Giovanni Mercurio era nato a Udine il 26 marzo 1916 e si era trasferito con la famiglia, poverissima, del padre, manovale all'Officina Ferroviaria, a Voghera sull'onda dell’immigrazione veneta degli anni Trenta; era entrato in seminario, per poi uscirne e conseguire la maturità classica e la laurea in medicina. Militava nella FUCI, poi nei Laureati Cattolici. Aveva partecipato alla guerra come ufficiale della Divisione «Re», durante le operazioni militari nei Balcani. Dopo 1'8 settembre, come ricordano Giovanni Antoninetti e Adriano Perotti nella loro toccante testimonianza[i], aderì alla Resistenza, entusiasta e impaziente di fare, tanto che a volte i compagni dovevano trattenerlo.
Era entrato in contatto coi primi partigiani di Giustizia e Libertà, nel gruppo che accoglieva le direttive del rag. Pietro Denari, militando nella divisione Masia con il nome di «Mirko». Nella sua posizione di medico dell'Ospedale Psichiatrico, poi, forniva certificati che agevolavano gli esoneri, inviava medicinali e fogli di propaganda in montagna attraverso alcuni infermieri di fiducia. A volte saliva egli stesso sui monti sopra Varzi a prestare cure di emergenza, attivò contatti con il CLNAI a Milano e con resistenti cattolici milanesi, in particolare Enrico Mattei e Achille Marazza, nonché con un gruppo di ex ufficiali guidati da Gino De Scalzi e legati a Ferruccio Parri (portò, tra l’altro, il primo finanziamento, 25.000 lire, a una formazione partigiana del Vogherese). Con altri sette compagni, al Cardazzo, presso Stradella, tentò di sottrarre il progetto per un aeroporto, e di rapire un colonnello, nel gennaio del 1944. Due mesi dopo a Villamaggiore, presso Milano, partecipò a un’azione volta a far saltare l'impianto delle antenne della radio. Entrambe le azioni non ebbero successo. Proseguono Antoninetti e Perotti nel loro ricordo: «In una giornata di riposo dal lavoro, il 5 luglio 1944, salì a Romagnese con l'intenzione di restare nelle formazioni GL, per diventare definitivamente «Mirko»; ma gli stessi compagni di lotta lo convinsero ad aspettare ancora: era assai utile in città e inoltre, perdendo il posto di lavoro, avrebbe fatto mancare alla famiglia l'unico sostegno. Sulla via del ritorno fu fermato alle porte di Varzi. Gli chiesero perché era salito in montagna; rispose che era stato mandato per una visita di controllo di un malato dimesso da poco dallo Psichiatrico. Quando giunse a Voghera col trenino era accompagnato da quattro militi della GNR, che però lo sorvegliavano a distanza. Questo fatto fece sì che egli, durante il tragitto dalla stazione alle carceri, avesse modo e tempo di dare istruzioni all'amico Perotti: ripulisci la mia casa, gli disse, ed avverti il direttore dell'Ospedale di quanto ho dichiarato ai fascisti. A casa sua vennero fatti sparire un pacco del giornale clandestino «Il Ribelle» e alcune armi, ma per il direttore era ormai tardi: era già stato interrogato, e la sua risposta era stata ovviamente difforme da quella di Mercurio». Bianca Ceva, sua compagna di detenzione in quei mesi, ci offre un ricordo toccante del periodo successivo: «7 luglio – Ieri, attraverso l’inferriata della finestra ho scorto giù nel cortile interno del carcere un giovane dall’aspetto riservato e dignitoso. Passeggiava lento su e giù per il cortile insieme con un detenuto più anziano di lui, mentre gli altri a gruppi sparsi se ne stavano chiacchierando e fumando all’ombra dell’alto muro. Ho chiesto chi era quel giovane e ho saputo che è un medico di qui, figlio unico di povera gente. E’ accusato di aver curato partigiani sui monti e di aver preso parte attiva alla lotta clandestina. E’ in mano delle SS tedesche»[ii].
Durante i mesi di prigionia a Voghera, i compagni di lotta non lo abbandonarono. Tentarono di liberarlo con uno scambio di prigionieri, e poi con un’irruzione nel carcere per liberare i detenuti politici, liberazione effettivamente realizzatasi il 26 settembre, due giorni dopo la sua partenza, e ancora con la corruzione dei suoi carcerieri. La partenza di Mercurio dal castello di Voghera alla volta di Pavia prevenne la realizzazione di questi piani, che nei primi due casi portò alla liberazione di altri prigionieri. Ancora Bianca Ceva ha lasciato chiara memoria della scena della sua partenza: «24 Settembre – Stamane i Tedeschi hanno portato via quel giovane medico, che da mesi era qui prigioniero. Ho potuto scorgere dall'alto tutta la scena. Segretamente avvertiti, il padre e la madre, con un piccolo gruppo di parenti, sono corsi per vederlo all'uscita del carcere. Al momento in cui l'automobile si è avviata, quei poveri vecchi, fuori di sé dal dolore, sono balzati con le braccia tese verso il figlio. Ho ancora nell'orecchio l'urlo selvaggio, col quale le S.S. hanno brandito i calci dei moschetti per ricacciare indietro quel padre disperato, che stava già per toccare lo sportello della vettura. Braccia pietose hanno sostenuto il vecchio vacillante, quando la piccola folla spaventata ha indietreggiato, mentre l'automobile s'allontanava, fra i soldati che urlavano ferocemente e quei genitori straziati, dinanzi ai quali il figlio era passato fermo nel volto e con l’occhio fisso lontano, come chi non avesse visto quelle mani, né avesse udito quel grido»[iii].
Il 28 settembre è a S. Vittore, nel VI raggio, e il 17 ottobre a Bolzano[iv], da dove il 20 novembre viene deportato a Mauthausen con il numero di matricola 110329; trasferito a Linz e poi ad Amstetten, vi muore il 22 aprile 1945[v]. Con il suo sacrificio, Giovanni Mercurio diventa così, per quanto a nostra conoscenza, il solo psichiatra ad avere pagato la sua partecipazione alla Resistenza con la vita, e un esempio per tutti noi.
Estratto da: P. F. Peloso, La guerra dentro. La psichiatria italiana tra fascismo e Resistenza (1922-1945), Verona, ombre corte, 2008.
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