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INVENTARE L’ISTITUZIONE. Il “caso Trieste” nell’evoluzione della psichiatria italiana della 180

2 Lug 16

A cura di chiclana

L’invito del “Coordinamento per Quarto” a ragionare nell’ambito della V edizione del Festival “Quarto Pianeta” con l’autore – oltre che con Oreste Pivetta, Roberto Bottaro, Natale Calderaro (presente al dibattito anche Bruno Orsini, il relatore della 180 in commissione parlamentare) – sul volume “L’istituzione inventata / Almanacco. Trieste 1971-2010” di Franco Rotelli[i], mi ha stimolato a raccogliere le idee su un’esperienza particolare nel panorama italiano della 180 e sul modo in cui al suo interno sono stati sciolti alcuni nodi imprescindibili del lavoro in salute mentale. Rotelli ha preso parte all’esperienza triestina di Basaglia dall’inizio dopo una breve esperienza presso l’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere e l’ha guidata dal 1980, anno del passaggio di Basaglia a Roma. Leggere le pagine del suo almanacco mi ha riportato con la mente e col cuore alla decina di giorni che trascorsi con i colleghi di Trieste nel 1998, nel momento in cui mi spostavo dal Dipartimento di Savona a quello di Genova, per approfondire la conoscenza del loro lavoro; un periodo certo breve, ma sufficiente a lasciare tracce importanti, credo, nel modo in cui, negli anni successivi, ho impostato il lavoro. In quell’occasione, tra l’altro, incontrai Franco Rotelli che aveva da poco lasciato la direzione del DSM a Peppe Dell’Acqua, e incominciai in quell’occasione ad apprezzarne la lucida determinazione, la generosità e a volergli bene. Gli chiesi un’intervista che poi pubblicai con il titolo Oltre il muro, con uno sguardo al mondo[ii], identificando in questi due elementi – la deistituzionalizzazione come obiettivo ossessivamente perseguito e la globalità del mondo come campo di respiro e d’azione – le due cifre più caratterizzanti dell’esperienza triestina in quella fase.

Il “caso Trieste”: sei stimoli alla riflessione per gli operatori italiani
Di Trieste, certo un “caso particolare” nel campo dell’assistenza psichiatrica in Italia, l’almanacco proposto da Rotelli ripercorre passo passo, attraverso immagini, documenti, testimonianze l’evoluzione dal 1971, anno dell’arrivo di Franco Basaglia su sollecitazione del presidente democristiano della Provincia Michele Zanetti, ad oggi. Si può, credo, leggere questo testo in tanti modi; io ho scelto di enuclearne alcune questioni sulle quali ciascun operatore dei servizi deve prendere posizione, e rispetto alle quali Trieste lo fa in modo che può o meno piacere, ma ha comunque il pregio di essere molto chiaro.
La prima, della quale il libro rende molto bene l’idea, ha a che fare con lo stile di lavoro ed è quello dell’esistenza di un gruppo pensante costante alla testa del Dipartimento, che affonda le proprie radici teoriche nell’insegnamento di Basaglia, e insieme di una capacità di identificare con chiarezza gli obiettivi e lavorare a perseguirli in modo coerente nel tempo, evitando al massimo ambiguità, incertezze, elementi di contraddizione. Credo che si possa scegliere di stare in due modi sulla scena della salute mentale: accettando sostanzialmente l’esistente e lavorando soprattutto di giorno in giorno ad evitare l’incidente, sempre possibile nella forma del suicidio o dell’omicidio; o impegnandosi a trasformarlo, per creare contesti che favoriscano la guarigione o almeno i massimi benessere e libertà possibili nella malattia. Subendo la follia, o negoziandoci, insomma. Trieste ha scelto il secondo.
La seconda questione mi pare rappresentata dalla centralità, sempre, della persona del malato (del malato più grave soprattutto); centralità della sua necessità di ricevere cure, che fa nella concezione triestina tutt’uno con il diritto alla deistituzionalizzazione e all’inclusione sociale. La guarigione, cioè, è intesa anche come riappropriazione sociale di ruolo, di affetti, di possibilità di essere. La vicenda di Giovanni Doz, riportato dal manicomio al paese d’origine, è commuovente; e si rispecchia, fuori dal manicomio, in quella di Fiorentino “dallo sguardo caldo e bello, uscito dal delirio e felice della sua nuova casa”. Perché oggi non si tratta più, il più delle volte, di favorire il recupero delle relazioni che ci costituiscono come persona, ma piuttosto di mantenerle, salvaguardarle, far sì che non vadano perdute. Nell’istituzionalizzazione e nell’esclusione, delle quali il manicomio rappresenta figura emblematica, sono identificate le radici del rischio di cronicizzazione nel ruolo di malato;  e quindi la preoccupazione è quella di evitarle e contrastarle da subito, operando perché la malattia non arrivi mai a rappresentare, o cessi il più presto possibile di rappresentare, la dimensione alla quale l’intera esistenza, con l’infinito spettro delle sue possibilità, si riduce. Questa attenzione alla persona nella vicenda triestina è radicale, cioè portata alla radice, e questo porta a schierarsi in modo chiaro contro la contenzione fisica considerata pratica umiliante e violenta sempre da evitare (emblematico in proposito il lavoro recentemente documentato da Giovanna del Giudice in un testo che Eugenio Borna definisce “straziante e bellissimo”[iii]). O a non abbandonare mai il soggetto, anche quando si trova nel luogo separato e povero per eccellenza, il carcere (Trieste si pose il problema d’intervenire al suo interno con largo anticipo rispetto a tutte le altre realtà italiane).
Mi pare che per la terza questione potremmo fare poi riferimento a concetti come “tensione etica”, “istanza di giustizia”,  e in definitiva “passione”. Credo che questo ingrediente, spesso dato per sottointeso, la cui presenza si avverte fortemente in queste pagine e dà loro calore, rappresenti il trucco, l’”inganno” – la “fregatura” se vogliamo – della legge 180. Perché la 180 è una legge dello Stato che istituisce servizi sanitari dedicati alla promozione della Salute mentale; ma la peculiarità di questi servizi è di non poter essere dati per scontati e non funzionare quindi come gli altri. E’ una legge che non ci chiede solo di lavorare, ma anche di lottare. C’è un trucco al suo interno, ed è che per far funzionare questi servizi non basta che l’operatore svolga onestamente il proprio lavoro; i servizi della 180, per funzionare, hanno bisogno di più. Hanno bisogno che ci si metta qualche cosa di proprio, una componente di natura volontaristica che non è solo il lavoro per il quale si è retribuiti, è un’istanza di giustizia e solidarietà che ci tocca di persona. Credo che la figura dell’infermiera Nives nel film “C’era una volta la città dei matti” rappresenti un esempio di questo grado in più del coinvolgimento rispetto a quello che è normalmente richiesto nel lavoro salariato presso il servizio pubblico, e quindi negli altri luoghi del servizio sanitario, e dei rischi e dei costi personali che può comportare. Il che certo non può essere preteso come impegno alla firma del contratto, ma è comunque necessario, e in questo sta certamente un’aporia. Perché senza di esso la 180 non funziona, cioè non può dispiegare in pieno le sue  potenzialità; al più, “funzionicchia”, come accade in tanti luoghi. La salute mentale per funzionare ha necessità di operatori appassionati, insomma, e consapevoli di questo qualcosa in più (di proprio, personale) che loro si chiede in quel particolare contesto; non può essere la scelta che deriva da comodità d’orario o ripiego da altre ambizioni di carriera andate frustrate, e di questo sarebbe giusto che gli operatori che  scelgono di lavorare in quest’area fossero consapevoli.
Ancora, una quarta questione che mi pare di poter identificare è quella del rapporto col sapere medico, che Trieste affronta in modo mai timido, subalterno; e senza mai dare nulla per scontato. Per fare psichiatria nel territorio gli strumenti e i luoghi tradizionali della medicina (ambulatorio, reparto ecc.) possono non essere sufficienti. E alcuni elementi centrali della cultura ospedaliera (camici, pigiami, riferimento costante al letto come luogo privilegiato per la cura ecc.) possono essere d’ostacolo. Nessuna timidezza allora, a Trieste, nel dotarsi dei nuovi  strumenti che sono necessari, per una psichiatria senza camice né pigiama. Una malattia da non curare al letto, come gli esiti d’interventi chirurgici o ortopedici o le febbri, ma per lo più in piedi. Il CSM h24 rappresenta un modello originale, l’istituzione che la psichiatria può permettersi d’inventare, in grado di offrire la gamma di opportunità necessaria alla psichiatria sul territorio (è insieme CSM e Centro diurno, ma anche Centro crisi h24; è luogo dove si può ricevere una visita, ma anche trascorrere la giornata nelle fasi più difficili, o anche pernottare quando la crisi è più acuta; è luogo dove si passa e dove si sta, è soprattutto, come il suq di una città araba, luogo d’incontro, scambio, di negoziazione), tenendo unito tanto sul piano logistico che operativo ciò che altrove per lo più si è scelto di separare, distinguere, condannandosi però poi a improbe fatiche per ricomporlo (ricordiamo tutti, nel corso degli anni ’90, gli psicodrammi in cui ci si è dovuti impegnare per riconnettere il Centro diurno al CSM, o poi l’uno e l’altro al servizio ospedaliero). A questa relazione spavalda di autonomia rispetto al sapere medico corrisponde, e anche questo è qui ben documentato, uno sforzo di “egemonia” in senso gramsciano all’interno del mondo della sanità e del sociale nella relazione, mai semplice neppure a Trieste, con le amministrazioni (comprese quelle “amiche”); scrive Rotelli a proposito del maggio 1976: “ci vorranno decenni per far capire che dovrebbero essere i regolamenti a rispondere ai bisogni e non il contrario, ma ci siamo riusciti solo un pochino”. Beh, complimenti per quel pochino, almeno!  
Una quinta questione mi pare possa essere colta nella convinzione, a Trieste, di un nesso inscindibile tra cura e vita, che è continuamente sotto gli occhi; si è detto come il percorso di guarigione clinica non sia qui inteso in modo astratto e isolato, come mero venir meno di sintomi, ma immediatamente come opportunità di (re)inclusione sociale, a partire da percorsi di partecipazione al lavoro e produzione del reddito. Percorsi generalizzati, componente imprescindibile dell’offerta di cura, e non benevola eccezionale elargizione per chi, proprio proprio, è guarito. Il sistema delle Cooperative eccezionalmente esteso e diffuso in quell’esperienza, perciò, non è elemento accessorio nel modello triestino, ma ne rappresenta ingrediente imprescindibile. E, mentre in tante altre parti d’Italia veniva ampiamente praticata, se non anche teorizzata, l’idea della “noia” come elemento terapeutico – noia nei reparti ospedalieri, nelle comunità terapeutiche e nei centri diurni dove l’attenzione era tutta concentrata sul simbolico rispetto al concreto, nonché nelle case di quella che Racamier ha definito la “familiasilarità” – a Trieste l’uscita dalla fase più acuta della malattia significa invece da subito iniziare a prevenire il rischio di esito in cronicità, la perdita di abilità e l’isolamento offrendo  opportunità, le più varie possibili, nei campi del lavoro ma anche dell’arte, del teatro, dell’esplorazione del mondo con l’aeroplano o la barca a vela. E mantenendo la cura negli stessi ambienti della vita (le case cioè), evitando il ricorso a istituzioni sedicenti "terapeutiche" che rischiano di trasformarsi in "residenze di varie dimensioni e a permanenza più o meno eterna". Una vasta gamma di opportunità quindi, germogliate dalla commistione imprescindibile tra cura e vita, la cui consapevolezza è assunta in modo chiaro e inequivoco, destinata a far sì che ciascuno possa trovare la propria via tra tante disponibili verso la guarigione, o quella almeno per vivere nel modo migliore la malattia. Destinata a far sì che la "ricchezza delle pratiche" possa trovare corrispondenza in una "pratica della ricchezza relativa".   
A queste cinque questioni, più immediatamente percepibili, vorrei aggiungerne una sesta, ed è quella del “ritmo” di lavoro, che mi ha colpito particolarmente durante il mio stage a Trieste. Mario Novello scrive, nella sua testimonianza: “senza insostenibili trionfalismi, con un lavoro durissimo giorno per giorno…”. Già, un lavoro durissimo, e a un ritmo febbrile aggiungerei. Il ritmo diverso con il quale vedevo muoversi medici e infermieri a Barcola – scandito anche dal simpatico uso del dialetto anche tra gli infermieri più giovani – rispetto a quello dei servizi che io conoscevo; era come una scena vista al naturale, oppure alla moviola. Come ascoltare uno stesso disco a 45 o a 33 giri. Tra fare e pensare, per riferirci a un famoso testo del gruppo di De Martis, insomma, l’equilibrio mi pareva decisamente più spostato verso il fare rispetto ad alte situazioni; il pensare certo non era trascurato, ma a patto che non fosse svincolato da un immediato riferimento alle pratiche e ai bisogni. Una consapevolezza, direi, di stare nel tempo e nella storia e fare la propria parte per dare un indirizzo alle cose. Organizzavo, in quello stesso periodo, un convegno per Amnesty International con un cardiologo del Galliera; e quando mi recavo la mattina a trovarlo in ospedale, mi rendevo conto che medici e infermieri della salute mentale di Trieste si muovevano con i ritmi dei cardiologi liguri, non con quelli degli psichiatri. Certo oggi  anche  nei nostri servizi è imposto un ritmo più accelerato dall’aumento dell’utenza e dei bisogni in costanza, o riduzione, d’organici, ma credo che anche su questa questione occorrerebbe riflettere: e non solo perché, banalmente, lavorare a un ritmo più veloce significa lavorare più intensamente, e quindi di più. Ma anche perché significa anche, in psichiatria, rimanere strettamente vincolati ai tempi della realtà e della vita, e quindi per noi operatori non rischiare di diventare cronici, e perciò poi cronicizzanti.

Le sei direttrici di sviluppo del “caso Trieste”
Accanto alla possibilità di cercare di identificare le questioni fondamentali per le quali l’impostazione del servizio a Trieste differisce da molti altri servizi italiani, o più in generale di identificare a proposito di Trieste alcune questioni rispetto alle quali i servizi italiani differiscono tra loro, l’almanacco che Rotelli propone presenta anche implicitamente le sei direttrici nelle quali lo sforzo di egemonia di questo gruppo dirigente, portatore di un modello corroborato nelle pratiche della cui bontà si mostra profondamente convinto, si sviluppa. 
La prima è quella del consolidamento di un modello i cui caposaldi logistici venivano individuati in un documento del 1993 in: CSM h24; gruppi appartamento più piccoli e più numerosi possibile; cooperative sociali più differenziate e più numerose possibili; ospedali meno possibili. E ancora, tra l’altro: formazione permanente come prassi riabilitativa, indissolubile l’insieme sociale-sanitario, un’unica responsabilità di un’unica équipe su un unico (piccolo) territorio (e su questa questione della dimensione del territorio di riferimento dei servizi italiani si ragiona poco, e bisognerebbe invece soffermarsi), allargare ai non professionisti in tutti i modi possibili la partecipazione all’azione.
La seconda direttrice è quella che spinge verso il territorio, la città. Perché fare salute mentale significa, anche, contribuire alla costruzione di una città che per essere aperta, solidale verso la persona che è affetta dalla malattia mentale, deve esserlo verso chiunque. La 180, per poter funzionare, non ha bisogno soltanto di operatori autenticamente appassionati, disponibili a un rapporto basato sull’appropriazione emotiva e non sull’alienazione col lavoro, ma anche di una città aperta, solidale, e questo sforzo di manipolazione politica (da polis) della città per adattarla ad accogliere la follia rappresenta uno dei versanti nei quali il servizio si impegna (Benedetto Saraceno, anch’egli profondamente segnato dal suo passaggio triestino, parla in proposito di un meccanismo “key and lock”, di lavoro sulla chiave ma anche sulla serratura per renderle compatibili, nella riabilitazione psichiatrica).
La terza direttrice è quella che spinge verso il resto dell’assistenza sanitaria, alla quale la salute mentale si rivolge forte dell’orgoglio di essere il settore nel quale più precocemente e in modo più esteso si è fatta esperienza del lavoro sul territorio, della continuità terapeutico-assistenziale, della indissolubilità della dimensione sanitaria e sociale del bisogno, della presa in carico come strumento di impegno clinico ed etico del servizio con la persona considerata nella globalità dei suoi bisogni. Competenze, esperienze, background che l’assistenza psichiatrica, l’ultima arrivata nella famiglia dei servizi sanitari, ha l’ambizione di poter proporre e rendere disponibili agli altri.
La quarta direttrice sposta verso il mondo della giustizia (tribunale, carcere, OPG) nel suo nesso storicamente radicato e indissolubile con la psichiatria. Della precocità dell’impegno triestino per la salute mentale dei detenuti si è detto. Accanto a questo, la lotta contro l’OPG all’interno di una più generale lotta contro le istituzioni della segregazione (che non possono mai essere per nessuno buoni luoghi per la cura!), è oggetto nel 1988 di uno scritto prezioso di  Rotelli che, per lucidità, rappresenta in questa fase per tanti aspetti caotica una bussola. Esso ha il merito di non far perdere mai di vista il carattere di grande complessità del problema di conciliare esigenze di cura e di sicurezza, esigenze ed emozioni della collettività e della persona, sensibilità medica e giudiziaria, evitando forme di neomanicomializzazione ma anche, ritornando ancora più indietro, di ricarcerizzazione della follia criminale come oggi è da molte parti purtroppo semplicisticamente ventilato[iv].
C’è poi una quinta direttrice – e anche questo testo e la collana alla quale appartiene vanno in quella direzione – e porta verso il ruolo di proposta, stimolo e forse anche sfida che Trieste, da qualche anno con più impegno mi pare, si sforza di svolgere per il resto dell’assistenza psichiatrica in Italia. Un resto dell’assistenza psichiatrica che guarda per lo più a Trieste con perplessità e diffidenza; come chi, essendosi incamminato su strade su molti punti divergenti all’inizio, sente adesso di essere distante. Sta di fatto che, fatto salvo il momento in cui in occasione dei primi governi delle destre la 180 è parsa pericolosamente sotto attacco, il rapporto di Trieste con gli psichiatri italiani è spesso problematico, fatto non di rado di un reciproco ignorarsi per evitare incontri imbarazzanti o spiacevoli scontri. Più facile, semmai, quello con operatori di base, utenti, familiari, soggetti a vario titolo interessati, coltivato con l’impegno diretto di alcuni dei esponenti triestini in realtà regionali diverse (ricordo in particolare il ruolo istituzionale di Roptelli in Campania e Dell'Acqua in Sardegna, e il lavoro sul campo di Giovanna del Giudice a Caserta e Cagliari) e con la promozione e il sostegno del Forum per la Salute Mentale, in molte realtà regionali una vivace opportunità di critica dell’esistente e partecipazione al quale Trieste ha dato la spinta propulsiva e non sta facendo mancare il sostegno.
La sesta direttrice, infine, è legata alla vocazione cosmopolita che è cifra caratterizzante questa città di porto e di confine, ed è quella dello “sguardo al mondo”: un mondo che da subito, da quei primi anni ’70, va a Trieste per curiosare, imparare, discutere, regalando ai gruppi di lavoro la freschezza, l’apertura e la simpatia di questo vorticoso girare di gente, di idiomi, di idee, talvolta fermarsi, talvolta ripartire. E  Trieste ripaga il mondo con un’attenzione non comune nei servizi italiani e con l’assunzione di una dimensione internazionale, globale, volta a scoprirne e denunciarne le brutture – emblematico il caso di Leros – e contribuire concretamente ad affrontarle ma anche a stimolare, sostenere germogli di liberazione e cambiamento: e sono significativi i rapporti costruiti e coltivati negli anni con l’ex Jugoslavia e l’America Latina, anch’essi documentati ampiamente nel volume.  

Per concludere
Lì tutto ebbe inizio, dunque, e lì tutto continua a maturare come in un laboratorio in permanente ebollizione. Di questo grande ribollire di pratiche e di idee, l’almanacco rende conto in modo puntuale. E rende perciò conto dell’esperienza e dell’evoluzione di un gruppo che, certamente, ha fatto cose importanti e costituisce, nel panorama della psichiatria italiana, una realtà che si può amare, per la quale si può provare interesse, o dalla quale ci si può sentire distanti e verso la quale può capitare di provare perfino fastidio. Ma che, proprio per il suo essere un “caso particolare”, da parte di chi si interessa, a titolo professionale o perché direttamente o indirettamente coinvolto, di salute mentale, non può essere ignorata. Forse la testimonianza di qualche operatore di seconda linea, infermiere o altro, e di qualcuno dei pazienti dei quali continuamente si parla, avrebbe reso il carattere polifonico dell’almanacco ancora più ricco. Ma esso costituisce comunque, credo, la fedele documentazione di un’esperienza che merita attenzione. I modelli operativi, è vero, non possono oltre una certa misura essere trasferiti come case prefabbricate da un luogo all’altro senza rischiare di apparire fuori luogo, stonare; ma credo che Trieste proponga posizioni trasparenti su questioni imprescindibili della nostra identità, e che questo sia lo stimolo che incontrare quell’esperienza può dare alla crescita professionale di ciascun operatore e non solo.

 

[i] Ed. ab Alphabeta Verlag, Merano, 2015.
[ii] P.F.Peloso, Oltre il muro, con uno sguardo al mondo. Intervista con Franco Rotelli, in: P.F. Peloso, L. Pesce (a cura di), 180: vent’anni dopo, Varazze (SV), Ediz. Redancia, 1998, pp. 145-161.
[iii] G. Del Giudice, … e tu slegalo subito!, Merano, ab Alphabeta Verlag, 2015.Commenti in proposito in: P.F. Peloso, Sulla contenzione. Un contributo bibliografico, Rivista Sperimentale di Freniatria, 140, 1, 2016, pp. 125-132.
[iv] A proposito di questa questione, e dell’importanza e attualità delle parole di Rotelli cfr. in questa stessa rubrica: Nell’area grigia tra psichiatria e giustizia, sta la persona. Pensieri sulla questione OPG, di ritorno da Pontignano.

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