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Al cuore delle cose, al cuore della psicoanalisi

19 Giu 16

A cura di Antonello Sciacchitano

Presentazione degli scritti politici di Elvio Fachinelli a cura di Dario Borso
– Centro Milanese di Terapia della Famiglia – 14 Giugno 2016.
 

Comincio dando la parola a Elvio:

Con Freud si apre il campo di una ricerca sui rapporti interindividuali; comincia una sorta di nexologia umana (dal latino nexus: legame, intreccio), che include il corpo come parte in causa e interlocutore (“L’erba voglio” V, aprile 1972, ristampato in E. Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, Adelphi, Milano 2010, p. 294).

Elvio fu un freudiano e si sente. Confrontiamo la precedente citazione con l’incipit della Massenpsychologie freudiana di mezzo secolo precedente:

La contrapposizione, a prima vista apparentemente così importante, tra psicologia individuale e psicologia sociale, o collettiva, perde man mano che la si approfondisce molto della sua nitidezza. La psicologia individuale, pur dedicandosi al singolo e perseguendo le modalità con cui tenta di soddisfare i propri moti pulsionali, raramente e solo in certe condizioni eccezionali arriva a prescindere dai rapporti del singolo con gli altri. Nella vita psichica del singolo l’altro interviene regolarmente come modello, oggetto, soccorritore e nemico. In questa accezione più ampia ma del tutto giustificata la psicologia individuale è sin dall’inizio e al tempo stesso anche psicologia sociale”. (S. Freud, “Massenpsychologie und Ich-Analyse” (Psicologia delle masse e analisi dell’Io, 1921), in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XIII, Fischer, Frankfurt a.M. 1999, p. 3).

Siamo qui stasera per presentare la bella raccolta di scritti politici di Fachinelli, curati da Dario Borso per DeriveApprodi, che, mi si dice, si vendono bene e meglio dei suoi scritti psicanalitici strettamente clinici. Il punto che voglio evidenziare è che il binomio politica-psicanalisi rappresenta un nesso problematico nel freudismo, sin dal suo nascere, già nelle pagine del padre fondatore della psicanalisi. Insomma, politica e psicanalisi non vanno insieme automaticamente e sin dall’origine. Occorre un ripensamento dei loro rapporti e bisogna riconoscere che Fachinelli ha tentato di ripensarli.

Ripartiamo, allora, proprio dalla Massenpsychologie. La psicologia sociale ivi presentata da Freud è essenzialmente una psicologia individuale semplificata e allargata. Perciò ricevette le lodi sperticate, che imbarazzarono persino Freud, del grande teorico del diritto Hans Kelsen, per il quale esisteva solo il soggetto individuale, regolato da norme oggettive. Per Freud l’energia psichica all’opera nel sociale è la stessa attiva nell’individuale: la libido. Le passione ontologiche sono le stesse, avrebbe detto Lacan: amore, odio e volontà d’ignoranza. Il meccanismo aggregante della massa è l’identificazione. A rigore per Freud non esiste alcuna massa; esistono solo individui massificati: ogni individuo della massa è identificato al Führer. Cosa vuol dire “identificazione”? Vuol dire che l’individuo pone nel proprio ideale dell’Io un tratto dell’oggetto del desiderio, incarnato dal Führer. Uso la parola tedesca proprio per segnalare la deriva potenzialmente fascista della psicologia sociale freudiana. Non esistono interazioni orizzontali tra gli individui che compongono la massa; esiste solo il legame verticale tra l’individuo e il suo dio in terra, il Führer. Gli individui sono monadi senza porte e senza finestre, ma solo con un oblò nel tetto che guarda verso l’alto. Non è sublimazione ma idealizzazione.

Freud non corresse di molto il modello verticistico neppure a un decennio di distanza, quando, dopo aver scoperto la pulsione di morte, scrisse Il disagio nella civiltà. Sì, esistono rapporti orizzontali tra gli individui della massa, ma sono rapporti di aggressività. Freud, più incline alla mitologia che alla scienza, sottoscrisse il mito hobbesiano dell’originaria guerra di tutti contro tutti. Allora, per creare masse socialmente stabili, l’aggressività originariamente rivolta verso l’altro si introietta nel singolo e diventa autoaggressività. Da qui, dalla doppia restrizione della sessualità e dell’aggressività, deriva il disagio nella civiltà.

Questa la teoria freudiana. Quanto alla pratica politica messa in atto per il movimento psicoanalitico le mie critiche a Freud sono ancora più pesanti. Se la sua teoria sociologica rimase potenzialmente fascista, la sua pratica fu decisamente autoritaria. Sulla base della propria mitologia edipica, Freud trasferì nella vita associativa degli psicoanalisti il mito dell’orda primigenia: un solo padre padrone e sotto di lui tutti gli adepti su un piano di parità, dietro una parvenza di organizzazione ecclesiastica: al piano alto i presbiteri più anziani, al piano basso i catecumeni in attesa della sacra unzione. La cosiddetta formazione dell’analista è tuttora in ogni scuola psicoanalitica un percorso di conformazione dell’allievo alla dottrina vigente nella scuola. La cosa curiosa fu che l’organizzazione del tipo orda si perpetuò pari pari nelle sette eretiche nate per scissione dalla setta freudiana originaria, sulle orme di qualche guru autodichiaratosi maestro e somma autorità. Quando si dice l’identificazione… Potrei parlare a lungo della setta che ho conosciuto meglio, quella lacaniana. A merito di Lacan dico solo che il maestro volle sciogliere la sua Ecole freudienne de Paris prima di andarsene. In questa logica politica perversa rimase impigliato anche Elvio, che contestava i congressi ufficiali, ma non uscì mai dalla propria associazione psicoanalitica “per cambiarla da dentro”, diceva come tutti i sessantottini.
Cinque anni fa curai un numero di “aut aut” dedicato a Elvio Fachinelli. Mi piacque intitolarlo “Un freudiano di giudizio”, anche con una punta polemica, perché i freudiani ortodossi, per prendere le distanze da lui, lo ritenevano un kleiniano, basandosi soprattutto sul suo libro Claustrofilia (non il migliore). Invece, Elvio era un freudiano che giudicava Freud; non si limitava ad applicarlo acriticamente alla pratica clinica. Nella Mente estatica criticò l’assetto eccessivamente difensivistico dell’apparato psichico freudiano che, tra conflitti, relative censure e rimozioni, “dimenticava” troppo facilmente di aprirsi alle innovazioni provenienti dall’inconscio, magari stimolato dall’amica psilocibina.

Per quanto attiene al tema politico, citerò solo un passo del Desiderio dissidente di Fachinelli. Oggi questo titolo fa sorridere; non si parla più di “dissidenza” come ai tempi dell’Arcipelago Gulag di Solgenitzin. Ma non dimentichiamo che Fachinelli importò in Italia il fondamentale trinomio lacaniano “bisogno, desiderio, domanda”, dove la domanda scava nel bisogno un al di là inedito che si chiama desiderio. Se la sinistra ha fallito – e continua a fallire – è perché non ha saputo vedere il desiderio al di là del bisogno. Ecco cosa scriveva Elvio nel ’68, qualche mese prima di maggio.
Dunque ciò che conta non è la meta, non è la proposta in sé, più o meno «reale»; il gruppo impara sempre meglio che essenziale per la sua sopravvivenza non è l’oggetto del desiderio, ma lo stato di desiderio. E perché questo permanga, bisogna perdere l’illusione di un’incarnazione definitiva del desiderio: il desiderio appagato è morto come desiderio, e alla sua morte fa seguito la morte del gruppo. Infatti, il modo meglio codificato di appagare il desiderio del gruppo è quello di incarnarlo nella figura del leader. Qui non importa se si tratti di una persona o di un valore. Nel momento in cui il leader tende a esaurire in sé il desiderio collettivo, il gruppo cambia carattere. Da gruppo di desiderio, come potremmo chiamarlo, esso tende a farsi gruppo di bisogno. E questo richiama allora all’interno del gruppo tutti i problemi che la sua costituzione intendeva appunto risolvere. (“Quaderni piacentini”, XXXIII, febbraio 1968, ristampato in E. Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, Adelphi, Milano 2010, p. 147).

Sembra di sentire suonare la campana a morto della Massenpsychologie. È comunque chiara la deriva antiautoritaria del discorso fachinelliano – la stessa deriva che lo portò a fondare l’asilo di Porta Ticinese a Milano. Ma l’antiautoritarismo non lo spinse a prendere del distanze dal freudismo politico della Società di psicoanalisi italiana, che rimase autoritariamente fondata come voleva Freud. Il gruppo vive di desiderio; muore se il desiderio si incarna nel leader, questa è la pars destruens della pratica teorica fachinelliana. Purtroppo in Elvio, come già in Freud, manca una pars construens del soggetto collettivo. La nexologia è rimasta senza nessi, cioè lettera morta. Di soggetto collettivo rimase solo un vago desiderio. Elvio inventò una rivista dal nome promettente: L’erba voglio; non fu L’erba vogliamo. In formato antiautoritario nell’Erba voglio tornava la deriva individualista, che fu già di Freud. Il mio freudiano di giudizio rimase troppo freudiano, nonostante tutto il suo giudizio.
Se si fa un semplice esperimento e nel libro curato da Borso si cerca la stringa “coop” per “cooperare”, “cooperativo”, “cooperazione”, il risultato è nullo. Se si ripete l’analoga ricerca nelle Gesammelte Werke, testando la stringa Genossenschaft, si ottiene lo stesso risultato negativo. Non c’è collettivo cooperante né in Freud né in Fachinelli. Il risultato dovrebbe far pensare.

 
* * *

A questo punto il mio pensiero va a un dettaglio dell’insegnamento lacaniano e inizia la seconda parte del mio intervento che va al cuore della cosa. Si tratta di un hapax che ricorre nella lettera agli italiani dell’aprile 1974, dove Lacan proponeva l’istituzione di una scuola lacaniana in Italia, proposta in cui fu coinvolto anche Fachinelli ma a cui Elvio non aderì (vedi il mio post su pol.it del 19 marzo 2016 http://www.psychiatryonline.it/node/6130).

Il y a du savoir dans le réel. “C’è un sapere nel reale”. (J. Lacan, Note italienne, 1974, in Id., Autre écrits, Seuil, Paris 2001, p. 308). Terrible, si direbbe in francese. Il sapere cui si interessa tanto la scienza quanto la psicoanalisi non è nella testa di qualche maestro, di qualche autore riconosciuto, tanto meno nelle teste degli allievi; è nel reale. Sia detto una volta per tutte.

La cosa è di un’evidenza palmare nella biologia darwiniana. L’adattamento – la fitness – di un organismo al proprio ambiente è frutto di un sapere innato, non trasmesso da qualche supervisore al supervisionato. Si chiama per comodità istinto. Produce un particolare e particolarmente efficace equilibrio tra organismo e ambiente che fa sì che l’organismo “fittato” non solo sopravviva ma generi altri organismi che sopravvivono (con piccole ma essenziali differenze tra loro!). La chiamerei coesione o adesione dell’organismo alla propria ecologia. Va notato che l’adesione non è ottimale ma sub-ottimale: in pratica oscilla intorno alla posizione ottimale. Questo è un dettaglio fondamentale. Se l’adattamento fosse il migliore possibile e fosse rigidamente stabilito, sarebbe pericoloso per l’organismo. Infatti, una minima variazione ambientale metterebbe a repentaglio la vita dell’organismo. Insomma, il meglio è nemico del bene. Anche questo sa il sapere nel reale.

Non sto facendo un discorso vitalistico, sul tipo dell’evoluzione creatrice bergsoniana. Il sapere nel reale è evidente già in meccanica quantistica nel fenomeno detto da Schrödinger entanglement o Verflechtung, letteralmente “intreccio”. Si preparino due elettroni dalla stessa fonte (un filo caldo), i quali hanno complessivamente spin zero; si lancino in direzioni opposte; una volta arrivati ai confini dell’universo, si esegua la misura dello spin su di uno di loro; ebbene, il risultato contro-intuitivo è che se il primo ha spin down (up), l’altro sa immediatamente di essere up (down). La correlazione è più che casuale; è come se tra elettroni esistesse una qualche telepatia con velocità di trasmissione del “pensiero elettronico” superiore a quella della luce. Einstein, che pure inventò l’esperimento mentale dell’entanglement e lo propose alla comunità dei fisici a dimostrazione che la meccanica quantistica è incompleta, non poteva crederci. “Dio non gioca dadi”, diceva. “Come fai a saperlo?”, gli ribatteva Bohr, l’amico-nemico di sempre.

Il fenomeno sembra avere una base immateriale. Provate a fare questo semplice esperimento con delle carte da gioco. Da un mazzo di carte francesi estraete le 13 carte di picche e le 13 carte di cuori. Mettete in fila le 13 carte di picche in un ordine qualunque; sopra ciascuna carta di picche deponete una carta di cuori coperta. Ora scoprite le carte: troverete o non troverete delle coincidenze, del tipo il fante di cuori sul fante di picche o il due di cuori sul due di picche o altre. Ebbene, qual è la probabilità di trovare almeno una coincidenza tra le 13 possibili? Se non fate l’esperimento, non ci credete. Si tratta di una probabilità molto alta, di poco inferiore a 2 su 3. Le carte sanno che devono accoppiarsi due volte su tre? Le carte forse no, ma il sistema simbolico cui appartengono forse sì.

È su questo sapere nel reale che operano – anzi cooperano – gli elementi costitutivi del soggetto collettivo. Qui ritorno a Lacan, in particolare al suo paradosso dei tre prigionieri, cui il direttore della prigione mostra tre dischi bianchi e due neri, promettendo la libertà a chi avesse saputo argomentare per via puramente logica il colore del disco che gli avrebbe incollato alle spalle. Il perfido direttore distribuì tre dischi bianchi. (J. Lacan, Le temps logique et l’assertion de certitude anticipée. Un nouveau sophisme, 1945, in Id., Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 197).

Panico? No, incertezza. Nessuno dei tre prigionieri sa decidere il proprio colore, perché ognuno vede solo dischi bianchi. Ma è proprio questa incertezza che permette di decidere il gioco. Infatti, se non ci fosse stata incertezza voleva dire che uno dei tre avrebbe visto almeno un disco nero. Se ne avesse visti due, il risultato era scontato. Se ne avesse visto uno, uno degli altri due avrebbe potuto ragionare così: “Se fossi nero, il terzo avrebbe potuto decidere”. Ma nessuno decide, quindi ognuno può decidere di essere bianco, perché non ci sono dischi neri in giro a quanto pare. In questo sofisma Lacan pose le basi per pensare un legame sociale orizzontale di natura epistemica, fondato sul sapere nel reale. La cooperazione epistemica consiste nel fatto che io lavoro sulla tua incertezza, la faccio mia e te la restituisco come certezza. Insomma, il sapere dell’incertezza è un sapere che genera certezze reali, come si sa dal calcolo delle probabilità, che gli antichi non conoscevano, ma è uno dei più puri portati della pratica scientifica moderna. Si sa a priori che una moneta simmetrica dà testa o croce con probabilità pari a ½, ma la moneta lo sa?

Sono considerazioni troppo astratte per sostanziare una politica? A nove giorni dal referendum sulla Brexit gli allibratori londinesi danno il “no” al 64%. Ci puntano dei capitali, quindi devono sapere qualcosa. Sanno quel che non voleva sapere Freud, cioè che l’uomo, se non è selvaggio, è “condannato” a cooperare, indipendentemente dalle proprie simpatie politiche. Ancora una volta funziona un sapere nel reale.

Già che siamo in Inghilterra restiamoci ma torniamo indietro di un secolo e mezzo al 1871. Ecco cosa scriveva Darwin nel V capitolo della sua Descent of man (p. 162).

When two tribes of primeval man, living in the same country, came into competition, if the one tribe included (other circumstances being equal) a greater number of courageous, sympathetic, and faithful members, who were always ready to warn each other of danger, to aid and defend each other, this tribe would without doubt succeed best and conquer the other. Let it be borne in mind how all-important, in the never-ceasing wars of savages, fidelity and courage must be. The advantage which disciplined soldiers have over undisciplined hordes follows chiefly from the confidence which each man feels in his comrades. Obedience, as Mr. Bagehot has well shewn, is of the highest value, for any form of government is better than none. Selfish and contentious people will not cohere, and without coherence nothing can be effected. A tribe possessing the above qualities in a high degree would spread and be victorious over other tribes; but in the course of time it would, judging from all past history, be in its turn overcome by some other and still more highly endowed tribe. Thus the social and moral qualities would tend slowly to advance and be diffused throughout the world.
È il problema tuttora non risolto della selezione a più livelli, del gene, dell’individuo, del collettivo. La matematica che coinvolge è intrattabile e tuttora poco esplorata. Qualcosa se ne sa per via di simulazione al computer. Per esempio, si sa che un piccolo livello di ostilità tra gruppi, favorisce la coesione interna. L’argomento era già noto ai fascismi del secolo scorso.

In ogni caso, psicoanalisti svegliatevi! Non c’è solo il divano e la poltrona. C’è un sapere nel reale – un sapere non specialistico e non professionale – che vi aspetta. È il sapere della cooperazione civile, la stessa che ha insegnato a Homo sapiens a parlare, prima emettendo singoli fonemi e poi articolandoli tra di loro e con i gesti della mimica secondo una qualche grammatica. Sì, qui intavolo la mia ultima carta.

A me hanno insegnato che l’inconscio è strutturato come un linguaggio, cioè che il linguaggio è la condizione dell’inconscio. Sarà anche vero e io ci credo, ma quel che non mi ha insegnato il mio maestro, che soffriva di logocentrismo, è che il linguaggio non esiste nell’universo platonico. Non è un’idea ma è l’opera dell’uomo collettivo, lo stesso che prima produce le asce a mano, controlla il fuoco e poi produce i primi “manufatti” linguistici, che a loro volta consolidano la civiltà, stabilendo i ritmi del lavoro e i riti del riposo.

L’uomo non nacque subito parlante, però. Supponendo ragionevolmente che Homo sapiens sia comparso in Africa 190.000 anni fa, ci sono voluti almeno 130.000 anni di latenza prima che imparasse a balbettare le prime parole, magari per insegnare al figlio come si scheggia un’ascia a mano con qualche gesto e qualche esclamazione, non ancora bestemmia. Sempre in nome della cooperazione collettiva, il figlio dell’uomo ha imparato a scheggiare sassi, a rincorrere gazzelle e al tempo stesso a parlare. In altri termini, ha imparato a usare il corpo, piegandolo alla tecnica e al lavoro, e a usare la mente, piegandola al linguaggio e al pensiero degli altri. Non c’è nexologia, cioè non c’è soggetto collettivo, senza l’uso congiunto dei due corpi: il corpo biologico, reale, e il corpo del linguaggio, simbolico. Il sapere nel reale abita in entrambi i corpi, l’individuale e il collettivo. È il versante simbolico-immaginario di entrambi. Sul corpo l'atttuale riflessione psicoanalitica è oggettivamente carente. Non si può ridurre il corpo a luogo del godimento, come fa Lacan, in questo senso originariamente sadiano, ma si può ripartire dalla sua intuizione di sapere nel reale, cioè in particolare nel corpo.

Un’ultima considerazione paleoantropologica. Quando cominciarono le migrazioni dall’Africa verso il resto del mondo, circa 60.000 anni fa, certamente Homo sapiens aveva imparato a parlare (terminus ante quem). Senza linguaggio Homo difficilmente poteva uscire dalla culla africana, proprio come l’infante, che non ha ancora imparato il gioco freudiano del Fort/Da. In effetti, quelle migrazioni furono un fenomeno collettivo, né più né meno delle moderne cui assistiamo tuttora. Fu un fenomeno che presupponeva necessariamente l’uso collettivo della parola, perché la migrazione dell’uomo non fu come quella periodica degli uccelli, regolata dai ritmi solari, ma fu una vera umanizzazione del pianeta, che presupponeva importanti esercizi cognitivi sui nuovi territori, i nuovi climi e i nuovi abitanti via via incontrati. Tali esercizi a loro volta presupponevano forme linguistiche evolute per lo scambio di informazioni e per l’esercizio del consenso politico su progetti comuni: la via da intraprendere, i tempi di permanenza in un certo sito, gli approvvigionamenti per i trasferimenti ecc. Se non ci fosse stato un soggetto collettivo parlante, già politicizzato, qualcosa risalente ad almeno 60.000 anni fa, non saremmo qui questa sera a parlare degli scritti politici di uno psicoanalista che ebbe una particolare e inusuale sensibilità per la politica.
Insomma, “al cuore delle cose” dell’uomo, caro Borso, non ci stanno le essenze platoniche, ma c’è un po’ di sapere nel reale, prima linguistico, poi scientifico, comunque politico. Su tale sapere comune gli esseri umani cooperano volenti o nolenti e si costituiscono come soggetti collettivi. Su tale sapere si fonda la nexologia di Elvio Fachinelli.

Giustamente commentava Pietro Barbetta che Elvio non ha fondato una sua scuola di psicoanalisi. Non è stato un Bion o un Lacan italiano, ma ha ispirato psicoanalisti di formazione diversa: freudiani, junghiani, bioniani, lacaniani. Ciò significa che stava all’intersezione comune di diversi approcci e di diversi insegnamenti. Insomma, là dove c’era Fachinelli, c’era del sapere psicoanalitico nel reale. Lui era, come dire, sul posto.

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1 commento

  1. barbetta

    Fachinelli era forse
    Fachinelli era forse cosciente del rischio che si correva a Scuola, lo vedeva quando aveva aperto la Scuola di Porta Ticinese, Elvio cacato, nel libro curato da Dario Borso, è paradigmatico. La Scuola, come Istituzione, si può trasformare rapidamente in merda (è nota l’espressione “scuola di merda!”). Ma, come insegna anche Fachinelli, la merda è una significazione eretica, trasgressiva. Una provocazione alla clinica. Il bambino encopretico è il più difficile da “contenere”, il suo è sintomo disgustoso, prima e più ancora che doloroso. Come per sincronicità junghiana (che a Fachinelli piaceva) ho scritto anch’io il mio pezzo sulla Presentazione di Al cuore delle cose, a cura di Dario Borso, nella rubrica Clinica sistemica. Non dobbiamo abbandonare la memoria di Elvio Fachinelli.

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