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Il “genere” non ama la donna

14 Giu 16

A cura di Sarantis Thanopulos

Nel nostro modo di affrontare la violenza contro le donne ci sono errori seri.
Il primo errore è l’affidamento eccessivo allo strumento della repressione legale. Siamo convinti, perché ci semplifica la vita, che il rigore della pena abbia di per sé un effetto dissuasivo a causa del timore che incute.
In realtà la dissuasione agisce indirettamente, attraverso il sentimento di esclusione: la punizione sancisce soprattutto l’auto-estraniazione dell’autore di un delitto dalla costruzione e condivisione di un interesse comune e fa leva sul legame di appartenenza dei cittadini con la comunità.
Qui sta la forza della legge, ma anche la sua vulnerabilità. Si rivolge efficacemente a coloro che desiderano essere inclusi nella società civile e nei suoi conflitti, e sanziona i loro eccessi di passione.
Nulla può contro la produzione sociale di esclusi privi di passione e senza un reale approdo al mondo, che agiscono spinti da compulsioni distruttive, se non impedire che reiterino i loro crimini.
Il secondo errore è il nostro appiattimento su una cultura “politicamente corretta”, che dispensa canoni del buon pensare e del buon agire, in mezzo a una sorda disperazione con cui si relaziona in modo cosmetico.
A ogni donna sfregiata o uccisa rispondiamo con l’autocompiacimento di chi sta dalla “parte giusta”, cioè né nella posizione del carnefice né della vittima. Costoro vivono in un altro mondo che i nostri bei sentimenti non riescono a raggiungere: non lo conoscono.
Il terzo errore è la sostituzione del corpo erotico vivo, ribelle alla sua manipolazione, alienazione da parte del potere, con il concetto astratto di “genere”.
L’uso di questo concetto è assoggettato, al di là delle intenzioni, alla sovradeterminazione sociale della relazione erotica.
Il “genere” è stato pensato come emancipazione dall’uso ideologico delle differenze biologiche tra i due sessi, che, incastrandole sul piano della procreazione, ha penalizzato la donna e l’omosessualità. È finito, invece, nella palude di una svalutazione della differenza sessuale dei corpi. Eliminando la complementarità nella relazione tra donna e uomo, ha reso la loro differenza generica e il loro incontro un’artificiosa combinazione di istanze convenzionalmente egalitarie.
La differenza anatomica/biologica tra i sessi, lega la soddisfazione del desiderio alla complementarità tra donna e uomo e, per estensione, alla complementarità tra componente femminile e maschile del corpo e tra corrente eterosessuale e omosessuale della sessualità.
La combinazione libera di queste polarità complementari determina l’incontro tra gli amanti. L’incontro è paritario solo attraverso la contrattazione tra due desideri interdipendenti che la complementarità impone alla differenza.
Tolta la complementarità alla differenza, le relazioni umane si allontanano dalla parità: sono affidate al caso e alla necessità, il regno della differenza come ineguaglianza. L’identità sessuale si struttura per combinazione arbitraria di ruoli sociali a prescindere dai soggetti desideranti che li incarnano.
L’arbitrio sposta inevitabilmente il centro della differenza umana dal piano paritario della relazione di desiderio al piano del rapporto padrone-servo (luogo di violenza socializzata). La vita fatta su misura per il dominio di un corpo maschile avulso dall’eros, tende a slittare verso le diversità indifferenti, differenze che si ignorano (terreno fertile per la violenza nichilista).
La donna non può aspettarsi nulla di buono da una società di questo tipo: può solo sottomettersi o imitare l’uomo.
A volte, fatale necessità, le capita di essere uccisa.

 
 

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