Che cos’è l’universale?
Il caso singolo.
Che cos’è il particolare?
Milioni di casi.
J.W. Goethe, Aforismi sulla natura, 1823
Se sei un biologo e scopri un organismo peculiare, puoi essere certo che ne esisteranno altri.
Chad Trujillo, 2015
il precedente post sulle narrazioni freudiane è stata finora la più filosofica della serie sul soggetto collettivo. Spero che l’inconveniente non si ripeta troppo spesso. Tuttavia, in certa misura sarà inevitabile. Affrontando il tema del soggetto, tema autoreferenziale tipico della filosofia occidentale, il riferimento filosofico è fatale. Me ne distaccherò solo quando, prima o poi, tratterò dell’oggetto del desiderio, tema scientifico meno caro alla filosofia.
Pochi giorni fa, ho esaminato la questione delle caratteristiche narrazioni freudiane – il parricidio simbolico e la castrazione immaginaria – dichiarando la mia distanza da esse. Oggi posso giustificare meglio la mia Stellungnahme, come dicono i tedeschi, neutrale, non contraria alle narrazioni, le cliniche comprese.[1] La psicanalisi è una scienza ebraica, dicono i suoi detrattori. Come tale è e resta ancorata a verità narrative “bibliche” o mitologiche. E questa è una verità relativamente poco contestabile, forse anche poco modificabile. Come tentare di modificarla, allora?
Poiché la storiografia riguarda prevalentemente le vicende di un soggetto singolo, anche quando è collettivo – una famiglia, una città, un popolo –, la narrazione non pretende diventare scienza; per contro, almeno in Occidente, la scienza presuppone il generale e l’universale. La narrazione tratta personaggi protagonisti; è aristocratica. La scienza tratta collettivi materiali; è democratica.[2] Già Aristotele lo sapeva: per stare in piedi, un sillogismo deve contenere almeno un’affermazione universale.[3] Per dimostrare logicamente un particolare occorre presupporre qualche forma di universalità, da cui dedurre delle particolarità. Aristotele dimostrò questo metateorema di logica con un argomento matematico ardito, che convocava gli angoli curvilinei, un tema topologico (non archimedeo) tanto moderno che non trovò spazio neppure nei tredici libri degli Elementi di Euclide. Il quale, consapevole dell’esigenza di universalità, nel Primo Libro dei suddetti Elementi formulò il quarto postulato (aitema o “richiesta”) in forma non narrativa ma quantificata: tutti gli angoli retti (pasas orthas gonias) sono uguali (isas allelais einai).[4]
Se – e sottolineo se – la psicanalisi vorrà essere una pratica di sapere scientifico, allora, non potrà non far posto ad almeno un po’ di universale nella propria teoria. Non lo dico io ma un poeta, ancora Goethe: “Sapere – l’importante dell’esperienza che allude sempre all’universale”.[5] Molti miei colleghi, soprattutto di area lacaniana, non condividono integralmente questa impostazione. Sostengono che un percorso analitico va spinto fino a riconoscere il fatto della singolarità estrema e irripetibile del soggetto, che è sempre un caso più unico che raro, condizionato com’è dalla specificità significante del desiderio, contrapposto alla genericità biologica del bisogno.[6] Immagino che questa convinzione derivi dalla forte fissazione alle narrazioni freudiane, che sopravvalutano le singolarità individuali, costituenti un fatto storico, in sé non universale. In un certo senso – prima conclusione – la metafisica dell’essere individuale è narrativa, contro la metafisica dell’essere collettivo, che prescinde da storie individuali.
Dalla loro parte quegli analisti hanno, comunque, importanti voci filosofiche. Kierkegaard, per esempio, affermava che solo il singolo esiste. Lo sosteneva contro Hegel, la cui la verità è il tutto nella sua interezza.[7] Per Hegel il singolare è lo spirito che si ritira autisticamente in se stesso (e quindi non fa sistema o ne fa di deliranti); visto così, il singolare è il male, all’opposto del bene che è la realtà dell’autocoscienza esistente.[8] Certo, anche per Kierkegaard valeva la tesi hegeliana, poiché il singolo esiste solo nel male, nel peccato o nel desiderio. Ma per gli psicanalisti?
La tesi di Kierkegaard è condivisibile dal punto di vista psicanalitico ma con cautela. Il fatto è che, se esiste solo il singolo, non c’è collettivo, quindi neppure il singolo, che vi si sostiene. Perciò, avendo a cuore la questione del collettivo, mi sento autorizzato a procedere oltre certe affermazioni “esistenzialiste”, magari tenendo d’occhio un altro famoso esistenzialista, Jean Paul Sartre, i cui scritti politici furono raccolti proprio sotto titolo di L’universale singolare, dove proprio Kierkegaard è insignito del titolo di “cavaliere della soggettività”. Per Sartre tutto il discorso esistenzialista mira ad affermare che “il soggettivo deve essere ciò che è – la realizzazione singolare di ogni singolarità”, contro ogni astrazione generalizzante.[9] Tuttavia…
Cosa direbbe il mio maestro? Ben prima di Sartre, Lacan scriveva che, “come la storia, la psicanalisi è una scienza del particolare”,[10] riconoscendo “l’identità primitiva del particolare all’universale” a misura del genio hegeliano,[11] per concludere che “un’analisi progredisce solo dal particolare al particolare”.[12] Ma, come vedremo, la teoria lacaniana non si è fermata qui; ha affrontato la questione dell’universale da un punto di vista particolare, addirittura singolare.
Pagato il mio debito al pensiero d’autore, cerco d’andare avanti nell’analisi logica della nozione di collettivo.
Il punto critico è se l’universale esiste, come si chiedevano i (teo)logici medievali. Come si applica il quantificatore esistenziale (“esiste almeno un elemento tale che”) al quantificatore universale (“per ogni”)? Esiste questo “cavallo”, certo; ma esiste la astratta “cavallinità” per ogni cavallo? Non voglio impegolarmi nelle sottigliezze avanzate da realisti, nominalisti e concettualisti, che dibatterono la questione degli universali nelle aule delle scuole medievali di filosofia. Mi basta l’esperienza della pratica matematica moderna, così come si è configurata all’inizio del secolo scorso dopo la crisi delle antinomie insiemistiche. È matematica, ma forse può servire al discorso “psi”.
In breve, l’universale a volte esiste, a volte no; a volte è astratto, a volte concreto. Il collettivo ne segue le sorti. Per spiegarlo devo soffermarmi sul significato del termine (un po’ astruso) di “collettivizzante”.
Traggo il termine “collettivizzante”, che secondo il vocabolario Treccani significa “ciò che riduce a proprietà collettiva”, dal primo volume degli Eléments de mathématique di Bourbaki, dedicato alla teoria degli insiemi. “Intuitivamente, dire che la relazione R è collettivizzante equivale a dire che esiste l’insieme a tale che gli elementi x dotati della proprietà R sono precisamente gli elementi di a”.[13] Per esempio, “x non appartiene a x” non è una relazione collettivizzante. La problematica sottostante a questa terminologia si connette alle antinomie, scoperte all’inizio del secolo xx, della teoria ingenua degli insiemi, la quale conteneva contraddittoriamente insiemi che non sono insiemi, come l’insieme di Russell, formato da tutti gli insiemi che non contengono se stessi.
Oggi, dopo von Neumann e Gödel, si parla di classi, distinguendo gli insiemi, che sono elementi di altre classi, e le classi proprie, che non sono elementi di altre classi. In altri termini, le classi proprie non appartengono a metaclassi; gli insiemi invece sì, ossia si possono costruire insiemi di insiemi. Gli insiemi sono collettivizzanti, le classi proprie no. Gli insiemi sono definiti dalla “proprietà caratteristica” dei loro elementi, che rende il collettivo concettualmente “uno”, quindi inseribile in qualche classe come suo elemento. Le classi proprie non hanno proprietà caratteristiche che le definiscano, quindi non sono “une”. Filosoficamente parlando, la proprietà caratteristica è l’essenza concettuale che rende l’insieme un ente distinto dagli altri enti. È chiaro, allora, che all’interno della classe degli insiemi si possono pensare gerarchizzazioni (insiemi di insiemi che sono ancora insiemi, come nell’albero di Porfirio dei generi e delle specie); all’interno della classe delle classi proprie (che è una classe propria) la gerarchizzazione è impossibile.
In questo contesto, i collettivi a volte esistono, a volte esistono un po’ meno. Quali collettivi esistono e quali no? Semplice per quanto detto; esistono i collettivi che sono insiemi, definiti dalla loro proprietà caratteristica collettivizzante; invece, non esistono, nel senso che ci sono ma non si definiscono in modo chiaro e distinto, quindi non sono ben localizzabili dal nostro sapere, i collettivi che sono classi proprie, privi di proprietà caratteristica, “senza qualità” alla Musil. Gli insiemi (di cose) sono cose di cui si può dire qualcosa, le classi proprie no.
Sì, ma in soldoni psicanalitici?
Non ci crederete; per dare esempi concretamente psicanalitici di un collettivo che esiste e di un collettivo che non esiste, devo tornare indietro al pensiero d’autore, da me tanto criticato nella postilla alla rubrica precedente. Il riferimento è al Seminario xx di Lacan del 1972-73 o a L’Etourdit del luglio 1972. Una ventina d’anni dopo le enunciazioni sul “particolare”, Lacan propose una dottrina dell’“universale” in termini di sessuazione, cioè di acquisizione del sesso corporeo da parte del soggetto. Di cosa si tratta?
In estrema sintesi, esistono i collettivi maschili ed esistono un po’ meno i collettivi femminili. La proprietà caratteristica “universale” dei primi fu da Lacan formulata in termini di castrazione, quindi mitologici. Nel loro collettivo, che è un insieme, tutti i maschi sono castrati, tranne uno che dice “no” alla funzione fallica: è il Padre, che ek-siste al Tutto, cioè lo trascende. Per i collettivi femminili vale la stessa condizione: tutte le donne sono castrate, nel senso che non esiste una donna che non lo sia, ma manca l’eccezione fallica. Il topos lacaniano è che La donna non esiste; è “non tutta”, perché le donne rimangono irriducibilmente singolari e vanno affrontate una per una, all’interno della classe propria del femminile, senza pregiudizi generali o generici.[14] Insomma, non esiste la proprietà caratteristica, l’essenza, che definisce La donna. Chiaro, stiamo uscendo dalla logica e impelagandoci nella mitologia. Nel passaggio si guadagna qualche briciola di verità, insieme a un buon carico di teologia.
La teoria teologica del Tutto con Eccezione ha una piega politica di destra, nel senso tecnico di pratica sociale che privilegia la legalità sulla giustizia. Nello stato d’eccezione, tipicamente ai primordi della civiltà, l’Uno Dittatore ha il diritto di stabilire la legge (dictare) e decidere per tutti cosa è civile e cosa no. Questa linea di pensiero, che si può far risalire a Hobbes e Spinoza,[15] arriva a Carl Schmitt via Kierkegaard. In Italia è stata gettonata dal nostro Agamben. Essa fa della politica appannaggio del maschile, inteso come incarnazione del divino. Non è il caso di dirne di più. Non mi sembra una linea di pensiero che meriti di prosperare, tanto meno mi sembra adatta alla politica della psicanalisi, per la quale mi sembrano più adatte linee di pensiero più soft, per esempio alla Rawls. I collettivi psicanalitici vigenti sono di destra, non essendo altro che collettivi “maschili”. Fuorcludono il femminile, che dovrebbe essere un tema centrale di ogni psicanalisi. Che poi Freud abbia voluto strutturarli come orde primordiali, con a capo il maestro fondatore e i suoi successori, fu solo una “svista” del medico di Vienna, che era più teologo di quanto supponesse, data la sua fissazione alle narrazioni edipiche. In realtà, tutta la psicologia sociale freudiana si basa sull’identificazione all’Uno, avatar del padre morto primordiale. Tutti sono identificati a lui; il legame sociale tra singoli cala dall’alto dal Padre Dittatore; non nasce dal basso tra simili o fratelli che cooperano.[16]
Si può correggere il “maschilismo” collettivistico originario della psicanalisi?[17]
Forse sì, ma la via per farlo non sembra quella envisagée da Lacan del “non tutto”. Forse una via attraversa il confine tra scienze biologiche e umane. Per certi francesi (si pensi alla linea Canguilhelm-Foucault di rigetto del darwinismo) quella via è sbarrata; per loro esiste un baratro tra natura e cultura, istituito dall’emergere del linguaggio. Nel caso di Lacan, la sessualità umana avrebbe perso la propria “naturalezza”, perché l’uomo parla ma non sa quel che dice. Parlando, l’uomo perde la possibilità di dire – di “scrivere” – il rapporto sessuale. La formula lacaniana è tassativa: “Non esiste rapporto sessuale”. Non dico che il rapporto sessuale sia codificabile in modo “naturale” come rapporto di generi, secondo la pretesa della religione cattolica, ma l’affermazione lacaniana mi sembra … infantile, cioè perversa. Sottoposto all’interdizione edipica, il bambino immagina che il rapporto sessuale non esista, non esistendo quello con la madre. Diversamente da Freud, Lacan non trattò mai il tema della sessualità infantile polimorfa perversa.
A parte storie personali di scarso interesse, il nodo teorico da sciogliere fu intavolato da Darwin, che ipotizzava la continuità natura-cultura nella trasformazione degli istinti sociali dell’animale in sentimenti morali dell’uomo. Il grosso problema, allora, è la doppia selezione individuale e collettiva, del singolo e della specie. La prima sembra meno problematica della seconda: l’individuo meglio adattato sopravvive nella propria discendenza meglio dell’individuo meno bene adattato, perché fa più figli, quindi diffonde di più il proprio patrimonio genetico nell’ambiente di vita. È l’antico non omnis moriar[18] declinato in versione meno individuale che collettiva.
Più problematica la seconda selezione, anche perché non è chiaro quale possa essere il vantaggio selettivo per la specie. Inoltre, se esiste, spesso confligge con la selezione individuale, richiedendo a volte sacrifici notevoli al singolo, come nel caso delle api operaie, cui è interdetto di riprodursi. Ad oggi si intravvede un possibile vantaggio selettivo di specie nell’incremento della variabilità intraspecifica: sopravvivono meglio le specie eterogenee rispetto alle omogenee, perché le prime avrebbero più delle seconde risorse per far fronte a improvvise variazioni ambientali sfavorevoli.
Come si traducono queste poche indicazioni nel caso dei collettivi umani?
Non c’è un solo modo di procedere. Quelli a mia conoscenza hanno tutti in comune un tratto paradossale: sono meno scientifici di quello che sarebbe auspicabile nell’ambito della scienza galileiana delle “sensate esperienze e necessarie dimostrazioni”. Infatti, tutte le analisi danno molto spazio alla descrizione empirica dei particolari fenomeni socio-biologici e alle narrazioni che ne giustificano l’esistenza. Insomma, in sociologia e in biologia c’è poca teoria universale e molte osservazioni singolari. Devo rassegnarmi e fare buon viso a tali “scienze dei fatti particolari”, tra cui forse rientra anche la psicanalisi.
Una linea di ricerca che ritengo interessante è quella seguita da Michael Tomasello, sulla scia del filosofo pragmatista americano Georg Herbert Mead, che suppone l’“altro generalizzato”[19] a fondamento della sua sociologia. Di seguito faccio particolare riferimento al suo Unicamente umano.[20]
Dal vasto e variegato campo della storia naturale del pensiero, come la definisce Michael Tomasello, seleziono pochi dettagli qui pertinenti al lavoro linguistico della civiltà.[21] Innanzitutto, un particolare anatomico, che riporto senza discuterlo. Nelle teche craniche di ominidi precedenti Homo sapiens è stata trovata l’impronta dell’area cerebrale di Broca, nota come area motoria del linguaggio. Cosa ci fa il “bernoccolo del linguaggio” in viventi che non parlano? La domanda è intrigante, ben sapendo che anche in Homo sapiens il linguaggio comparve circa 60.000 anni fa, all’epoca delle seconde migrazioni fuori dall’Africa, molto dopo la sua “discesa sulla terra” (190.000 anni fa). Cosa successe in quei 130.000 anni? Come comunicavano senza parlarsi i nostri progenitori? Era il loro un “discorso senza parole” alla Lacan?
Abbandonata la metafisica del linguaggio come casa dell’essere o luogo trascendentale (simbolico) che regge le sorti del soggetto umano, diventa interessante ed empiricamente controllabile l’ipotesi di Vygotskij sulla connessione funzionale tra le aree cerebrali del linguaggio e dell’intelligenza strumentale.[22]
A differenza degli scimpanzé, che non hanno geni per formare le pieghe cerebrali e l’articolazione del polso, gli ominidi costruiscono strumenti di lavoro da milioni di anni. La costruzione di un’ascia acheuleana bifacciale richiede non solo abilità manuale ma anche una complessa cooperazione sociale, che va dal reperimento di ciottoli giusti, magari in luoghi lontani dal sito abitativo, alla trasmissione della tecnica di scheggiatura alle nuove generazioni. Come fare senza linguaggio?
L’ipotesi di Tomasello è che la comunicazione linguistica derivi dalla mimica, a cominciare dall’indicazione. Non entro nei dettagli, ma mi limito a notare la connessione biologica particolare che si realizza tra corpo del singolo e corpo sociale. La mimica la usano anche gli scimpanzé per indicare al gruppo la presenza ostile di un predatore. Noi non siamo in questo molto diversi dagli scimpanzé (condividiamo il 98,5% del loro patrimonio genetico); abbiamo solo qualche gene organizzatore in più: dall’articolazione del polso alle pieghe cerebrali, come ho già detto. Tutto ciò ha costituito la premessa per l’evoluzione linguistica come ex-adattamento di altre funzioni, in primis le manipolazioni tecniche, che sono sempre originariamente collettive.
Per una serie di coincidenze favorevoli biologico-culturali si è creata in Homo sapiens il fenomeno della ricorsività sociale. Dati due locutori A e B, collocati in un orizzonte di sapere convenzionale condiviso, se A lancia un messaggio a B, perché intenda che il suo intendimento è di sapere le sue intenzioni riguardo a una partita di caccia, B può intendere o non intendere che l’altro intenda conoscere le proprie intenzioni. Questo dialogo muto o arriva a situazioni paradossali e instabili, del tipo doppio legame, o arriva a qualche conclusione grazie al terzo, che armonizza in un fine comune le due intenzioni, l’individuale e la collettiva, grazie a precedenti esperienze di cooperazione linguistica ormai storicamente codificate.
L’esempio principe di cooperazione che fonda i collettivi umani si radica nel bipedismo. Il lavoro della civiltà – la Kulturarbeit, come la chiama Freud – esordisce con il bipedismo. Non si sta in piedi da soli. Il soggetto individuale si regge in piedi sul soggetto collettivo, alla lettera.
Do pochi dettagli. Una volta discesi dagli alberi, per inoltrarsi nell’infida savana, gli ominidi, dovettero necessariamente concepire un embrionale progetto comune, prevedendo una rudimentale divisione cooperativa del lavoro; alcuni si orientavano alla ricerca di carcasse da scarnificare, abbandonate dai grandi predatori, prevedendo di competere con iene e sciacalli; altri dovevano stare di vedetta e avvisare il gruppo per l’incombere sul gruppo di pericoli dall’alto o dal basso, per evitare di essere mangiati mentre si mangia. Poi i ruoli si dovevano invertire. La cooperazione diventò più complessa nelle battute di caccia collettive o nella raccolta di semi nella boscaglia.
Eppure, c’è una forma di collaborazione ancora più radicale, direttamente derivante dal bipedismo e necessaria al suo stesso mantenimento, su cui voglio soffermarmi, perché mi porta al sostanziale riesame del freudismo. Il bipedismo porta con sé molti vantaggi, ma anche qualche svantaggio, addirittura un pericolo esistenziale, se sulla novità biologica non si innestasse la novità culturale, cioè la cooperazione tra individui.
La stazione eretta pone il cranio in bilico sulla colonna verticale, in un equilibrio che si mantiene senza grande sforzo muscolare. Il cranio può così espandersi e ospitare un cervello sempre più grande. Sul lungo periodo questo è un vantaggio per la specie. Sul breve periodo è un vantaggio per l’individuo la liberazione degli arti superiori e l’evoluzione della mano, che ora non serve solo per camminare o per arrampicarsi ma anche per afferrare oggetti, trasportarli, lanciarli e costruire strumenti per le stesse mani che li costruiscono. Gli scimpanzé sono meno bravi di un bambino a scagliare sassi; gli unici strumenti che costruiscono sono bacchette per pescare termiti nei termitai.
Ecco, però, l’ineluttabile svantaggio individuale. Per farla stare in piedi, il bacino della donna subisce una metamorfosi catastrofica, sui cui dettagli anatomici sorvolo. Il punto che mi interessa è uno solo: il restringimento del canale del parto. La conseguenza è fatale. Per essere gettato nel mondo, l’uomo deve nascere piccolo, ancora allo stato fetale, si dovrebbe dire, perché nella madre non c’è posto per crescere. Si chiama neotenia; è lo stato di immaturità neurologica in cui l’uomo viene al mondo. È uno stato di impotenza sensoriale e motoria che gli altri animali non conoscono. Appena nata la gazzella può correre, per sfuggire alla tigre.
Si dice venire al mondo, ma non è esatto. Si dovrebbe dire che l’uomo viene al collettivo, non necessariamente genitoriale, che si prende cura di lui e sfrutta la cooperazione di molti per portare a maturazione il singolo individuo. Anche il racconto dell’Edipo sarebbe, al di là della singolo romanzo familiare del nevrotico, la testimonianza di una coesione sociale intragruppo che, sotto apparenze simil-sessuali, favorisce lo sviluppo individuale, a patto che non si passi all’atto sessuale vero e proprio. Westermarck fece notare a Freud, invano, i frequenti fallimenti dei matrimoni tra soggetti vissuti nello stesso ambito familiare. Insomma, l’Edipo, se esiste, ha solo l’apparenza della sessualità. Giustamente, “non esiste rapporto sessuale… edipico”. Forse l’Edipo neppure introduce alla sessualità, per cui occorrono esperienze extrafamiliari.
Così anch’io non volendo ho raccontato la mia storia.
E la guerra? Cosa si può dire della guerra in contesto cooperativo?
La guerra dimostra la patologia dell’esistenza del soggetto collettivo. Qual sarebbe, allora, la fisiologia? Suggeritami in parte da Winnicott,[23] propongo questa risposta come ipotesi di lavoro: la fisiologia del collettivo è il gioco.
“Saper giocare significa giocare e al tempo stesso essere giocati.”[24] Attivo e passivo sono nel gioco due forme intercambiabili di individuale e collettivo. Il gioco più semplice è a due attori, ma non c’è due senza tre: il terzo è il collettivo che offre ai due il contesto delle regole e delle condizioni del gioco, da cui i due giocatori sono giocati, se stanno al gioco.
Dal 1928 al 1944, von Neumann gettò le basi della teoria matematica dei giochi in collaborazione con l’economista Morgenstern. Non entro nei dettagli. Ricordo solo che esistono giochi a due e giochi a enne giocatori, il cui equilibrio sarà studiato da Nash, giochi a somma zero e a somma diversa da zero, giochi cooperativi e non cooperativi, con coalizioni e senza coalizioni. I giochi a somma zero sono i più accessibili all’analisi matematica. Per essi vale che la vincita dell’uno equivale alla perdita dell’altro e sono sul lungo periodo regolati dal teorema di minimax di von Neumann (1928). Per i più interessanti giochi cooperativi, dove tutti possono vincere o tutti possono perdere, disponiamo solo di particolari simulazioni computerizzate, ma non di una teoria generale.[25]
La guerra è la forma estrema e patologica di gioco a due a somma zero: mors tua, vita mea. La patologia del gioco bellico è che alla fine distrugge il giocattolo, cioè il gioco stesso: la guerra non si guerreggia contro l’altro mio simile, ma contro il Grande Altro simbolico, direbbe Lacan; si gioca alla guerra per distruggere la possibilità stessa di giocare, addirittura di guerreggiare. Se ne accenno brevemente qui, è perché la guerra è l’esatto opposto ontologico della Kulturarbeit. Se la Kulturarbeit lavora a costruire il sapere, la guerra distrugge l’essere. L’incompatibilità tra ontologia ed epistemologia è un topos del pensiero occidentale da Parmenide fino almeno a Cartesio (par provision).
La guerra dimostra la precedenza dell’odio sull’amore, entrambi fiancheggiati (stavo per dire “patrocinati”) da forme diverse di volontà di ignoranza. Come superare l’odio per stabilire legami sociali interni al collettivo? Freud segnalò un meccanismo: la conversione dell’etero-aggressività in auto-aggressività. Freud non vide il meccanismo più normale e più efficiente: la cooperazione. I singoli identificati al Führer non collaborano al lavoro della civiltà; l’identificazione li unisce separandoli. La psicologia freudiana delle masse è definitivamente povera. Tocca a noi arricchirla, passando dall’ontologia (narrativa) dell’Io a quella (astratta) del Noi.
Questa rubrica ci prova. Per chiarire la struttura logica dei collettivi, distingue tra universale, particolare e singolare e a modo suo racconta storie.
Pochi giorni fa, ho esaminato la questione delle caratteristiche narrazioni freudiane – il parricidio simbolico e la castrazione immaginaria – dichiarando la mia distanza da esse. Oggi posso giustificare meglio la mia Stellungnahme, come dicono i tedeschi, neutrale, non contraria alle narrazioni, le cliniche comprese.[1] La psicanalisi è una scienza ebraica, dicono i suoi detrattori. Come tale è e resta ancorata a verità narrative “bibliche” o mitologiche. E questa è una verità relativamente poco contestabile, forse anche poco modificabile. Come tentare di modificarla, allora?
Poiché la storiografia riguarda prevalentemente le vicende di un soggetto singolo, anche quando è collettivo – una famiglia, una città, un popolo –, la narrazione non pretende diventare scienza; per contro, almeno in Occidente, la scienza presuppone il generale e l’universale. La narrazione tratta personaggi protagonisti; è aristocratica. La scienza tratta collettivi materiali; è democratica.[2] Già Aristotele lo sapeva: per stare in piedi, un sillogismo deve contenere almeno un’affermazione universale.[3] Per dimostrare logicamente un particolare occorre presupporre qualche forma di universalità, da cui dedurre delle particolarità. Aristotele dimostrò questo metateorema di logica con un argomento matematico ardito, che convocava gli angoli curvilinei, un tema topologico (non archimedeo) tanto moderno che non trovò spazio neppure nei tredici libri degli Elementi di Euclide. Il quale, consapevole dell’esigenza di universalità, nel Primo Libro dei suddetti Elementi formulò il quarto postulato (aitema o “richiesta”) in forma non narrativa ma quantificata: tutti gli angoli retti (pasas orthas gonias) sono uguali (isas allelais einai).[4]
Se – e sottolineo se – la psicanalisi vorrà essere una pratica di sapere scientifico, allora, non potrà non far posto ad almeno un po’ di universale nella propria teoria. Non lo dico io ma un poeta, ancora Goethe: “Sapere – l’importante dell’esperienza che allude sempre all’universale”.[5] Molti miei colleghi, soprattutto di area lacaniana, non condividono integralmente questa impostazione. Sostengono che un percorso analitico va spinto fino a riconoscere il fatto della singolarità estrema e irripetibile del soggetto, che è sempre un caso più unico che raro, condizionato com’è dalla specificità significante del desiderio, contrapposto alla genericità biologica del bisogno.[6] Immagino che questa convinzione derivi dalla forte fissazione alle narrazioni freudiane, che sopravvalutano le singolarità individuali, costituenti un fatto storico, in sé non universale. In un certo senso – prima conclusione – la metafisica dell’essere individuale è narrativa, contro la metafisica dell’essere collettivo, che prescinde da storie individuali.
Dalla loro parte quegli analisti hanno, comunque, importanti voci filosofiche. Kierkegaard, per esempio, affermava che solo il singolo esiste. Lo sosteneva contro Hegel, la cui la verità è il tutto nella sua interezza.[7] Per Hegel il singolare è lo spirito che si ritira autisticamente in se stesso (e quindi non fa sistema o ne fa di deliranti); visto così, il singolare è il male, all’opposto del bene che è la realtà dell’autocoscienza esistente.[8] Certo, anche per Kierkegaard valeva la tesi hegeliana, poiché il singolo esiste solo nel male, nel peccato o nel desiderio. Ma per gli psicanalisti?
La tesi di Kierkegaard è condivisibile dal punto di vista psicanalitico ma con cautela. Il fatto è che, se esiste solo il singolo, non c’è collettivo, quindi neppure il singolo, che vi si sostiene. Perciò, avendo a cuore la questione del collettivo, mi sento autorizzato a procedere oltre certe affermazioni “esistenzialiste”, magari tenendo d’occhio un altro famoso esistenzialista, Jean Paul Sartre, i cui scritti politici furono raccolti proprio sotto titolo di L’universale singolare, dove proprio Kierkegaard è insignito del titolo di “cavaliere della soggettività”. Per Sartre tutto il discorso esistenzialista mira ad affermare che “il soggettivo deve essere ciò che è – la realizzazione singolare di ogni singolarità”, contro ogni astrazione generalizzante.[9] Tuttavia…
Cosa direbbe il mio maestro? Ben prima di Sartre, Lacan scriveva che, “come la storia, la psicanalisi è una scienza del particolare”,[10] riconoscendo “l’identità primitiva del particolare all’universale” a misura del genio hegeliano,[11] per concludere che “un’analisi progredisce solo dal particolare al particolare”.[12] Ma, come vedremo, la teoria lacaniana non si è fermata qui; ha affrontato la questione dell’universale da un punto di vista particolare, addirittura singolare.
Pagato il mio debito al pensiero d’autore, cerco d’andare avanti nell’analisi logica della nozione di collettivo.
Il punto critico è se l’universale esiste, come si chiedevano i (teo)logici medievali. Come si applica il quantificatore esistenziale (“esiste almeno un elemento tale che”) al quantificatore universale (“per ogni”)? Esiste questo “cavallo”, certo; ma esiste la astratta “cavallinità” per ogni cavallo? Non voglio impegolarmi nelle sottigliezze avanzate da realisti, nominalisti e concettualisti, che dibatterono la questione degli universali nelle aule delle scuole medievali di filosofia. Mi basta l’esperienza della pratica matematica moderna, così come si è configurata all’inizio del secolo scorso dopo la crisi delle antinomie insiemistiche. È matematica, ma forse può servire al discorso “psi”.
In breve, l’universale a volte esiste, a volte no; a volte è astratto, a volte concreto. Il collettivo ne segue le sorti. Per spiegarlo devo soffermarmi sul significato del termine (un po’ astruso) di “collettivizzante”.
Traggo il termine “collettivizzante”, che secondo il vocabolario Treccani significa “ciò che riduce a proprietà collettiva”, dal primo volume degli Eléments de mathématique di Bourbaki, dedicato alla teoria degli insiemi. “Intuitivamente, dire che la relazione R è collettivizzante equivale a dire che esiste l’insieme a tale che gli elementi x dotati della proprietà R sono precisamente gli elementi di a”.[13] Per esempio, “x non appartiene a x” non è una relazione collettivizzante. La problematica sottostante a questa terminologia si connette alle antinomie, scoperte all’inizio del secolo xx, della teoria ingenua degli insiemi, la quale conteneva contraddittoriamente insiemi che non sono insiemi, come l’insieme di Russell, formato da tutti gli insiemi che non contengono se stessi.
Oggi, dopo von Neumann e Gödel, si parla di classi, distinguendo gli insiemi, che sono elementi di altre classi, e le classi proprie, che non sono elementi di altre classi. In altri termini, le classi proprie non appartengono a metaclassi; gli insiemi invece sì, ossia si possono costruire insiemi di insiemi. Gli insiemi sono collettivizzanti, le classi proprie no. Gli insiemi sono definiti dalla “proprietà caratteristica” dei loro elementi, che rende il collettivo concettualmente “uno”, quindi inseribile in qualche classe come suo elemento. Le classi proprie non hanno proprietà caratteristiche che le definiscano, quindi non sono “une”. Filosoficamente parlando, la proprietà caratteristica è l’essenza concettuale che rende l’insieme un ente distinto dagli altri enti. È chiaro, allora, che all’interno della classe degli insiemi si possono pensare gerarchizzazioni (insiemi di insiemi che sono ancora insiemi, come nell’albero di Porfirio dei generi e delle specie); all’interno della classe delle classi proprie (che è una classe propria) la gerarchizzazione è impossibile.
In questo contesto, i collettivi a volte esistono, a volte esistono un po’ meno. Quali collettivi esistono e quali no? Semplice per quanto detto; esistono i collettivi che sono insiemi, definiti dalla loro proprietà caratteristica collettivizzante; invece, non esistono, nel senso che ci sono ma non si definiscono in modo chiaro e distinto, quindi non sono ben localizzabili dal nostro sapere, i collettivi che sono classi proprie, privi di proprietà caratteristica, “senza qualità” alla Musil. Gli insiemi (di cose) sono cose di cui si può dire qualcosa, le classi proprie no.
Sì, ma in soldoni psicanalitici?
Non ci crederete; per dare esempi concretamente psicanalitici di un collettivo che esiste e di un collettivo che non esiste, devo tornare indietro al pensiero d’autore, da me tanto criticato nella postilla alla rubrica precedente. Il riferimento è al Seminario xx di Lacan del 1972-73 o a L’Etourdit del luglio 1972. Una ventina d’anni dopo le enunciazioni sul “particolare”, Lacan propose una dottrina dell’“universale” in termini di sessuazione, cioè di acquisizione del sesso corporeo da parte del soggetto. Di cosa si tratta?
In estrema sintesi, esistono i collettivi maschili ed esistono un po’ meno i collettivi femminili. La proprietà caratteristica “universale” dei primi fu da Lacan formulata in termini di castrazione, quindi mitologici. Nel loro collettivo, che è un insieme, tutti i maschi sono castrati, tranne uno che dice “no” alla funzione fallica: è il Padre, che ek-siste al Tutto, cioè lo trascende. Per i collettivi femminili vale la stessa condizione: tutte le donne sono castrate, nel senso che non esiste una donna che non lo sia, ma manca l’eccezione fallica. Il topos lacaniano è che La donna non esiste; è “non tutta”, perché le donne rimangono irriducibilmente singolari e vanno affrontate una per una, all’interno della classe propria del femminile, senza pregiudizi generali o generici.[14] Insomma, non esiste la proprietà caratteristica, l’essenza, che definisce La donna. Chiaro, stiamo uscendo dalla logica e impelagandoci nella mitologia. Nel passaggio si guadagna qualche briciola di verità, insieme a un buon carico di teologia.
La teoria teologica del Tutto con Eccezione ha una piega politica di destra, nel senso tecnico di pratica sociale che privilegia la legalità sulla giustizia. Nello stato d’eccezione, tipicamente ai primordi della civiltà, l’Uno Dittatore ha il diritto di stabilire la legge (dictare) e decidere per tutti cosa è civile e cosa no. Questa linea di pensiero, che si può far risalire a Hobbes e Spinoza,[15] arriva a Carl Schmitt via Kierkegaard. In Italia è stata gettonata dal nostro Agamben. Essa fa della politica appannaggio del maschile, inteso come incarnazione del divino. Non è il caso di dirne di più. Non mi sembra una linea di pensiero che meriti di prosperare, tanto meno mi sembra adatta alla politica della psicanalisi, per la quale mi sembrano più adatte linee di pensiero più soft, per esempio alla Rawls. I collettivi psicanalitici vigenti sono di destra, non essendo altro che collettivi “maschili”. Fuorcludono il femminile, che dovrebbe essere un tema centrale di ogni psicanalisi. Che poi Freud abbia voluto strutturarli come orde primordiali, con a capo il maestro fondatore e i suoi successori, fu solo una “svista” del medico di Vienna, che era più teologo di quanto supponesse, data la sua fissazione alle narrazioni edipiche. In realtà, tutta la psicologia sociale freudiana si basa sull’identificazione all’Uno, avatar del padre morto primordiale. Tutti sono identificati a lui; il legame sociale tra singoli cala dall’alto dal Padre Dittatore; non nasce dal basso tra simili o fratelli che cooperano.[16]
Si può correggere il “maschilismo” collettivistico originario della psicanalisi?[17]
Forse sì, ma la via per farlo non sembra quella envisagée da Lacan del “non tutto”. Forse una via attraversa il confine tra scienze biologiche e umane. Per certi francesi (si pensi alla linea Canguilhelm-Foucault di rigetto del darwinismo) quella via è sbarrata; per loro esiste un baratro tra natura e cultura, istituito dall’emergere del linguaggio. Nel caso di Lacan, la sessualità umana avrebbe perso la propria “naturalezza”, perché l’uomo parla ma non sa quel che dice. Parlando, l’uomo perde la possibilità di dire – di “scrivere” – il rapporto sessuale. La formula lacaniana è tassativa: “Non esiste rapporto sessuale”. Non dico che il rapporto sessuale sia codificabile in modo “naturale” come rapporto di generi, secondo la pretesa della religione cattolica, ma l’affermazione lacaniana mi sembra … infantile, cioè perversa. Sottoposto all’interdizione edipica, il bambino immagina che il rapporto sessuale non esista, non esistendo quello con la madre. Diversamente da Freud, Lacan non trattò mai il tema della sessualità infantile polimorfa perversa.
A parte storie personali di scarso interesse, il nodo teorico da sciogliere fu intavolato da Darwin, che ipotizzava la continuità natura-cultura nella trasformazione degli istinti sociali dell’animale in sentimenti morali dell’uomo. Il grosso problema, allora, è la doppia selezione individuale e collettiva, del singolo e della specie. La prima sembra meno problematica della seconda: l’individuo meglio adattato sopravvive nella propria discendenza meglio dell’individuo meno bene adattato, perché fa più figli, quindi diffonde di più il proprio patrimonio genetico nell’ambiente di vita. È l’antico non omnis moriar[18] declinato in versione meno individuale che collettiva.
Più problematica la seconda selezione, anche perché non è chiaro quale possa essere il vantaggio selettivo per la specie. Inoltre, se esiste, spesso confligge con la selezione individuale, richiedendo a volte sacrifici notevoli al singolo, come nel caso delle api operaie, cui è interdetto di riprodursi. Ad oggi si intravvede un possibile vantaggio selettivo di specie nell’incremento della variabilità intraspecifica: sopravvivono meglio le specie eterogenee rispetto alle omogenee, perché le prime avrebbero più delle seconde risorse per far fronte a improvvise variazioni ambientali sfavorevoli.
Come si traducono queste poche indicazioni nel caso dei collettivi umani?
Non c’è un solo modo di procedere. Quelli a mia conoscenza hanno tutti in comune un tratto paradossale: sono meno scientifici di quello che sarebbe auspicabile nell’ambito della scienza galileiana delle “sensate esperienze e necessarie dimostrazioni”. Infatti, tutte le analisi danno molto spazio alla descrizione empirica dei particolari fenomeni socio-biologici e alle narrazioni che ne giustificano l’esistenza. Insomma, in sociologia e in biologia c’è poca teoria universale e molte osservazioni singolari. Devo rassegnarmi e fare buon viso a tali “scienze dei fatti particolari”, tra cui forse rientra anche la psicanalisi.
Una linea di ricerca che ritengo interessante è quella seguita da Michael Tomasello, sulla scia del filosofo pragmatista americano Georg Herbert Mead, che suppone l’“altro generalizzato”[19] a fondamento della sua sociologia. Di seguito faccio particolare riferimento al suo Unicamente umano.[20]
Dal vasto e variegato campo della storia naturale del pensiero, come la definisce Michael Tomasello, seleziono pochi dettagli qui pertinenti al lavoro linguistico della civiltà.[21] Innanzitutto, un particolare anatomico, che riporto senza discuterlo. Nelle teche craniche di ominidi precedenti Homo sapiens è stata trovata l’impronta dell’area cerebrale di Broca, nota come area motoria del linguaggio. Cosa ci fa il “bernoccolo del linguaggio” in viventi che non parlano? La domanda è intrigante, ben sapendo che anche in Homo sapiens il linguaggio comparve circa 60.000 anni fa, all’epoca delle seconde migrazioni fuori dall’Africa, molto dopo la sua “discesa sulla terra” (190.000 anni fa). Cosa successe in quei 130.000 anni? Come comunicavano senza parlarsi i nostri progenitori? Era il loro un “discorso senza parole” alla Lacan?
Abbandonata la metafisica del linguaggio come casa dell’essere o luogo trascendentale (simbolico) che regge le sorti del soggetto umano, diventa interessante ed empiricamente controllabile l’ipotesi di Vygotskij sulla connessione funzionale tra le aree cerebrali del linguaggio e dell’intelligenza strumentale.[22]
A differenza degli scimpanzé, che non hanno geni per formare le pieghe cerebrali e l’articolazione del polso, gli ominidi costruiscono strumenti di lavoro da milioni di anni. La costruzione di un’ascia acheuleana bifacciale richiede non solo abilità manuale ma anche una complessa cooperazione sociale, che va dal reperimento di ciottoli giusti, magari in luoghi lontani dal sito abitativo, alla trasmissione della tecnica di scheggiatura alle nuove generazioni. Come fare senza linguaggio?
L’ipotesi di Tomasello è che la comunicazione linguistica derivi dalla mimica, a cominciare dall’indicazione. Non entro nei dettagli, ma mi limito a notare la connessione biologica particolare che si realizza tra corpo del singolo e corpo sociale. La mimica la usano anche gli scimpanzé per indicare al gruppo la presenza ostile di un predatore. Noi non siamo in questo molto diversi dagli scimpanzé (condividiamo il 98,5% del loro patrimonio genetico); abbiamo solo qualche gene organizzatore in più: dall’articolazione del polso alle pieghe cerebrali, come ho già detto. Tutto ciò ha costituito la premessa per l’evoluzione linguistica come ex-adattamento di altre funzioni, in primis le manipolazioni tecniche, che sono sempre originariamente collettive.
Per una serie di coincidenze favorevoli biologico-culturali si è creata in Homo sapiens il fenomeno della ricorsività sociale. Dati due locutori A e B, collocati in un orizzonte di sapere convenzionale condiviso, se A lancia un messaggio a B, perché intenda che il suo intendimento è di sapere le sue intenzioni riguardo a una partita di caccia, B può intendere o non intendere che l’altro intenda conoscere le proprie intenzioni. Questo dialogo muto o arriva a situazioni paradossali e instabili, del tipo doppio legame, o arriva a qualche conclusione grazie al terzo, che armonizza in un fine comune le due intenzioni, l’individuale e la collettiva, grazie a precedenti esperienze di cooperazione linguistica ormai storicamente codificate.
L’esempio principe di cooperazione che fonda i collettivi umani si radica nel bipedismo. Il lavoro della civiltà – la Kulturarbeit, come la chiama Freud – esordisce con il bipedismo. Non si sta in piedi da soli. Il soggetto individuale si regge in piedi sul soggetto collettivo, alla lettera.
Do pochi dettagli. Una volta discesi dagli alberi, per inoltrarsi nell’infida savana, gli ominidi, dovettero necessariamente concepire un embrionale progetto comune, prevedendo una rudimentale divisione cooperativa del lavoro; alcuni si orientavano alla ricerca di carcasse da scarnificare, abbandonate dai grandi predatori, prevedendo di competere con iene e sciacalli; altri dovevano stare di vedetta e avvisare il gruppo per l’incombere sul gruppo di pericoli dall’alto o dal basso, per evitare di essere mangiati mentre si mangia. Poi i ruoli si dovevano invertire. La cooperazione diventò più complessa nelle battute di caccia collettive o nella raccolta di semi nella boscaglia.
Eppure, c’è una forma di collaborazione ancora più radicale, direttamente derivante dal bipedismo e necessaria al suo stesso mantenimento, su cui voglio soffermarmi, perché mi porta al sostanziale riesame del freudismo. Il bipedismo porta con sé molti vantaggi, ma anche qualche svantaggio, addirittura un pericolo esistenziale, se sulla novità biologica non si innestasse la novità culturale, cioè la cooperazione tra individui.
La stazione eretta pone il cranio in bilico sulla colonna verticale, in un equilibrio che si mantiene senza grande sforzo muscolare. Il cranio può così espandersi e ospitare un cervello sempre più grande. Sul lungo periodo questo è un vantaggio per la specie. Sul breve periodo è un vantaggio per l’individuo la liberazione degli arti superiori e l’evoluzione della mano, che ora non serve solo per camminare o per arrampicarsi ma anche per afferrare oggetti, trasportarli, lanciarli e costruire strumenti per le stesse mani che li costruiscono. Gli scimpanzé sono meno bravi di un bambino a scagliare sassi; gli unici strumenti che costruiscono sono bacchette per pescare termiti nei termitai.
Ecco, però, l’ineluttabile svantaggio individuale. Per farla stare in piedi, il bacino della donna subisce una metamorfosi catastrofica, sui cui dettagli anatomici sorvolo. Il punto che mi interessa è uno solo: il restringimento del canale del parto. La conseguenza è fatale. Per essere gettato nel mondo, l’uomo deve nascere piccolo, ancora allo stato fetale, si dovrebbe dire, perché nella madre non c’è posto per crescere. Si chiama neotenia; è lo stato di immaturità neurologica in cui l’uomo viene al mondo. È uno stato di impotenza sensoriale e motoria che gli altri animali non conoscono. Appena nata la gazzella può correre, per sfuggire alla tigre.
Si dice venire al mondo, ma non è esatto. Si dovrebbe dire che l’uomo viene al collettivo, non necessariamente genitoriale, che si prende cura di lui e sfrutta la cooperazione di molti per portare a maturazione il singolo individuo. Anche il racconto dell’Edipo sarebbe, al di là della singolo romanzo familiare del nevrotico, la testimonianza di una coesione sociale intragruppo che, sotto apparenze simil-sessuali, favorisce lo sviluppo individuale, a patto che non si passi all’atto sessuale vero e proprio. Westermarck fece notare a Freud, invano, i frequenti fallimenti dei matrimoni tra soggetti vissuti nello stesso ambito familiare. Insomma, l’Edipo, se esiste, ha solo l’apparenza della sessualità. Giustamente, “non esiste rapporto sessuale… edipico”. Forse l’Edipo neppure introduce alla sessualità, per cui occorrono esperienze extrafamiliari.
Così anch’io non volendo ho raccontato la mia storia.
E la guerra? Cosa si può dire della guerra in contesto cooperativo?
La guerra dimostra la patologia dell’esistenza del soggetto collettivo. Qual sarebbe, allora, la fisiologia? Suggeritami in parte da Winnicott,[23] propongo questa risposta come ipotesi di lavoro: la fisiologia del collettivo è il gioco.
“Saper giocare significa giocare e al tempo stesso essere giocati.”[24] Attivo e passivo sono nel gioco due forme intercambiabili di individuale e collettivo. Il gioco più semplice è a due attori, ma non c’è due senza tre: il terzo è il collettivo che offre ai due il contesto delle regole e delle condizioni del gioco, da cui i due giocatori sono giocati, se stanno al gioco.
Dal 1928 al 1944, von Neumann gettò le basi della teoria matematica dei giochi in collaborazione con l’economista Morgenstern. Non entro nei dettagli. Ricordo solo che esistono giochi a due e giochi a enne giocatori, il cui equilibrio sarà studiato da Nash, giochi a somma zero e a somma diversa da zero, giochi cooperativi e non cooperativi, con coalizioni e senza coalizioni. I giochi a somma zero sono i più accessibili all’analisi matematica. Per essi vale che la vincita dell’uno equivale alla perdita dell’altro e sono sul lungo periodo regolati dal teorema di minimax di von Neumann (1928). Per i più interessanti giochi cooperativi, dove tutti possono vincere o tutti possono perdere, disponiamo solo di particolari simulazioni computerizzate, ma non di una teoria generale.[25]
La guerra è la forma estrema e patologica di gioco a due a somma zero: mors tua, vita mea. La patologia del gioco bellico è che alla fine distrugge il giocattolo, cioè il gioco stesso: la guerra non si guerreggia contro l’altro mio simile, ma contro il Grande Altro simbolico, direbbe Lacan; si gioca alla guerra per distruggere la possibilità stessa di giocare, addirittura di guerreggiare. Se ne accenno brevemente qui, è perché la guerra è l’esatto opposto ontologico della Kulturarbeit. Se la Kulturarbeit lavora a costruire il sapere, la guerra distrugge l’essere. L’incompatibilità tra ontologia ed epistemologia è un topos del pensiero occidentale da Parmenide fino almeno a Cartesio (par provision).
La guerra dimostra la precedenza dell’odio sull’amore, entrambi fiancheggiati (stavo per dire “patrocinati”) da forme diverse di volontà di ignoranza. Come superare l’odio per stabilire legami sociali interni al collettivo? Freud segnalò un meccanismo: la conversione dell’etero-aggressività in auto-aggressività. Freud non vide il meccanismo più normale e più efficiente: la cooperazione. I singoli identificati al Führer non collaborano al lavoro della civiltà; l’identificazione li unisce separandoli. La psicologia freudiana delle masse è definitivamente povera. Tocca a noi arricchirla, passando dall’ontologia (narrativa) dell’Io a quella (astratta) del Noi.
Questa rubrica ci prova. Per chiarire la struttura logica dei collettivi, distingue tra universale, particolare e singolare e a modo suo racconta storie.
[1] Le storie cliniche pretendono confermare la dottrina, per esempio l’edipica. Ma una teoria scientifica non è mai confermata dal dato empirico, al più è solo corroborata. I dati empirici riescono talvolta a confutare una teoria. Ad esempio, le fasi di Venere, scoperte dal cannocchiale di Galilei (dicembre 1610), confutarono la teoria geocentrica e corroborarono – senza confermare – la teoria eliocentrica, per altro già seppellita da Keplero (1609).
[2] L’ho imparato al liceo, sotto l’idealismo storicistico di Benedetto Croce. Ora la cultura è cambiata. Resta acquisita la differenza neurologica tra competenze linguistiche (narrative), localizzate nell’emisfero sinistro (aree di Broca e di Wernicke), e matematiche (intuitive), diffuse nella corteccia prefrontale, parietale e temporale inferiore. Probabilmente l’organizzazione cerebrale spaziotemporale e numerica è più arcaica della linguistica. Disse Einstein: “Le parole e il linguaggio, siano essi scritti o parlati, mi sembra che non abbiano giocato nessun ruolo nei miei processi di pensiero”.
[3] Aristotele, Analitici Primi, I 24, 41b 13-22. L’indifferenza per l’universale alimenta l’universale resistenza alla scienza.
[4] Essendo costruttiva, cioè “narrando” come si costruiscono le figure geometriche con riga e compasso, la geometria euclidea ha pochi enunciati quantificati universalmente o esistenzialmente. Tra questi c’è la famosa definizione di proporzionalità del Quinto Libro degli Elementi, dovuta a Eudosso di Cnido, maestro di Platone. Cantor diceva che la definizione di un insieme è universale nel senso che astrae dalla natura e dall’ordine degli elementi.
[5] Wissen: das Bedeutende der Erfahrung, das immer ins Allgemeine hinweist. J.W. Goethe, Aforismi sulla natura (1818-postumi), a c. M. Montinari, SE, Milano 1994, p. 85 (trad. modificata). Bedeutend significa sia “importante” sia “significativo”. Talvolta è il Witz della cosa.
[6] In realtà queste analisi spingono verso deliri narcisisti di auto-singolarità.
[7] Das Wahre ist das Ganze. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes (1806), Vorrede, p. 19.
[8] “Allora, da questo momento in poi, succede che il male altro non sia che l’esistenza naturale dello spirito rientrante in se stessa; viceversa, il bene entra nella realtà e appare come l’autocoscienza esistente”. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, Die offenbare Religion, (1806), p. 414.
[9] J.-P. Sartre, L’universale singolare (1965-1973), trad. R. Kirchmayr, Mimesis, Milano 2009. Il riferimento è al saggio omonimo del 1964, p. 143.
[10] J. Lacan, Fonction et champ de la parole e du langage en psychanalyse, 1953, in Id., Écrits, Seuil, Paris 1966, p. 260. Forse Lacan allude alla storia come scienza di fatti singoli e non come teoria universale.
[11] Ivi, p. 292.
[12] J. Lacan, Réponse au commentaire de Jean Hyppolite sur la «Verneinung» de Freud, 1955, in Écrits, cit., p. 386.
[13] N. Bourbaki, Éléments de mathématique. Théorie des ensembles, Hermann, Paris 1970, e ii 3 sg.
[14] Nella teoria lacaniana della sessuazione femminile c’è un tratto “intuizionista” alla Brouwer. Dal fatto che, singolarmente considerate, non esista una donna che non sia castrata non segue che tutte le donne siano castrate. Il tutto intuizionista non è la somma delle singole storie individuali. L’universale richiede uno sforzo intuitivo superiore a tutte le ricostruzioni storiche. Ciò ha una particolare rilevanza sul piano etico: come si raggiunge l’universale in morale? Come si sublima?
[15] Che il Tutto esista, se esiste l’eccezione che lo nega, è una variante del principio omnis adfirmatio est negatio (Spinoza, Epistola 50 a Jarig Jelles del 2 giugno 1674). Tale principio ricorre nella teoria degli insiemi come assioma di Absonderung o di isolamento, per cui da un insieme si possono isolare sottoinsiemi propri, cioè tali che esistono elementi che non vi appartengono (Zermelo e Fraenkel).
[16] L’identificazione al leader è il modo più efficace per realizzare-mortificare il desiderio collettivo, quindi per estinguere la vita di gruppo. Non lo dico io, lo diceva Elvio Fachinelli in Il desiderio dissidente, “Quaderni piacentini”, febbraio 1968; ristampato in E. Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, Adelphi, Milano 1010, p. 147.
[17] Chi all’epoca di Freud tentò di correggere la deriva fascista e antiscientifica della politica della psicanalisi fu Ferenczi. Con scarsi risultati.
[18] Orazio, Odi, III, 30, 6.
[19] G.H. Mead, Mente, sé, società (1934), trad. R. Tettucci, Giunti, Firenze 2010, p. 46.
[20] M. Tomasello, Unicamente umano. Storia naturale del pensiero (1914), trad. M. Ricucci, Il Mulino, Bologna 2014. In questo testo si articolano le due intenzionalità “individuale”, o dell’Io, e “congiunta”, o del noi.
[21] Vedi anche M. Tomasello, Le origini della comunicazione umana (2008), trad. S. Romano, Cortina, Milano 2009.
[22] L.S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio (1934), trad. L. Mecacci, Laterza, Bari 1992.
[23] D.W. Winnicott, Gioco e realtà (1971), trad. G. Adamo e R. Gaddini, Armando, Roma 1974.
[24] P.A. Rovatti, “Mettersi in gioco”. Qualche istruzione per l’uso, in “aut aut”, 369, 2016, pp. 191-195.
[25] Per una rassegna, che è anche buona divulgazione, v. M.A. Nowak e R. Highfeld, Supercooperatori. Altruismo ed evoluzione: perché abbiamo bisogno l'uno dell'altro (2011), trad. L. Sosio, Codice, Torino 2012.
Penso anch’io che il punto
Penso anch’io che il punto chiave sia quello dell’ipotesi che contempla la continuità natura-cultura. Grazie Darwin! che non a caso non è passato in alcune culture, vedi quella francese, oppure è stato travisato o addirittura stravolto come nel caso freudiano del padre-padrone dell’orda (concezione da Freud attribuita a Darwin ma non riscontrabile nella sua produzione). Concordo quindi in pieno con l’idea che l’evoluzione linguistica di Homo Sapiens è avvenuta come post-adattamento di funzioni originariamente non linguistiche, ovvero le manipolazioni tecniche, che appunto sono funzioni, attività ab initio collettive. A chiunque intenda sviluppare questo passaggio consiglio vivamente la lettura del libro di Michael Tomasello “Unicamente umano. Storia naturale del pensiero”, che agisce come una sorta di anticalcare intellettuale…scrosta le mitologie umanistiche.
Mi autocorreggo relativamente
Mi autocorreggo relativamente alla ultima frase del mio commento precedente, anzi più che una correzione si tratta di una ampliamento. Non si tratta di scrostare solo l’ideologia umanistica, ma anche e soprattutto l’impostazione logocentrica (che in molti casi si può ben dire anti o a-aumanistica, vedasi Heidegger e Lacan) che appunto nega la possibilità di un passaggio continuista tra natura e cultura proprio ipostatizzando il linguaggio umano come confine invalicabile tra il naturale e il culturale, tra l’animale e l’umano. Queto confine vieta di pensare il collettivo in modi differenti dalla costituzione solipsistica del soggetto umano benedetto dalla illimunazione linguistica che gli proviene dall’Essere: e prima fu il Verbo. Meglio pensare che prima del Verbo c’è stata (e continua ad esserci) la cooperazione ovvero il “NOI” che pensa collettivamene a partire dalla risoluzione di problemi, la quale risoluzione porta ex post allo sviluppo delle abilità linguistiche. Detto altrimenti prima si pensa (insieme) e dopo si parla (sempre insieme, essendo anche il discorso soggettivo sempre orientato da quello che Sciacchitano richiama col fenomeno della ricorsività sociale) e non viceversa. Altri potenti anticalcare anti logocentrici (e quindi catalizzatori pragmatico-scientifici) ? Mead con “Mente, sé, società” e Mills con “L’immaginazione sociologica”. In ambito psicanalitico un raro esempio di pensiero e di prassi dedicati al collettivo ( e quindi alla politica), con potenti revisioni di Freud e Lacan, lo troviamo in Fachinelli “Le ragioni del cuore. Scritti Politici” appena edito. Spero con questi continui riferimenti autoriali di non far arrabbiare Sciacchitano, ma del resto bisogna inseguire il cogito là dove è stato prodotto, e cercare di salvarlo dall’oblio….
Ho smesso di arrabbiarmi da
Ho smesso di arrabbiarmi da tempo. Dedico il mio tempo ad attività epistemiche più impegnative. Gli autori ci vogliono. Catalizzano il pensiero. Basta non fissarsi su di loro come fanno i “foucaultini” con Foucault o i “lacanini” con Lacan – ironizza Mario Galzigna. Poi è vero che il cogito “erra” dove vuole. Lo diceva Cartesio in qualche Meditazione. Aggiungerei che il collettivo di pensiero (alla Fleck) è la rete per pescare il cogito nomade. “Pensiero nomade” fu secondo Deleuze il pensiero di Nietzsche, un soggetto singolare che era già collettivo – esempio luminoso di superuomo in perenne lotta con la deriva della follia. Non è un caso se Nietzsche non fondò scuole di pensiero, riuscendo tuttora a far pensare, magari contraddittoriamente.
Come non essere in sintonia
Come non essere in sintonia con Sciacchitano ?
Concordo pienamente e aggiungo che anche il povero Cartesio, in vita, non fondò scuola alcuna. Divenne caposcuola post mortem, a voltre capita, ed è una sorte un pò peggiore. Scrivo per correggere un mio refuso relativo alla citazione di una fonte di cogito (a venire). Ho invitato alla lettura di Fachinelli richiamando un inesistente “Le ragioni del cuore…” il titolo esatto è invece “Al cuore delle cose…”. Ho bene in mente le “ragioni” del lapsus, e penso che se, e solo se, lo sviluppo della presente rubrica prenderà una certa piega (affettivo-politica, che non vuol dire assenza di ragione, tuttaltro: piuttosto lo sviluppo di ragioni altrimenti sempre sottaciute, rimosse, negate) varrà la pena di esporle al dibattito di un collettivo finora piuttosto silente.