LA FORMAZIONE E LA CURA
Seminario permanente su l' "Ordine del Discorso"
di Mario Galzigna

LA PAROLA DELLO SCIAMANO

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15 marzo, 2016 - 11:27
di Mario Galzigna
DAVI KOPENAWA, OVVERO LA CADUTA DEL CIELO. PAROLE DI UNO SCIAMANO YANOMAMI
 
Traduco, qui, "Paroles données"(pp. 37-40): la premessa dello sciamano yanomami DAVI KOPENAWA al libro scritto assieme all’antropologo francese BRUCE ALBERT. Il libro è uscito prima in francese – nel 2010, con il titolo LA CHUTE DU CIEL (La caduta del cielo), per i tipi di Plon (Parigi, 817 pp.) – e poi in inglese. Manca, di questo testo, una traduzione italiana. Per sollecitare l’editoria del nostro paese a promuovere una traduzione, propongo qui, come primo stimolo, la versione italiana della sintetica premessa che precede il primo capitolo. Una premessa densa e significativa, nella quale Davi, lo sciamano, parla in prima persona, rivolgendosi a Bruce Albert, che lo ha frequentato regolarmente, divenendone anche amico, già a partire dagli anni 70. Le poche pagine della premessa ci introducono, attraverso la parola dello sciamano, ad un libro epocale, che rivoluziona il nostro tradizionale approccio - antropologico, psicologico, filosofico - all'altro e all'alterità culturale.
(Mario Galzigna)
 

 
 

 

"Amo spiegare queste cose ai Bianchi affinché possano sapere"
Davi KOPENAWA

 

Da molto tempo sei venuto a vivere tra gli Yanomami e parlavi come un fantasma. Poco a poco hai imparato a imitare la mia lingua e a ridere con noi. Eravamo giovani e all'inizio non mi conoscevi. Il nostro pensiero e la nostra vita sono differenti poiché tu sei un figlio di queste altre genti che noi chiamiamo nape. I tuoi professori non ti avevano insegnato a sognare come sognamo noi. Tuttavia, ti sei rivolto a me e sei diventato mio amico. Ti sei collocato al mio fianco e successivamente hai voluto conoscere il dire degli xapiri, che nella vostra lingua voi chiamate spiriti. Allora ti ho affidato le mie parole e ti ho chiesto di portarle lontano per farle conoscere ai Bianchi che nulla sanno di noi. A lungo, nella mia casa, siamo rimasti seduti a parlare, malgrado le punture di insetti come il tafano o il simulio. Poco numerosi sono i bianchi che hanno ascoltato allo stesso modo le nostre parole. Ti ho consegnato così la mia storia in modo che tu possa rispondere a coloro che si interrogano su ciò che pensano gli abitanti della foresta. Nei tempi passati, i nostri anziani non avevano rivelato nulla di tutto ciò, poiché sapevano che i bianchi non comprendevano la loro lingua. Per questa ragione, il mio dire sarà nuovo per chi vorrà ascoltarlo.
Più tardi ti ho dichiarato: "Se vuoi assumere le mie parole, non distruggerle. Sono le parole del demiurgo Omama e degli xapiri. Prima disegnale su fogli - su pelli di immagini - e poi guardale spesso. Penserai allora: Haixope! E' proprio qui la storia degli spiriti! E più tardi dirai ai tuoi figli: <Queste parole di scrittura sono quelle di uno Yanomami che in passato mi ha raccontato come è divenuto spirito e in che modo ha imparato a parlare per difendere la sua foresta>. Poi, quando queste strisce in cui è trattenuta l'ombra delle mie parole saranno fuori uso, non gettarle via. Potrai bruciarle solo quando saranno molto vecchie e quando le mie parole saranno da tempo diventate disegni che i Bianchi potranno guardare. Inaha t(h)a ? D'accordo?".

Con l'età sei diventato, come me, più avveduto. Hai disegnato e fissato queste parole su pelli di carta, come ti ho chiesto. Esse sono partite, lontano da me. Ora vorrei che esse si separassero e si propagassero lontano per essere veramente intese. Ti ho insegnato queste cose affinché tu le trasmettessi ai tuoi: ai tuoi vecchi, ai tuoi padri e suoceri, ai tuoi fratelli e cognati, alle donne che tu chiami "spose", ai giovani che ti chiameranno "suocero". Se ti chiedono: "Come hai imparato queste cose?", tu risponderai: "Ho abitato a lungo le case degli Yanomami e ho mangiato il loro cibo. E' così che, un po' alla volta, la loro lingua ha fatto presa su di me. Mi hanno allora affidato le loro parole giacché sono in pena per il fatto che i Bianchi siano così ignoranti al loro riguardo".
I Bianchi, sempre troppo preoccupati dalle cose del presente, non spingono il loro pensiero molto lontano davanti a loro. Ecco perché vorrei che potessero intendere le mie parole attraverso i disegni che ne hai tracciato e vorrei che esse penetrassero nella loro mente. Vorrei che, dopo averle comprese, dicessero: "Gli Yanomami sono gente diversa da noi, ma le loro parole, cionondimeno, sono rette e chiare. Ora capiamo ciò che pensano. Sono parole di verità! La loro foresta è bella e silenziosa. Sono stati creati in essa e vivono in essa, sin dai primi tempi, senza inquietudine. Il loro pensiero segue percorsi diversi rispetto al percorso delle merci. Si augurano di vivere secondo i propri intendimenti. I loro costumi sono differenti. Non possiedono pelli di immagini ma conoscono gli spiriti xapiri e i loro canti. Vogliono difendere la loro terra poiché si augurano di continuare a viverci come un tempo. Che sia così! Se non la proteggono, i loro figli non avranno un luogo in cui vivere felici. Essi si diranno allora che i loro padri dovevano davvero mancare di intelligenza avendo lasciato loro soltanto una terra nuda e bruciata, pregna di vapori epidemici e attraversata da ruscelli di acqua sporca!".
Vorrei che i Bianchi la smettessero di pensare che la nostra foresta è morta e che sia collocata qui senza ragione. Vorrei far loro ascoltare la voce dei xapiri che si muovono qui senza posa danzando sui loro specchi risplendenti. Così, vorranno forse difenderla con noi la foresta? Vorrei anche che i loro figli e le loro figlie comprendessero le nostre parole stringendo amicizia con i nostri figli, al fine di non crescere nell'ignoranza. Se infatti la foresta viene interamente devastata non ne nascerà più un'altra. Discendo dagli abitanti di questa terra delle sorgenti dei fiumi che sono i figli e i generi di Omama. Sono le sue parole e le parole degli xapiri emerse nel tempo del sogno che mi auguro di offrire, qui, ai Bianchi. Fin dai primi tempi i nostri antenati le possedevano. Poi, quando mi toccò di diventare sciamano, l'immagine di Omama le ha collocate nel mio petto. Da allora il mio pensiero va in tutte le direzioni, dall'una all'altra di queste parole, che aumentano dentro di me senza trovare fine. E' così. Non ho avuto nessun altro professore all'infuori di Omama. Sono le sue parole, a me trasmesse dagli anziani, che mi hanno reso più intelligente. I miei discorsi non hanno altra origine. Quelli dei Bianchi sono molto diversi. Sono forse ingegnosi ma non sono troppo saggi.
Non possiedo, come loro, vecchi libri in cui vengono disegnati i detti dei miei antenati. Le parole degli xapiri si sono fissate nel mio pensiero, nel più profondo di me stesso. Sono le parole di Omama. Ma sono tuttavia molto antiche e gli sciamani le rinnovano senza posa. Da sempre esse hanno protetto la foresta e i suoi abitanti. Oggi tocca a me possederle. Più tardi esse penetreranno nella mente dei miei figli e dei miei generi; poi, in sèguito, in quella dei loro figli e dei loro generi. A quel punto, toccherà loro il còmpito di rinnovarle. Poi tutto questo, nel tempo, continuerà alla stessa maniera, ancòra e ancòra. Queste parole, così, non spariranno mai. Rimarranno sempre nel nostro pensiero, anche se i Bianchi gettano via le pelli di carta del libro in cui sono state disegnate e anche se i missionari, che noi chiamiamo la gente di Teosi, non cessano di considerarle delle menzogne. Non possono essere né bagnate né bruciate. Non invecchieranno come quelle che rimangono incollate a pelli di immagini fatte di alberi morti. Quando non ci sarò più da molto tempo, esse saranno sempre tanto nuove e tanto forti quanto lo sono ora. Sono tali parole che io ti ho chiesto di fissare su questa carta, al fine di consegnarle ai Bianchi che vorranno davvero conoscerne il tracciato. Forse che in questo modo i Bianchi finiranno per prestare ascolto a ciò che dicono gli abitanti della foresta e per mettersi a pensare con maggior rettitudine nei loro confronti?
 
"Io, uno Yanomami, consegno a voi Bianchi
questa pelle di immagine che è mia"

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Commenti

Nella mia esperienza DIRETTA - tra i guaranì - ho constatato che la parola rimane lo strumento essenziale che rende possibile la comunicazione sciamanica. E', certamente (e il più delle volte), una parola rituale, intrisa di ritualità. Ed è proprio qui - spero che Antonello mi legga - che si verifica la PERMEABILITA' di questa parola sciamanica rituale rispetto all'apporto comunitario: una continua osmosi, un continuo va e vieni, dove funzione individuale ed apporto collettivo, comunitario, si compenetrano, al punto da rendere irrilevante ogni questione relativa al primato ontologico di uno dei due termini (individuale/collettivo). L'epifania del soggetto collettivo emerge sempre - al di là del fatto se sia o non sia lo sciamano il suo veicolo principale - a partire da momenti CORALI della vita tribale.

Il grande fascino della parola sciamanica (PS) - ciò che le permette di coinvolgerci - è costituito dalla sua capacità di essere EPIFANIA DI UN SOGGETTO COLLETTIVO (un gruppo, una tribù, una gens, una etnia) che si fa carico del suo specifico destino ma anche del destino "nostro", cioè di tutta la specie umana e vivente. La parola sciamanica trascina i soggetti a cui è destinata: permette loro (direi con Jung) di "fare l'esperienza archetipica", di far parlare gli archetipi (quindi l'inconscio collettivo) che abitano in noi. Ma "quando entrano in scena gli archetipi" - ancòra Jung - le persone non fanno che crollare" e "sono completamente terrorizzate" dalla irruzione di questi ELEMENTI ARCAICI DEL SÈ ("Seminari. Lo Zarathustra di Nietzsche", cit., vol. terzo, pp. 1027-1045). Hanno perciò bisogno della mediazione sciamanica per poter vivere una esistenza "tridimensionale" (Inconscio, con i suoi archetipi - Coscienza - Mondo). Fare un'esperienza archetipica significa vivere una vita a tre dimensioni. Vivere IL SÈ COME TOTALITÁ: una sintesi tra materiale arcaico e acquisizioni della coscienza. La PS sembra omologa alla parola dell'analista: immaginatevi una parola dell'analista continuamente ravvivata ed arricchita dalla presenza (una presenza ANCHE cosciente) di una istanza collettiva: di un'istanza collettiva storicamente ben definibile e ricca di valenze politiche antagoniste.
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Testo molto stimolante, personalmente mi ha colpito questo passaggio "Nei tempi passati, i nostri anziani non avevano rivelato nulla di tutto ciò, poiché sapevano che i bianchi non comprendevano la loro lingua. Per questa ragione, il mio dire sarà nuovo per chi vorrà ascoltarlo". Evoca il tema dell'Altro, la sua scrittura, la sua impalpabilità, così come affrontato da Michel De Certeau (ad es. in particolare nella raccolta "La scrittura dell'altro" Raffaello Cortina) nel confronto serrato con l'antropologia, l'etnografia, la storia. Se la scrittura è il mezzo fondamentale attraverso cui l'Occidente prende forma, organizza il proprio rapporto con l'Altro e si riconosce in una narrazione fatta di premesse e di conseguenze, il dire degli xapiri allude ad altre retoriche, ad altri concatenamenti, ad altri possibili inconsci. Ad una storia progressiva si contrappone una storia evocativa, fatta dei sintomi della foresta, delle suggestioni che questa imprime nella memoria corporale; una storia la cui decifrazione è in mano allo sciamano, ai suoi sogni, alla dimensione corporea del suo inconscio-foresta.
Questa distanza è tutta racchiusa nell'interrogativo che chiude il testo - "Forse che in questo modo i Bianchi finiranno per prestare ascolto a ciò che dicono gli abitanti della foresta e per mettersi a pensare con maggior rettitudine nei loro confronti?" - . Si sento l'eco di una consapevole distanza tra inconsci - collettivi, ancor prima che individuali - e grammatiche incolmabili che se da un lato evocano la ricchezza della molteplicità di mondi, dall'altro sigillano anche l'estraneità radicale - l'uno verso l'altro - che a-priori rende mancato qualunque incontro

Dice - e "scrive" - lo sciamano:
"Vorrei che i Bianchi la smettessero di pensare che la nostra foresta è morta e che sia collocata qui senza ragione". Passaggio fondamentale, questo. La foresta è viva. E le "cose" (oggetti, animali, viventi, legno, pietra, erba eccetera) che la popolano comunicano con noi facendo "parlare" GLI SPIRITI (la loro essenza più intima) che in essa dimorano. È còmpito dello sciamano risvegliare ed attivare gli spiriti - le energie, le forze, le forme, le figurazioni - che dormono in essa: un còmpito che nella nostra contemporaneitá viene svolto dal terapeuta, dall'analista, e che nella cultura occidentale era stato già svolto dall'alchimista. Lo Zarathustra di Nietzsche dice che "nella pietra è addormentata un'immagine, l'immagine delle mie immagini". E Jung, grande lettore di Nietzsche, dice che "se Nietzsche fosse vissuto in un periodo compreso tra il XV è il XVIII secolo, (...) sarebbe certamente stato un filosofo alchimista" (C. G. JUNG, Seminari. Lo Zarathustra di Nietzsche, Bollati Boringhieri, 2013, vol. terzo, p.1010): un filosofo alchimista capace di risvegliare "quel componente inconscio della vostra natura proiettato o in un essere umano o in una cosa o in un sistema. E lo trovate proprio là dove lo sentite. Gli alchimisti lo sentivano nella materia". E, mi viene da aggiungere, gli sciamani Yanomami, come Davi KOPENAWA, "lo sentivano", avrebbe detto Jung - sentivano cioè lo spirito, gli spiriti - "nella materia", nella foresta, concepita davvero come essere vivente e "parlante" e comunicante. Lo sciamano, come l'alchimista, riesce in questa particolare e preziosa operazione: "l'estrazione dello spirito" (op. cit., ibidem) dalla materia: dalla foresta, dalla pietra, eccetera. La materia, "la pietra" - la foresta, i suoi oggetti, le sue pietre - "era ciò che conteneva la vita misteriosa". E ancora: "per la mente del passato" (per l'alchimista, ieri, per lo sciamano, e per altri, oggi) "la materia era colma di uno spirito peculiare", che da essa può e deve essere estratto. Accedere alla parola dello sciamano, alla sua mente, significa allora muoversi nella prospettiva - sostenuta dal grande antropologo brasiliano Viveiros De Castro, che la mutua da Nietzsche (cfr. "Métaphysiques cannibales", PUF, Paris 2009) - di un radicale PROSPETTIVISMO, che ci porta a trasformare le filosofie dell'ALTRO in strumenti fondamentali utili alla nostra comprensione del mondo. Entro queste coordinate analitiche, l'ANIMISMO può diventare, anche per noi contemporanei, un "outil" fondamentale, come avrebbe detto Foucault, della nostra scatola di attrezzi ("boîte à outils").

Grande la forza della parola di DAVI KOPENAWA: parola individuale ma, al tempo stesso, parola collettiva, voce collettiva, voce degli "abitanti della foresta". Il grosso libro introdotto dallo sciamano è, come dicevo, un libro epocale, la cui realizzazione deve molto alla scelta - culturale e militante - dell'antropologo francese BRUCE ALBERT, che ha raccolto le testimonianze dello sciamano e della sua gente: un grido di dolore, un appello alla mobilitazione sociale, culturale, politica contro lo scempio della natura - contro la distruzione della foresta amazzonica e dei suoi abitanti - nella colpevole indifferenza dei "nostri" media. L'antropologia - nata, storicamente, come ancella del colonialismo - diventa così strumento di lotta contro la colonizzazione capitalistica dei nostri spazi di vita. Contro, come direbbe Eduardo Viveiros De Castro, la colonizzazione del pensiero. Si viaggia dentro l'alteritá per garantirle diritto alla vita, alla parola, all'espansione, nella consapevolezza che nel cuore stesso di questa alteritá troviamo nuovi strumenti per sviluppare e per potenziare il nostro stesso pensiero, le nostre stesse "discipline".

Dalla presentazione, su Amazon.fr, della edizione originale in lingua francese di questo libro epocale: http://www.amazon.fr/chute-du-ciel-Bruce-ALBERT/dp/2259210686/ref=tmm_pa...

Sembra che lo sciamano non faccia riferimento al pensiero di un autore individuale ma pensi un pensiero originariamente collettivo. La sua saggezza mi sembra consista in questa forma di pensiero "coappartenente". Ma mi mancano i termini per dirlo meglio.

Mi sembra che tu abbia aggiunto Antonello, da qualche parte -correggimi se ho inteso male- che invece lo psicoanalista faccia riferimento al pensiero di un autore individuale. Se è così mi viene infatti da pensare a quanto Ellenberger sottolinea nel suo noto "la scoperta dell'inconscio", e cioè che l'inconscio, prima che Freud ne facesse il fondamento dell'analisi, fosse di appannaggio degli animisti e dei mesmeristi e dunque fosse una nozione più collettiva che individuale, laddove il merito di Freud, e poi di Lacan, è stato quello di aver costruito il soggetto dell'inconscio come la soggettivazione, se così possiamo dire, del particolare sul collettivo, il ritaglio unico, singolare e individuale su una matrice, l'inconscio, che è e rimane anche collettivo, in altri termini la psicoanalisi come l'estrazione del particolare e del singolare individuale da qualcosa che si pone inizialmente e rimane sullo sfondo comunque collettivo. La domanda che ora pongo, anche a Mario, è: lo sciamano è colui che deve tutelare il collettivo, che è anche il luogo del patrimonio culturale, storico e antropologico dalla tribù, fino al punto di non poter permettere l'emergenza del particolare di questo o quell'individuo del gruppo, o al contrario può permettere anche lo spazio del singolo perché tanto non è detto che mette in discussione l'intero bosco e la sua percezione?

Grazie Egidio Tommaso Errico. Grazie per i problemi che poni, in modo da stimolare - come sempre - una ricerca di verità. Storicamente, non v'è dubbio - Ellenberger docet - l'inconscio è stato, ab imis, "una nozione più collettiva che individuale". Ma se ci si pone, sincronicamente, dentro l'attualità (e non dentro la storia), si scopre come sia facile (direi inevitabile) estrapolare la singolarità, l'individualità, dal collettivo e dalle sue ragioni anche "politiche". Il collettivo e le sue ragioni politiche offrono una gamma variegata e variabile (nel tempo e nello spazio) di esiti singolari, individuali. Tali esiti - dominio del possibile e non del necessario - scandiscono, qui ed ora, il nostro orizzonte di libertà e l'uscita dalle coercizioni del determinismo. Se il còmpito dello sciamano è la tutela del collettivo e delle sue ragioni politico-strategiche, il còmpito dell'analista dovrebbe essere la tutela, più che del setting (variabile e modificabile), dell'orizzonte relazionale che lo include. La logica e la cultura del bosco, e allo stesso modo la logica e la cultura dell'orizzonte relazionale, non solo devono permettere l'emergenza del particolare ("lo spazio del singolo"), ma devono renderla possibile, praticabile, condivisibile. Sto pensando un po' di fretta, ad alta voce, per così dire. Ma mi viene da aggiungere che il territorio del quale ci stiamo occupando dovrebbe essere ripensato nei termini di una sintesi disgiuntiva (cara a Deleuze, a Foucault, ancor ptima a Kant, ma anche a molto pensiero orientale), capace di forzare i cancelli stretti della dialettica di matrice hegeliana. Il locale e il globale in armonia. La "connessione degli eterogenei" (Foucault, per non citare che lui) come pratica innovativa e creativa.

E' proprio come di ci tu, Antonello: la parola dello sciamano dà voce a una posizione collettiva, dove in questo aggettivo convergono le voci di un'intera etnia, unitamente alle voci della "foresta" (vero teatro del discorso).

Tuttavia, la parola dello sciamano, crea, come per i Bianchi, un contesto di linguaggio tra mondi oggettivi, tra mondi oggettivi e soggettivi e tra mondi soggettivi. La sua funzione è, ad un tempo, quella di riunire , ma anche di dividere. è parola plurale, orientata al di là dell'Uno e dell'Altro. Reich diceva "cambiamo il mondo", giacché è ben vero che cambiare se stessi non basta a rendere sopportabile la crudeltà del mondo. Gli indigeni mi pare pecchino anche loro di etnocentrismo. Al di là del dilemma cambiare se stessi/cambiare gli altri, il referente centrale rimane la rappresentazione della realtà psichica interna e della realtà fisica esterna, con la realtà sociale che funge da tramite. Si rischia di dipendere in ogni caso da pregiudizi culturali, narcisismo delle grandi o delle piccole differenze. Non tutti i Bianchi sentono e pensano allo stesso modo. Si pensi alle lotte dei Bianchi contro le multinazionali e delle loro politiche di sfruttamento e danneggiamento del pianeta e delle sue risorse, in funzione del profitto e delle merci. Insomma, ogni cultura è essenzialmente paranoia - e in questo gli indigeni brasiliani e la saggezza dello sciamano non sembrano essere molto differenti dall'atteggiamento dei Bianchi -. L'identità narcisistica della cultura è assicurata tramite solo la negazione delle altre.

Noi civilizzati vediamo i singoli alberi, ma non vediamo la foresta. Dello sciamano si può dire quel che Robert Musil dice dell'uomo senza qualità: "Lui vuole, per così dire, il bosco, gli altri gli alberi".


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