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LA GUERRA E I SUOI TRAUMI TRA CENTENARIO E ATTUALITÀ. Cronaca di un seminario sulle Alpi bavaresi

29 Feb 16

A cura di Paolo F. Peloso

Ci siamo trovati il 4 e 5 febbraio in un una cinquantina tra storici e psichiatri nell’ex monastero di Irsee, presso Kaufbeuren in Baviera, località tristemente nota quest’ultima perché, come ricorda un cippo collocato nelle adiacenze dell’attuale ospedale, il suo ospedale psichiatrico fu tra quelli coinvolti nel programma di sterminio dei malati di mente che ebbe luogo durante il nazismo. A chiamarci a raccolta Thomas Becker, docente di psichiatria all’Università di Ulm; Heiner Fangerau, docente di storia ed etica della medicina dell’Università di Colonia; Peter Fassl, responsabile dell’assistenza domiciliare del distretto della Svevia; Hans-Georg Hofer, docente di etica, storia e teoria della medicina dell’Università di Munster, per un seminario internazionale dedicato alla psichiatria e al trauma bellico nella Prima guerra mondiale. La prima sezione, dedicata ai fatti psichiatrici durante la guerra, si è svolta in tedesco e ha visto protagonisti l’austriaco Dave Bandke con una ricerca condotta sull’archivio dell’ospedale Rosenhugel di Vienna; la tedesca Uta Kanis-Seyfried, che ha condotto le sue ricerche su due ospedali psichiatrici tedeschi, del Wurttemberg e del Baden; e le altre tedesche Petra Schweizer-Martinschek e Corinna Malek, che hanno condotto le loro ricerche nel locale ospedale psichiatrico di Kaufbeuren, concentrandosi la prima sui ricoveri di soldati impegnati al fronte e la seconda in particolare sull’interessante questione dell’aumento della mortalità dovuto a insufficiente apporto nutrizionale per la generale carenza di generi alimentari nella Germania degli anni 1914-18, riscontrato in molti manicomi tedeschi dagli studi di Heinz Faulstich. Il manicomio di Kaufbeuren, invece, parrebbe aver rappresentato in quell’occasione un’eccezione probabilmente perché l’approvvigionamento alimentare era in buona parte garantito dall’attività ergoterapica che si svolgeva all’interno, e quindi meno soggetto alle contrazioni che le forniture da parte dell’amministrazione subirono nel corso della guerra. Si è quindi proseguito con altre relazioni tedesche, quella di Cristoph Bartz-Hisgen dedicata al sistema di osservazione psichiatrica dei militari nel Baden, e in particolare alla sezione militare dell’ospedale universitario di Heidelberg; e quello di Felicitas Söhner dedicata all’utilizzo dell’ergoterapia nel corso della prima guerra mondiale. Ha avuto quindi inizio la seconda sezione transnazionale e comparativa, con l’intervento di Vinzia Fiorino , dell'Università di Pisa, che si è rifatta all'ampia casistica raccolta presso l'archivio del frenocomio di Volterra e commentata nel volume "L'officina della follia" (ETS, 2011), per individuare nella patologia traumatica bellica tre figure emblematiche di un rifiuto della disumana situazione della trincea: quella dell'uomo nudo che scappa (il soldato in fuga dopo aver lasciato l'uniforme), quella della regressione all'infanzia, e quella costituita dalle restanti espressioni dell'isteria con la sua ampia costellazione sintomatologica. Ha fatto seguito la belga Christine Van Everbroek, autrice nel 2014 del volume “Le silence mutilé”, che ha presentato la particolare situazione del Belgio neutrale costretto a organizzare in Francia e Gran Bretagna il proprio servizio sanitario militare, che in genere riuscì ad affrontare con puntualità e realismo gli effetti psicotraumatici della guerra individuando una soluzione possibile nell’utilizzo dei soldati riformati nell’industria militare e in altre attività delle retrovie. Sono invece ancora carenti gli studi sugli effetti della guerra sulla popolazione civile sotto occupazione, il che può stupire anche se si considera l’importanza che il tema delle donne belghe violentate dagli occupanti, che fu effettivamente un fenomeno drammatico ad avviso di Christine, rivestì nella propaganda interventista italiana durante il 1914-15. Secondo Marie Derrien, giovane ricercatrice dell’università di Lione,  la Francia allestì con qualche ritardo un servizio specifico per il trattamento dei problemi psichici insorti al fronte, circostanza peraltro che trova riscontri nelle pubblicazioni degli psichiatri italiani dell’epoca, secondo i quali l’organizzazione da loro allestita nell’autunno del 1915 fu utilizzata come modello dai francesi. Attraverso lo studio degli archivi di tre ospedali psichiatrici presso Marsiglia e Grenoble oltre a quello parigino di Charenton, Marie sottolinea il fatto che i tempi di degenza per i militari nei tre istituti sembrano molto più brevi, anche se la maggior parte di essi non viene poi rinviata in trincea, ma destinata ad altri servizi nelle retrovie. In analogia con quanto è stato sottolineato per l’Italia da Antonio Gibelli[i], l’ipotesi di Marie è che la guerra, con la massiccia domanda di mano d’opera militare e civile che l’ha accompagnata, abbia rappresentato un potente fattore di trasformazione della percezione della funzione del manicomio e della propria pratica da parte degli psichiatri. Tale trasformazione, mi pare, potrebbe essere collegata a una caduta di fiducia alla quale il paradigma esquiroliano dell’isolamento terapeutico era andato incontro in Francia già alla fine del XIX secolo per opera di autori come Marandon de Montyel: modalità di trattamento più aggressive e esercitate "in loco" ottengono forse migliori risultati, evitando il rischio dell’evoluzione in cronicità. Per altri versi, anche se nella Francia del primo dopoguerra la psichiatria esercitata al fronte non parrebbe aver lasciato tracce significativa, pare aprire alla prospettiva dei movimenti di igiene mentale e della psichiatria di settore che si sarebbero sviluppati nel Novecento.  Non solo; la guerra alza probabilmente la soglia diagnostica della malattia mentale, perché è necessario poter disporre di più braccia per la trincea o il lavoro nelle retrovie. Anche la guarigione parziale o sociale diventa così accettabile, e ciò contribuisce a ovviamente a elevare i tassi di guarigione. il fenomeno che Marie ha ipotizzato parrebbe corrispondere anche, credo, a un ribaltamento del mandato sociale a rinchiudere per garantire sicurezza di cui la psichiatria è stata in altri momenti oggetto, in un mandato a guarire per recuperare forza lavoro, il che potrebbe rappresentare un fenomeno analogo alla relazione tra andamento del mercato del lavoro e tassi di guarigione della schizofrenia ipotizzata qualche anno fa da Richard Warner[ii]. E ciò, l’intervento di arie mi ha ancora suggerito, dovrebbe spingerci a interrogarci sul reale senso di questa così particolare disciplina medica, nella quale il concetto stesso e addirittura i tassi di guarigione sono in così stretta relazione con la pressione sociale a guarire e liberare o a trattenere, e sulla fragilità del suo fondamento epistemologico. L’intervento successivo, di Susanne Michl, di Mainz, ha ricordato come l’isteria si ponga tra l'onesta veridicità e la tendenza cattiva alla menzogna secondo De Fleury in un articolo del 1918, mentre Albert Devoux nel 1917 coniò l’espressione “invalide du courage”, o “invalide moral”, per designare i soldati resi invalidi da un trauma di natura mentale che dovevano essere distinti dai simulatori. Ha focalizzato poi  l'attenzione sugli sforzi degli psichiatri francesi per identificare la natura dei fenomeni psicopatologici sul campo di battaglia, che diedero origine a diverse teorie, che riguardarono i "fenomeni pitiatici" descritti da Babinskij il contrasto tra emozioni e commozione, o l'angoscia di guerra. Nella paura e nell'angoscia di guerra Susanne giunge così a identificare un ponte tra le esperienze belliche di chi sta in trincea e di chi sta a casa.
La sera Edgar Jones, del King’s College di Londra, autore con Simon Wessely di un recente articolo su Lancet[iii], ha brillantemente trattato il caso dello “shell shock”, un termine coniato proprio sul lo stesso Lancet nel 1915 da CS Myers per indicare lo schock che coglieva frequentemente i soldati che si trovavano in prossimità dello scoppio di granate caratterizzato da sintomi funzionali quali esaurimento, palpitazioni, respiro breve, tremore, dolori muscolari e articolari, vertigini, mal di testa, ansia, difficoltà al sonno incubi, strani movimenti patologici, un corteo sintomatologico assai più ampio di quello previsto per l’attuale PTSD. In molti casi, questi disturbi proseguirono per molto tempo dopo la fine della guerra. Fredrich Mott ipotizzò per il fenomeno un’origine commotiva; Myers, che si trovava vicino al fronte, contestò questa ipotesi propendendo per l’ipotesi di un disturbo da conversione in soldati incapaci a fronteggiare lo sforzo bellico, e Mott fu poi costretto a ricredersi ripiegando sull’ipotesi che il meccanismo con il quale lo scoppio poteva agire sul soldato non era di natura commotiva, ma rappresentava invece l’ultima goccia su un sistema nervoso già messo a dura prova dalla trincea. La particolare vulnerabilità di quei soldati legata a un’eccessiva emotività. Secondo quanto scrissero Smith e Pear già nel 1917, il concetto aveva perso nel corso del dibattito ogni riferimento allo scoppio di granata, per passare a indicare inadeguatamente ogni effetto mentale dell’esperienza bellica idoneo a impedire a un uomo il compimento del proprio dovere militare. Le manifestazioni del disturbo e la discussione a esso relativa ripresero in Gran Bretagna allo scoppio della seconda guerra mondiale. Myers aveva suggerito la creazione di centri per il trattamento di questo fenomeno in zone di sicurezza ma prossime al fronte, caratterizzate da vicinanza al fronte, rapidità d’intervento e forte orientamento alla guarigione. Questa strategia fu ripresa dall’esercito britannico anche durante la seconda guerra mondiale, e poi dagli americani in Corea, Vietnam, Iraq e Afghanistan. 
A questo intervento ha fatto seguito quello di Stephanie C. Linden, autrice con lo stesso Edgar Jones di un recente intervento su Brain[iv] relativo al trattamento del trauma bellico in un importante ospedale di Londra, quello nazionale di Queen Square diretto da Lewis Yewalland (1884-1954), nel quale furono trattati nel corso del conflitto 1212 soldati, per 462 dei quali, il 38%, non fu possibile riscontrare nessuna causa organica del disturbo neurologico funzionale dal quale erano affetti. La maggioranza di questi soldati avevano sintomi motori o sensitivi, mentre il 5% manifestò disturbi dello stato di coscienza o comportamento aggressivo o incongruente, che talvolta mimava situazioni belliche. Al Queen Square Hospital erano utilizzati vari trattamenti fisici e psicologici, in particolare suggestivi, tra i quali stimolazioni elettriche insieme ad altri trattamenti fisici o psicologici, con un approccio complessivamente aggressivo che dopo la guerra fu oggetto di polemiche anche per l’affermarsi di una diversa concezione in materia di autonomia del paziente; va tuttavia osservato che un modulo era previsto perché il militare potesse esprimere il proprio consenso informato al trattamento. Il confronto con gli archivi dell'ospedale della Charité a Berlino diretto da Karl Bonheffer e l'ospedale militare di Jena diretto da Otto Binswanger può mostrare secondo Stephanie interessanti differenze nella fenomenologia delle nevrosi belliche tra i due Paesi.
Interamente in tedesco la seconda giornata, nel corso della quale Andreas Enderlin, dell'Università di Vienna, si è concentrato sugli oltre 100.000 mutilati che la guerra lasciò in eredità all'Austria repubblicana dopo la caduta dell'impero asburgico, il cui disadattamento sia rispetto alla vita affettiva che al mercato del lavoro, e le emozioni ad esso correlate, fu alternativamente diagnosticato con i termini di esaurimento o psicastenia. Stephanie Neuner, autrice del volume “Politik und Psychiatrie” (Gottingen, 2011), si è concentrata sulla documentazione relativa alle pratiche pensionistiche per studiare il destino dei titolari di pensioni di guerra per ragioni di infermità psichica. Al contrario dei mutilati nel corpo, i nevrotici di guerra non disponevano di specifici programmi di trattamento, né di inserimento al lavoro, complice anche il fatto che secondo gli psichiatri il trauma psichico di guerra non avrebbe dovuto avere conseguenze a lungo termine. La situazione sociale e le condizioni psichiche di molti di essi peggiorarono già durante la Repubblica di Weimar, ma soprattutto dopo il 1933 quando le cause psichiche furono escluse dai benefici pensionistici di guerra. Anche Peter Steinkamp delle università di Ulm e Berlino si è concentrato sul destino dei veterani della prima guerra mondiale, questa volta quelli nuovamente richiamati in occasione della seconda. In occasione di problemi di salute mentale, durante la seconda guerra mondiale era più difficile il congedo, e più facile invece il ricovero in cliniche militari o in speciali unità, alcune delle quali erano definite “unità di punizione”. In alcuni casi, sui quali Steinkamp si concentra, i militari con problemi di sofferenza psichica commisero il suicidio. Philipp Rauh, dell'università di Erlangen-Nurnberg, ha presentato i risultati del congresso di psichiatria militare che si tenne a Monaco nel maggio 1916; in tale occasione gli psichiatri concordarono per la natura per lo più isterica dei sintomi della nevrosi di guerra, e la loro relazione con la spinta del desiderio di evitare la guerra rifugiandosi nella malattia. In tale occasione si discusse anche dell’applicazione dolorosa dell'elettricità e delle sue possibilità nella terapia della nevrosi bellica. Gundula Gahlen, nel suo intervento, ha invece insistito sulla necessità di ridimensionare la diffusa vulgata storiografica di un diverso trattamento da parte del sapere psichiatrico tra soldati e ufficiali. Tale differenza di rango, infatti, influenzò spesso la sistemazione "alberghiera" degli uni e degli altri, ma l'ipotesi che agli ufficiali sarebbe stata riservata più frequentemente la diagnosi meno umiliante di neurastenia rispetto a quella di isteria, nonché trattamenti terapeutici meno cruenti, sembrerebbe – sulla base degli studi più recenti – non avere valore così ubiquitario.
Rifacendosi alla lunga storia del rapporto tra isteria e cinema, il cui inizio fissa in vari paesi a partire dal 1899, Julia-Barbara Köhne, dell'Università Humboldt di Berlino, si è concentrata sui documentari medici tedeschi, francesi e inglesi volti a documentare i movimenti patologici isterici dei soldati nel 1916-18, e quindi da un lato l'esistenza e la morfologia – e dall'altra le relativamente rapide possibilità di guarigione – di questi quadri. Attraverso la tecnica cinematografica, è documentato l'intero circuito attraverso il quale il corpo eroico del soldato può cadere vittima di processi di fragilizzazione e femminilizzazione, dai quali gli è possibile riprendersi attraverso il recupero del movimento fisiologico e dell'uniforme (ricordo a proposito il materiale raccolto nell’interessante  documentario “Scemi di guerra. La follia nelle trincee” recentemente realizzato in Italia da Enrico Verra). Hans-Georg Hofer, poi, ha ripercorso il processo, nell'Austria socialdemocratica del 1920, che ha visto protagonista il noto psichiatra Julius Wagner-Jauregg (1857-1940), inventore della malarioterapia delle malattie mentali, premio Nobel per la medicina nel 1927 e docente di psichiatria all'Università di Vienna, con l'accusa di un uso brutale, presso il suo istituto, della terapia dell'isteria attraverso scosse elettriche dolorose. Anche Sigmund Freud fu citato come esperto nel corso del processo ed ebbe così modo di esporre la teoria psicoanalitica delle nevrosi di guerra come si era trasformata nel corso del conflitto. Va peraltro osservato che lo stesso Freud riferisce nel 1895 di avere utilizzato, in tempo di pace, il trattamento elettrico con due delle sue pazienti isteriche, Emma ed Elisabeth von R. Nel commentare la relazione presentata in quell’occasione da Freud, e oggi disponibile nella OSF, Hans-Georg ha contestato sotto molti aspetti il lavoro che nel 1986 lo psicoanalista Kurt R. Eissler (1908-1999) dedicò all’argomento per il carattere agiografico. Infine, Ralf Seidel si è soffermato tra l’altro sul ribaltamento semantico del concetto di nevrastenia dagli anni prima della guerra, quando ad esso veniva fatto corrispondere un alone quasi romantico, al momento bellico, quando sotto l'urgenza della mobilitazione la nevrastenia si trasformò in un ostacolo da combattere energicamente nell’interesse della patria.
Possiamo interrogarci sull’utilità di questi studi, a un  secolo di distanza, per la comprensione del rapporto tra guerra e salute mentale nell’attualità. Si potrebbe in proposito osservar che le armi, a un secolo di distanza, sono le stesse, semmai più potenti e spaventose, e lo stesso è il loro impatto sul corpo e la mente dell’uomo, semai enormemente allargato alla popolazione civile. La stessa è la paura, lo stesso è il terrore con i quali il corpo e la mente sono portati a reagire a situazioni catastrofiche e disperate. I soldati traumatizzati di ieri e il modo in cui la psichiatria ha letto e trattato il loro dramma ci parla infondo di quelli di oggi. Ma non solo. Le analogie riguardano anche episodi che, come medici, ci riguardano in modo ancora più diretto, non solo nel corpo dei nostri pazienti ma anche nel nostro. La storia non pare essere scorsa e continua a proporre, cento anni dopo, analoghi problemi. Emblematico il caso dei bombardamenti di ospedali ai quali oggi, senza sufficiente scandalo e indignazione, assistiamo in Afghanistan, Yemen, Siria che ripropongono la morte eroica, quando le armi erano molto meno intelligenti ma gli uomini altrettanto cinici e stupidi di oggi, di Gaetano Perusini (1879-1915) in un'infermeria di linea. Come del resto quello della resistenza che i medici egiziani stanno opponendo alla violenza della polizia del regime di Al-Sisi che li vorrebbe compiacenti e spergiuri – della quale abbiamo qualche eco sbiadito sullo sfondo della cronaca per l'assassinio del ricercatore italiano Giulio Regeni – così simile al coraggio dimostrato negli anni '30 da Guglielmo Lippi Francesconi (1898-1944) di fronte alle intimazioni dei fascisti di Lucca che ne causò la persecuzione e, indirettamente, la cattura presso la Certosa di Farneta seguita dalla uccisione in una rappresaglia. Se la storia, quindi, sembra non scorrere e ieri come oggi è guerra e violenza, guerra spietata, credo che ciò rappresenti una ragione in più per guardarci indietro e impegnarci in un faticoso lavoro di ricostruzione del tempo trascorso, utile a una più piena intelligenza di quello che viviamo.


[i] A. Gibelli, L’officina della Guerra, Torino, Bollati Boringhieri, 1991.
[ii] R. Warner, Schizofrenia e guarigione. Psichiatria ed economia politica, Milano, Feltrinelli, 1991.
[iii] E. Jones, S. Wessely, Battle for the mind: World War 1 and the birth of military psychiatry, Lancet, 184, 8 novembre 2014, pp. 1708-1714.
[iv] S.C. Linden, E. Jones, A.J. Lees, Shell shock at Queen Square: Lewis Yealland 100 years on,  Brain, 136, 2013, pp. 1976-1988.

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2 Commenti

  1. info_1

    Tutto il mio rammarico per
    Tutto il mio rammarico per non aver saputo, mea culpa, del convegno.
    UN tema che si dimostra attuale nel tempo, potendo estendere il concetto di trauma dalle situazioni belliche del tempo sino ai giorni nostri.

    A Modena ci occuperemo proprio di questo, trattando dell’indagine svolta da un giornalista sui reduci dalla guerra in Afghanistan.

    Chiedo all’autore se e dove sia possibile consultare gli atti, oppure i video, del seminario.

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    • chiclana

      Sì, concordo pienamente con
      Sì, concordo pienamente con te sull’attualità del tema. Durante le mie ricercghe sulla seconda guerra mondiale ho ritrovato sostanzialmente, almeno per l’Italia, quadri traumatici simili e soprattutto lo stesso rifiuto di considerare cause emotive nella sofferenza mentale. Credo che sia ragionevole pensare che anche i quadri dei conflitti attuali, a parte che per il maggiore coinvolgimento dei civili, non differiscano fran che. L’orrore della guerra non è cambiato significativamente, le emozioni dell’uomo e la loro relazione con il corpo neppure. Sono perciò molto interessato se a Modena avete in programma qualcosa sul tema e spero di averne notizia. Purtroppo per la conferenza di Irsee è prevista la prossima pubblicazionme degli atti, ma in tedesco; non mi pare che siano state fatte registrazioni. Per questa ragione mi è parso uile proporre un lungo report in italiano. Se ti occorre qualche notizia in più, per quel che posso, puoi cerfcarmi presso il DSMD di Genova. Grazie e saluti cordiali. Paolo Peloso

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