Elvio Fachinelli è stato una figura significativa della Società Psicoanalitica Italiana tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso. Pensatore elegante e originale, era poco incline all’ortodossia. La sua morte prematura privò la psicoanalisi del nostro paese di una voce “fuori dal coro”. Massimo Recalcati, analista lacaniano, gli ha tributato recentemente un giusto riconoscimento. Nel farlo, ha sottolineato la sua presa di distanza dalla concezione freudiana dell’inconscio. La critica di Fachinelli a Freud, che Recalcati condivide e rilancia, seppure colga una prospettiva importante, lo fa a spese di una valutazione giusta del criticato. Questo non è privo di conseguenze: la critica che non coglie bene il suo bersaglio, non coglie bene neppure la propria prospettiva.
Dire che l’inconscio non è una minaccia, ma il luogo di un’apertura dell’essere che può trasformare il soggetto, è giusto. L’affermazione che secondo Freud l’uomo deve difendersi dal suo inconscio, arginarlo come pericolo interno, è infondata. Freud aveva una concezione omeostatica dell’apparato psichico: privilegiava la capacità della psiche di mantenere l’equilibrio del suo lavoro (la rappresentazione della realtà sul piano affettivo e ideativo) al variare delle condizioni esterne. Delle spinte pulsionali, alloggiate nell’inconscio, non aveva una percezione paranoica, considerava insidioso il loro conflitto con la realtà esterna. Nel suo modo di pensare l’essere umano è sano quando riesce a tener conto della realtà senza reprimere troppo le spinte vitali che vengono dal suo corpo.
Nella prospettiva freudiana l’Io, l’istanza dell’apparato psichico preposta all’autoconservazione, deve prevenire “un soddisfacimento pulsionale immediato e senza riguardi per nulla e nessuno” che rovinerebbe il rapporto con il mondo esterno, mettendo in discussione sia l’appagamento del desiderio sia quello del bisogno e quindi anche la sopravvivenza fisica del soggetto. Nello svolgere questa funzione l’Io non si comporta nei confronti delle pulsioni come se dovesse sbarrare l’accesso a un invasore. Nella metafora che Freud ha usato per rendere chiara la sua asserzione che “L'Io non è padrone in casa propria”, l’Io è il Re, la coscienza è il primo ministro e le forze pulsionali e i processi inconsci ad esse associate sono il popolo. L’Io è un monarca costituzionale che governa in nome e per il bene del suo popolo. Non ascolta solo il primo ministro.
Con la sua celebre asserzione “Dove era l’Es, l’Io deve avvenire”, Freud non intendeva affatto dire che l’Io dovesse “bonificare” l’Es (l’inconscio pulsionale) come sostiene Recalcati, sulla scia di un accostamento tra Fachinelli e Lacan. L’Io era visto da Freud come prodotto di una differenziazione dell’Es che tiene conto delle condizioni oggettive dell’esistenza umana: deve crescere nel luogo dell’Es, come la casa si innalza sulle sue fondamenta.
Tra l'Io e le forze pulsionali Freud non ha immaginato una divisione insormontabile, una barriera di difesa contro un nemico. Ha visto il loro rapporto in termini di continuità nella discontinuità, come processo di trasformazione perenne della materia umana. Questo processo è la matrice della nostra reale apertura al mondo, che alle sue radici è inconscia.
Il limite vero nel discorso di Freud deriva dal suo percepire l’apertura prevalentemente come rischio e dall’inclinazione conseguente a interpretare il piacere come ritorno dell’organismo a uno stato di equilibrio precedente. Ancorando, tuttavia, i processi trasformativi nel rapporto con la realtà, egli si allontanò da una concezione metafisica dell’inconscio.
Dire che l’inconscio non è una minaccia, ma il luogo di un’apertura dell’essere che può trasformare il soggetto, è giusto. L’affermazione che secondo Freud l’uomo deve difendersi dal suo inconscio, arginarlo come pericolo interno, è infondata. Freud aveva una concezione omeostatica dell’apparato psichico: privilegiava la capacità della psiche di mantenere l’equilibrio del suo lavoro (la rappresentazione della realtà sul piano affettivo e ideativo) al variare delle condizioni esterne. Delle spinte pulsionali, alloggiate nell’inconscio, non aveva una percezione paranoica, considerava insidioso il loro conflitto con la realtà esterna. Nel suo modo di pensare l’essere umano è sano quando riesce a tener conto della realtà senza reprimere troppo le spinte vitali che vengono dal suo corpo.
Nella prospettiva freudiana l’Io, l’istanza dell’apparato psichico preposta all’autoconservazione, deve prevenire “un soddisfacimento pulsionale immediato e senza riguardi per nulla e nessuno” che rovinerebbe il rapporto con il mondo esterno, mettendo in discussione sia l’appagamento del desiderio sia quello del bisogno e quindi anche la sopravvivenza fisica del soggetto. Nello svolgere questa funzione l’Io non si comporta nei confronti delle pulsioni come se dovesse sbarrare l’accesso a un invasore. Nella metafora che Freud ha usato per rendere chiara la sua asserzione che “L'Io non è padrone in casa propria”, l’Io è il Re, la coscienza è il primo ministro e le forze pulsionali e i processi inconsci ad esse associate sono il popolo. L’Io è un monarca costituzionale che governa in nome e per il bene del suo popolo. Non ascolta solo il primo ministro.
Con la sua celebre asserzione “Dove era l’Es, l’Io deve avvenire”, Freud non intendeva affatto dire che l’Io dovesse “bonificare” l’Es (l’inconscio pulsionale) come sostiene Recalcati, sulla scia di un accostamento tra Fachinelli e Lacan. L’Io era visto da Freud come prodotto di una differenziazione dell’Es che tiene conto delle condizioni oggettive dell’esistenza umana: deve crescere nel luogo dell’Es, come la casa si innalza sulle sue fondamenta.
Tra l'Io e le forze pulsionali Freud non ha immaginato una divisione insormontabile, una barriera di difesa contro un nemico. Ha visto il loro rapporto in termini di continuità nella discontinuità, come processo di trasformazione perenne della materia umana. Questo processo è la matrice della nostra reale apertura al mondo, che alle sue radici è inconscia.
Il limite vero nel discorso di Freud deriva dal suo percepire l’apertura prevalentemente come rischio e dall’inclinazione conseguente a interpretare il piacere come ritorno dell’organismo a uno stato di equilibrio precedente. Ancorando, tuttavia, i processi trasformativi nel rapporto con la realtà, egli si allontanò da una concezione metafisica dell’inconscio.
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