questa, a parer mio, la più grande illusione: non tanto credere di essere un Io, ma l’Altro: l’Altro dell’Altro![8] L’Altro senza il quale l’Altro non esisterebbe!
 
Se sono l’Altro sono l’Io
“Perché l'Io diventi so­lido e forte, e per consolidare l'integrazione delle pulsioni e delle loro rappresentazioni psichiche, amore e odio, l'individuo deve riuscire a introiettare un oggetto contenente che diventa il nucleo dell'Io”[9]: ribadisco che questo oggetto contenente l’Io non può che essere la consapevolezza di essere l’Altro per l’Altro, ovvero un contenitore determinato dalla consapevolezza di essere contenuto dalla madre come l’Altro.
  • Metonimizzando Lacan, riconduco il significato di Altro al riflesso di Sé nell’Altro maternoL’Altro dunque è il luogo dove si costituisce l’Io …”[10]
 
Se l’ipotesi che a fondamento dell’Io ci debba essere l’Altro in un rapporto diacronico ove si dia prima l’Altro e poi l’Io, se tale ipotesi, ripeto, sembrasse azzardata o troppo speculativa, mi si permetterà comunque di propugnare, hegelianamente, che non esiste l’Io senza il suo opposto, cioè l’Altro e vorrà dire che il concetto varrà secondo un rapporto sincronico.
È altresì ovvio che questo dubbio varrebbe solo per la nascita dell’Io e non per il suo sviluppo, che sarà a lungo accompagnato dalla sua necessità di percepirsi, sebbene sul registro dell’immaginario, come Altro dell’Altro: questo da bambino, poi nel rapporto sentimentale, quindi come padre o madre, anche se poi, alla fine, l’Io, nella sua completa maturazione, attraverso l’identificazione introiettiva può esistere anche senza l’ossessione di sentirsi l’Altro.
Questo Altro inoltre sopravviverà all’Io nei nostri figli e nipoti: perché l’Io muore col nostro corpo e  potrà sopravvivere, per l’appunto, solo simbolicamente e senza averne consapevolezza,  come  Altro.
Ma siccome noi soggetti viventi sappiamo che sopravviveremo come “Altro” nell’Altro, potremmo vivere meglio la nostra finitudine fisica, consapevoli che qualcosa di noi rimarrà  e questa volta il resto è a nostro favore.
 
Altro solo se Solo e Unico: L’ALTROISMO
L’Io che nasce da questa declinazione dell’Altro, si sostiene, all’inizio,  anche su un’altra necessità, quella cioè che il bambino si percepisca come  l’Unico Altro.
–  Narciso diventa Caino perché si percepisce spossessato del rango di Unico Altro.
–  Nel complesso di intrusione il bambino non solo vede compromesso il suo statuto di Io, ma di anche quello di Altro che credeva di essere, ritenendo che la presenza di un Altro lo faccia eclissare ad altro, cosa che avviene anche nel complesso edipico e che permane nella patologia narcisistica.
 
Partendo dall’asserzione di Lacan[11]Il soggetto che rifiuta la sua divisione, il soggetto che si pone come un essere, come un’identità chiusa è per Lacan il soggetto autenticamente folle”: penso si possa altrettanto asserire  che altrettanto folle, sia colui che pensa di essere l’Altro per l’Altro, quello cioè capace di  riparare la divisione dell’Altro, portandolo all’autosufficienza, alla compiutezza, all’Uno e alla  ipostatizzazione del desiderio.
Ecco cosa  intendo con il termine Altroismo: “la necessità di percepirsi  l’Altro per l’Altro, in maniera radicale, esclusiva,  con l’angoscia di essere spossessato ed eclissato da chi si dovesse frapporre fra sé e l’Altro”.
L’Altroismo è questo voler essere l’Altro per l’Altro  “ad Esclcudendum Omnes Alios”: è per l’appunto  la necessità di riconoscersi come l’Unico Altro, perché, se non si sentisse tale, non si sentirebbe neppure l’Altro.
 
La madre “sufficientemente buona” e il Nome del Padre sono quelle condizioni  che  permetteranno  al figlio,  man mano, di sublimare tale pulsione  di voler essere  l’unico Altro, e di accettare di essere comunque l’Altro anche tra vari Altri, quali fratelli e padre: essere l’Altro non perché Unico, ma perché irriducibile nella  propria singolarità, rappresentata in origine dal proprio Nome.
 
L’Altro per la Resurrezione dell’Io – Un Caso
Ho avuto in analisi una madre, che, riferendomi del figlio depresso, mi disse che questi, in un particolare momento di questa sua drammatica condizione,  benché marito e padre, le inviò questa lettera: “Vivo solo per voi, per te e papà”.
Un Io frammentato, schiacciato dalle responsabilità lavorative e da quelle familiari, sopravvive alla disperazione di non riuscire a cogliere il  senso della propria vita, grazie al “debito” che egli percepisce di avere contratto con l’Altro materno e paterno.
Rimette solo a questa  certezza, quella di essere stato e di essere amato, di essere sempre stato l’Altro dell’Altro, il suo  legame alla vita: certezza dalla quale aveva contratto eticamente non solo un debito,  ma anche,  come flebile speranza,  la necessità e il dovere di viverla comunque la vita, pur nella più cupa disperazione.
Questo Io oscurato dalle nere ombre della depressione e al quale non bastava “l’obbligo” di  sopravvivere per la propria moglie e i propri figli e che non riusciva a sostenere il peso di essere l’Altro, per loro, trovava la volontà di resistere alla pulsioni autodistruttive, nella consapevolezza che l’Altro materno e l’Altro paterno volevano che egli vivesse.
Questa consapevolezza di essere stato e di essere amato come figlio, lo ha tenuto legato biologicamente alla vita, alla quale, in seguito, è risorto anche psicologicamente. 
Un Io che non era più tale, solo in virtù dell’Altro che egli si era percepito e si percepiva, è stato capace di riprendersi la propria vita, per poi ricominciare a viverla in maniera non più persecutoria, anche con l’aiuto dell’analisi. 
Speranza riposta nello scrigno dell’inconscio e alimentata da nessun dove e nessun quando nei quali trascendere la propria sofferenza, che non fossero il luogo dell’Altro materno e paterno, che con la loro  reverie ne hanno ricomposto il  suo Io in frantumi.
 
La causa lontana della sua depressione era stato, sui 23 anni,  il suo rifiuto di questo rango di Altro, con un precoce e prematuro distacco dalla famiglia d’origine,  nella distorta fantasia che  la costituzione di una nuova  famiglia, moglie e figli, imponesse il rifiuto della vecchia,  il distacco dai genitori, l’abbandono di un anacronistico e non più funzionale statuto di Altro.
Questo distacco, frutto di una formazione reattiva al timore di un possibile risucchio verso  i propri genitori  (timore immotivato perché aveva sempre goduto di una grande libertà emotiva nel rapporto con essi), stava ora presentando alla persona  il prezzo di un risarcimento, attraverso un potente senso di colpa, da pagare con una azione riparativa configurantesi con una  lacerante depressione.
Il figlio aveva ritenuto che essere l’Altro dei propri genitori, volesse dire perdere la propria Alterità, subire una Alterazione che ne impedisse la soggettivazione o ne limitasse la propria singolare soggettività.
Altro, Altèro, Alterato, Alienato: una deriva verso la spersonalizzazione, per la sciocca presunzione di rifiutare le vecchie figure di riferimento,  pensando che condizione necessaria della propria soggettivazione fosse  il rifiuto della sua storia, nella logica difensiva (da chi?), e unificatoria di cose positive e negative e il conseguente rifiuto delle stesse, con relativa loro proiezione e dispersione, proprie della metafora precauzionale[12], nell’illusione che alienandosi come l’Altro che era stato, avesse maggiore libertà e maggiori probabilità di cercare e trovare  Altri dei quali diventare l’Altro. 
Ma come sappiamo, questo Altro che si è stati e che a un tratto non piace più, perché visto come un impedimento, potrà sì, sempre essere sottoposto a revisione, ad analisi, ma giammai rifiutato e proiettato in luoghi dove non si riuscirebbe mai più a recuperarlo e dai  quali, quindi, non potrà mai essere restituito come Oggetto Buono[13], dai contenitori materno e paterno. 
Questo Altro è la matrice di tutti quegli “Altro” che il soggetto sarà, ma soprattutto è la condizione per accettare, nel tempo, la condizione di diventare altro tra tanti, attraverso l’accettazione della propria mancanza ad essere, perché, come ci insegna Lacan, l’Altro non esiste.
 
Il Debito a Lacan
In tal senso mi sembra che, il fatto che  Lacan propugni, solo alla fine della sua opera l’inesistenza dell’Altro, e quindi in una fase di piena maturità, sia una splendida metafora di come  il soggetto umano dovrà prima percepire/illudersi di essere l’Altro, per poi poter accettare e vivere con pienezza, la condizione di altro tra tanti altri, sapendo, ma senza autocompiacimento, di rappresentare o di avere comunque rappresentato l’Altro per qualcuno, che magari non conosce nemmeno[14] o anche di esserlo e/ o di esserlo stato, senza saperlo.
È come se leggendo Lacan secondo la cronologia delle sue opere, questi prima ci illudesse e poi ci disilludesse, assolvendo proprio al compito di un genitore responsivo e sufficientemente buono.


[1] J. Lacan “Scritti” vol. 1 trad. Contri pag 57
[3] J. Lacan, “Scritti” Vol. 1 _ trad. G. Contri  p. 499:   “ ..  la possibilità che ho, appunto nella misura in cui la (sua) lingua mi è comune con altri soggetti, cioé nella misura in cui questa lingua esiste, di servirmene per significare tutt'altra cosa da ciò che essa dice.
[4] In senso poetico, cioè “coglierò” (rubare un fiore, un bacio) e in senso musicale, cioè “mi prenderò una licenza” rispetto ai canoni cui il termine Altro si attiene, anche se i termini Altro e canone sembrano ossimorici.
[5]  L’Altro è più che mai messo in discussione. Da un lato l’Altro deve essere nuovamente riforgiato, riconiato, perché assuma il senso pieno, la sua risonanza completa. Il Seminario Libro XX – pag. 37  Jacques Lacan.
[6] M. Recalcati: Desiderio Godimento Soggettivazione. pag. 376
 
[7] M. Recalcati: Desiderio Godimento Soggettivazione. pag. 394
[8] L’Altro materno, l’Altro paterno.
[9] Comunicazione e contenimento nell'analisi infantile: verso la terminabilità: T. E. De Folch: E. Bott Spillius Melanie Klein vol.2 – “M. Klein e il suo impatto sulla psicanalisi oggi”.
 
[10] Lacan: “Scritti” vol. 1 G. B. Contri pag 423.
[11] Seminario XI “Alienazione e separazione”
[12] Bruner:
[13] Declinazione kleiniana dell’Altro: inserita perché più funzionale alla rappresentazione figurativa e scenografica delle dinamiche transferali genitori – figli.
[14] La parola rubata è Altroismo

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