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Intermezzo favolistico – A proposito di Iris

17 Dic 20

A cura di antonello.sciacchi16

Aziza, luce dei miei occhi, la cosa più inutile del mondo è il mio amore per te. Se tu mi ami, è una cosa inutile per me, in quanto non mi appartiene più, essendo io totalmente tuo, e del pari è inutile per te poiché, se mi ami, non ti serve, essendo tu totalmente in me.”
Francesco Bollorino, Iris
 

L’evidenza è incontestabile: a fronte della spropositata ricchezza di miti nell’antichità classica greca e latina, l’era moderna è estremamente povera di miti. Essenzialmente ne conto solo due: il don Giovanni e il Faust, pur con tutte le loro varianti. Sarà perché l’epoca moderna è scientifica e la scienza ama meno le narrazioni e più le “sensate esperienze e le necessarie dimostrazioni”, come scriveva Galilei a Cristina di Lorena. Non lo so. È un fatto tuttora per me enigmatico che l’epoca moderna, insieme alla scienza, conosca l’esplosione della produzione romanzesca, la quale, invece, è simmetricamente misera nell’antichità. Senza contare la Bibbia, mi sembrano ancora solo due i romanzi classici: l’Odissea di Omero e gli Amori pastorali di Dafni e Cloe di Longo Sofista. Forse Cervantes non supera Omero con il suo Don Chisciotte, ma Rabelais supera l’arcadia asfittica di Longo Sofista con il suo spumeggiante, enciclopedico ma anche sanguigno Gargantua e Pantagruel.
E le favole? Nell’antichità esistevano le favole gnomiche o moraleggianti di Esopo e Fedro. Nella modernità – un’altra differenza – le favole non si contano e soprattutto si diversificano nei contenuti: chi ha mai letto tutte le favole raccolte dai fratelli Grimm nella tradizione tedesca o tutto il nostro Pentamerone, egregiamente tradotto da un nostro filosofo storicista? E non finisce lì. L’attività favolistica sembra non volersi interrompere mai. Chi la sostiene? Chi la ispira? Dove pescano i loro spunti narrativi Andersen o Rodari, uno che scriveva favole senza telefono, l’altro che le scriveva al telefono, prima che fosse inventato il telefonino?
Proviamo a chiederlo a Francesco Bollorino, psichiatra genovese, che recentemente è uscito con una raccolta di favole, intitolata Iris, per i tipi di Alpes. Si sa, gratti il medico e spunta la vocazione dello scrittore. Cechov, certo. Ma non c’è bisogno di spingersi fino a quelle vette. Il medico scrive le anamnesi dei pazienti, cioè racconta. Mio padre, che era un bravo dermatologo, mi ha picchiato in testa che un bravo medico deve saper scrivere. Io non ho mai imparato a scrivere le anamnesi. Divagavo rispetto agli schemi nosografici appresi sui libri, cioè raccontavo a modo mio. Andavo per rane e il mio supervisore cestinava tutto quello che scrivevo. Allora mi sono dato una regolata, passando alla statistica medica: lì questionari, crocette, calcoli, tutto era ben regolato e ordinato. Uscivano lindi tabulati dai primi computer, grandi come appartamenti trilocali ma con una memoria non più grande di un cellulare. Finché un giorno sono cascato su Freud e lì il discorso è cambiato un’altra volta. Edipo, la castrazione non sono favole moderne?
Le favole di Francesco – questa è la prima cosa che colpisce leggendo alcune pagine a caso in piedi davanti al bancone della libreria (non ho comprato il libro su Amazon) – le favole di Francesco, dicevo, sono infantili. Non oggettivamente, ma soggettivamente infantili. Articolano il pensiero infantile. Cosa pensa il bambino? Pensa: “Da dove vengo e dove vado?”. Più filosoficamente: “Qual è l’origine delle cose?” E si dà delle risposte confabulando. La confabulazione è un sintomo psichiatrico, vero Francesco?
Non sto psicanalizzando il povero Francesco. Sto facendo un discorso serio per tentare di spiegarmi la segreta sincronia che collega la favolistica moderna alla scienza moderna. La favola parla dell’origine delle cose: un compito impossibile per la scienza. I nostri fisici non sanno dirci cosa è veramente successo nell’intervallo temporale del primo picosecondo – dico un millesimo di miliardesimo di secondo – dall’inizio del Big Bang, ammesso che 13,8 miliardi di anni fa un Big Bang ci sia veramente stato. Allora, in questa salutare e necessaria ignoranza, ci rivolgiamo alle favole, per esempio apriamo Iris.




Lì di favole sull’origine delle cose ce ne sono parecchie. Ci raccontano come sono nati il linguaggio, la musica, la memoria – pare che la memoria sia necessaria per quella cosa inutile che è amare – la scrittura – per ovviare alla debolezza di memoria, secondo un antico mito egizio – gli affetti, le favole stesse, ma anche cose più concrete come l’arcobaleno – Iris appunto – o le Domus de Janas.
All’origine dei tempi troviamo un personaggio mitico: il solito, a molti familiare, vecchio Dio, che non muore mai, pare, nonostante l’età. Era un tipo che si diede un gran da fare, in modo un po’ maniacale, a creare il mondo. Perciò fece tanti errori, lapsus direbbe Freud. Chi fa falla, si dice. Per esempio, dimenticò di mettere un cuore nell’uomo, cioè le emozioni. Veramente non si dimenticò, ma credeva che senza cuore, cioè senza emozioni, gli uomini sarebbero stati più felici, vivendo come macchine. Si sbagliava. Tentò, allora, di rimediare inserendo dei cuori con interruttore, per emozionarsi a comando: acceso mi emoziono, spento non mi emoziono. Peggio che andar di notte! Gli interruttori accesi/spenti non combaciavano con quelli spenti/accesi. Chi amava non era riamato e tante altre banali combinazioni della vita quotidiana che conosciamo bene tutti. Si può favoleggiare a lungo sugli errori di Dio. I teologi non fanno altro. Un grande teologo recentemente scomparso, Raimon Pannikar, sentenziava che i teologi devono amare i miti. Dimenticò di raccomandare le favole, che sono più moderne dei miti. O Dio non è moderno?

Sì, ma non è tutto. In Iris ci sono un paio di favole che non rientrano in questo schema interpretativo e che secondo me rappresentano la novità essenziale del libro. Mi riferisco in particolare alla penultima della raccolta Il bambino a espansione e a NUP, quarta favola di Natale. Sono favole espressionistiche, completamente fantastiche, da contestualizzare tra Kafka e Orwell. Sono un po’ meno infantili delle favole sorelle, soprattutto la NUP, ma forse più originali, perché vanno più a fondo all’origine delle cose.
Nelle situazioni imbarazzanti il bambino a espansione, BAE, invece di arrossire si gonfiava come un pallone aerostatico e saliva per aria. Traversie familiari ben narrate. Tentativi di cura. Fallimento della cura medico-chirurgica dal medico tedesco Arzt-Arzt. Togliere il sintomo in modo medico produce regolarmente sintomi peggiori di quelli della malattia originaria, come sa bene qualche psicanalista che si accanisce a guarire e come forse i rigidi teutonici vogliono continuare a ignorare. Secondo tentativo di cura tra l’ipnotico e lo psicoterapeutico, eseguito da un saggio eremita in cima alla roccia dove BAE era atterrato. Funziona un po’ meglio. Ma la guarigione finale la dà l’amore della fanciulla, che finalmente tiene per mano il BAE, garantendogli che non lo lascerà andare più per aria. Provare per credere.
La Quarta favola di Natale è la più pertinente al tema di questo blog: il soggetto collettivo. Qui non siamo più nel passato mitico, ma in un futuro fantascientifico, su cui bisognerebbe chiedere lumi a qualche cineasta tipo Ridley Scott di Blade Runner. Il personaggio principale ha “nome Gigi, vive al quinto livello, in un auto-appartamento di classe C, il suo lavoro è progettare cieli azzurri ed essere felici”. L’ambiente di Gigi è la società perfetta senza più guerre – in pace perpetua, direbbe Kant – sotto la guida di un grande unificatore di religioni, il Dalaipapa. La politica senza guerre ha un nome. Si chiama NUP: Never Unhappy Program, la felicità senza desideri. La favola racconta – non vi dico come – Gigi riesce finalmente a diventare un po’ infelice, proprio la mattina di Natale quando tutti dovrebbero essere felici. Liberamente, naturalmente. E gli altri? Queste favole non lo dicono. Lo diranno le prossime.
Che dire di più? Leggete Iris. Non perderete molto tempo e forse poi penserete di più. Non è inutile.

 

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