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IRVIN YALOM

17 Apr 19

A cura di kharban@virgilio.it

Sono in procinto di promuovere Irvin Yalom.
Ho voglia di spostare i suoi libri dagli scaffali dei romanzieri prediletti a quelli dei maestri di psicoanalisi. Oddio, magari Yalom non vorrebbe essere chiamato "psicoanalista", ma il suo modo di pensare e di operare clinicamente non saprei come chiamarlo altrimenti. A me pare proprio che, nella mia biblioteca, il suo nome possa rimanere degnamente accanto a quello dei Maestri, più o meno venerati. A parte l'ineludibile Freud, accanto a Ferenczi, che è quasi uno zio; e poi a Balint, Suttie, Rycroft, la Heimann, Nicholas Abraham e Maria Torok, Mitchell, Winnicott, la Little, Fromm, Cremerius, Erikson, e potrei continuare. No, non sto stilando una classifica dei "migliori" (e chi ne avrebbe l'autorità?): sto semplicemente enumerando quelli con i quali sento di avere un debito di gratitudine. E non cito i viventi, alcuni dei quali sono miei amici o conoscenti, per non cadere in sospetto di piaggeria.
Sono in impaziente attesa di ricevere un libro appena ordinato: Existential Psychotherapy. Lo aspetto perché sono curioso di capire come, dopo averlo visto all'opera attraverso i suoi deliziosi racconti clinici, Yalom descriva il modo in cui ha metabolizzato l'insegnamento ricevuto attraverso l'analisi personale con Rollo May, riuscendo a costruirsi uno stile personalissimo, duttile, capace di adattarsi alle situazioni più diverse, senza mai perdere di vista i propri punti deboli e le proprie incertezze. Perché il suo è un modello che sento calzarmi addosso come un guanto: soprattutto quando parla di quei casi che i miei maestri non mi hanno insegnato a trattare, lasciandomi solo a sbrigarmela. Parlo di quei pazienti troppo difficili o troppo sofferenti, che fanno tanta fatica ad assumere la consapevolezza del compito; che si comportano in maniera sfiduciata o eccessivamente passiva, come se fossero sulla sedia del dentista, dove non dobbiamo fare altro che tenere la bocca aperta e aspettare che abbia finito. E poi quella capacità così rara, fra noi colleghi, di riconoscere i nostri difetti e di parlarne persino, con il dovuto rispetto e l'indispensabile prudenza, con i pazienti, che non dovranno mai pensare che siamo superuomini o modelli irraggiungibili.
Io non so che cosa sia la "psicoterapia esistenziale", termine con il quale Yalom definisce il proprio approccio. Perché non mi pare altro che un sinonimo dell'aggettivo "umano". O "umanistico"? Esiste una psicoterapia che si possa chiamare "umanistica"? È forse lo stile di lavoro di clinici dediti più alla letteratura che ai testi scientifici?  Ma come potrebbe infatti uno psicoanalista fare a meno della letteratura? Che sarebbe stato Freud senza le lezioni di filosofia di Brentano, senza l'imbarazzante Nietzsche, e soprattutto senza Sofocle, Shakespeare, Dostojevski? E così, come potrebbe un terapeuta essere dedito a qualcos'altro che il senso dell'esistenza umana? Ci sarà certamente più d'uno, fra i miei colleghi, che mi rimprovererà di una colpevole ignoranza. Ma io non credo che l'aggettivo "esistenziale" possa voler dire qualcosa di univoco, di codificabile in un approccio, in un metodo, in protocolli specifici e riconoscibili come tali. Al massimo gli psicoterapeuti esistenziali potrebbero protestare: "questo solo possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo". Ciò che non vogliono (più?) essere.
Mi affascina e mi sconcerta scoprirmi così tardivamente, leggendo Yalom, uno psicoterapeuta "esistenziale".
La prima volta che acquistai il suo romanzo "Lying on the couch" (dove il verbo "to lie", più che "star sdraiati", significa qui "mentire"), interruppi la lettura alla fine del primo capitolo. Non sopportavo l'idea di vedere uno psicoanalista anziano, con anni d'esperienza clinica e di insegnamento alle spalle, giungere alla fine della carriera per scendere una china che lo avrebbe provato all'autodistruzione, senza peraltro essere riuscito a far nulla per una paziente tossicodipendente e ninfomane, anche se maledettamente bella. Nel suo caso, neppure l'inesperienza poteva valere a scusante di quello che il mio supervisore chiamava "l'errore estremo" dell'analista, vale a dire la violazione dei confini affettivi e sessuali del setting. Un analista che va a letto con chi si affida alle sue cure è un omicida-suicida. Parlo di omicidi e suicidi dell'anima, naturalmente. Parlo di seduzione e distruzione. E, nel caso di un anziano maestro, della più totale e incondizionata resa di fronte al declino. Così accantonai il libro e non lo guardai più.
Qualche anno dopo, l'editore Neri Pozza pubblicò "Sul lettino di Freud" che io acquistai automaticamente, senza neppure accorgermi che si trattava dello stesso libro che avevo abbandonato come se fosse stato fatto di piombo fuso. Lo apersi e, complice la lingua materna, riuscii a scorrere velocemente il primo urticante capitolo per passare al secondo. E qui iniziò una storia molto più grande e consolatoria: quella di donne ferite da relazioni abusive trascorse con i propri analisti, e decise perciò a vendicarsi. E di un analista capace di resistere anche alle insidie della propria professione, senza peraltro respingere le vittime dei propri colleghi come streghe appestate. Una storia che lessi tutta d'un fiato, contento di scoprire come, alla fine della storia, una paziente, quella a lungo ferita in profondità, fosse in grado di reggere il dolore di un altro anziano psicoanalista. Insomma, una fantasmagoria inaspettata di situazioni, che mi restituiva per intero la forza di qualcosa che non so chiamare con nome diverso da psicoanalisi, e che non può vivere da sola, avendo bisogno di umanità, umiltà, curiosità, assenza di certezze e di obbedienza di scuola, e di grande capacità di imparare. Anche da vecchi.

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