IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale
di Antonello Sciacchitano

La logica e l'infinito

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7 luglio, 2016 - 09:56
di Antonello Sciacchitano
La logica è l’arte di ben condurre la propria ragione per conoscere le cose, tanto per istruire se stessi quanto gli altri. A. Arnauld e P. Nicole, Logica o arte di pensare, 1662

Le bon logicien, odieux au monde. J. Lacan, Le temps logique et l’assertion de certitude anticipée, 1945

Facciamoci caso. In psicoanalisi non si parla molto né molto volentieri di logica. Forse che gli psicoanalisti non hanno i mezzi per parlare di logica? Certo le occasioni per farlo non dovrebbero loro mancare.

Nel Compendio di psicoanalisi (cap. V), pubblicato postumo, Freud ha scritto che l’inconscio è il regno dell’illogica. Matte Blanco ha costruito una bilogica che, se ben capisco, sarebbe la coalescenza di due logiche: l’aristotelica, dove l’uno è diverso dallo zero, e la simmetrica, dove l’uno è uguale allo zero, con un risultato globale incoerente. Lacan ha proposto una logica della sessuazione con enunciati contraddittori del tipo “tutti sono castrati” ed “esiste almeno uno che non è castrato”, dal lato maschile, o del tipo “non esiste una che non sia castrata” e “non tutte sono castrate”, dal lato femminile. Ciò sorprende l’uomo di buon senso. Dal Medioevo lo Pseudo-Scoto ammonisce che, se in un sistema compare una contraddizione, si può dedurre tutto e il contrario di tutto, cioè non è più logico, se è vero che la logica serve a discriminare il vero dal falso (ma chissà se è ancora vero). A ragione Aristotele invocava il principio di non contraddizione come factotum della sua logica. Hegel non imparò la lezione e fondò l’idealismo sulla sintesi dialettica di tesi e antitesi, che afferma ciò che nega. La chiamava Aufhebung per non dire "pasticcio", omofonico a Pfusch in tedesco.

Si pongono, allora, alcune domande. La psicoanalisi avrebbe qualcosa in comune con l’idealismo? Da dove viene la disaffezione degli psicoanalisti per la logica? Perché snobbano l’insegnamento di Port-Royal? Non vogliono pensare bene? Sarebbero idealisti? Un certo lacanismo si dimostra scettico nei confronti degli eccessi dell’intelligenza, ritenendoli più gravi degli eccessi di stupidità, come quelli che stiamo registrando in questi giorni Oltre Manica; si prende troppo sul serio il Witz lacaniano: les non dupes errent, letteralmente, i non babbei sbagliano, ma omofono a il nome del padre. È giustificata diffidenza verso le razionalizzazioni o è semplice ignoranza? Credo che nel caso degli psicoanalisti si tratti di ignoranza, ma non semplice, forse addirittura sofisticata. Vi gioca una forma larvata di resistenza alla scienza in nome di qualche diffuso ideale umanistico, travestito da buon senso.

Azzardo una congettura. Se c’è logica, c’è infinito. Ma all’infinito la civiltà occidentale si è sempre fieramente opposta. Anche alla logica, quindi? Per gli psicoanalisti vale forse la contronominale della mia congettura: niente infinito, niente logica?

La mia congettura rischia di essere falsificata proprio da Aristotele, che formulò una formidabile logica sillogistica (riflessiva e transitiva), la quale resistette tetragona a tutti gli attacchi idealistici per un paio di millenni, fino alla glorificazione algebrica di George Boole (v. L’analisi matematica della logica, 1847, trad. M. Mugnai, Bollati Boringhieri, Torino 1993). A ragione Kant sosteneva che la logica uscì armata di tutto punto dalla testa dello Stagirita come Atena dalla testa di Zeus. Ma al tempo stesso Aristotele espunse l’infinito dalla sua logica, perché inficiava il principio di ragion sufficiente, rendendo impossibile risalire alla causa prima di tutto, il Motore Immobile, per regressione dagli effetti alle loro cause e alle cause delle cause. In estrema sintesi, la logica classica è il regno del finito. La logica aristotelica, infatti, ebbe la finalità precipua di salvare la verità dell’ontologia parmenidea, cioè l’essere che è e il non essere che non è, il primo logicamente vero, il secondo falso, senza sovrapposizioni né casi intermedi. Da allora l’essere gode di una logica originariamente finita, anche nel senso esistenziale heideggeriano dell’essere per la morte.

A mio parere, gli psicoanalisti hanno le loro buone ragioni per stare alla larga della logica. Infatti, nella logica si aggira uno spettro inquietante di cui la civiltà occidentale ha da sempre avuto orrore: l’infinito, come dicevo. L’infinito è l’ombra della logica – “ombra” nel senso dell’archetipo junghiano. Non può essere fatto fuori tanto facilmente: rimosso, ritorna più minaccioso. (Jung nasce freudiano). L’analogia tra infinito e ombra è più che una metafora. L’infinito è un’ombra nel senso che è una nozione senza contenuto empirico, la quale tuttavia condiziona il funzionamento dell’intelletto anche nell’affrontare questioni empiriche. L’infinito regola la logica dall’esterno; funziona come la metafisica che regola la fisica, ma senza essere concettuale come la metafisica. Non è, insomma, l’analogo della Sfinge o dell’Araba Fenice, ma possiede una dose di reale che non è nella realtà. È qualcosa di reale in quanto impossibile; è qualcosa che non cessa di non scriversi mentre si scrive, secondo il vaticinio di Lacan.
A questo punto devo cautelarmi, perché, incline come sono alla polemica, mi sono già troppo esposto. Devo precisare che non sono io a dire che, se c’è logica, c’è infinito. Io mi limito a farlo dire al più grande logico dello scorso millennio: Kurt Gödel.

È del 1932 un suo breve articolo (meno di due pagine) sul calcolo proposizionale intuizionista, una forma di logica non aristotelica proposta da Brouwer assumendo per la negazione il significato di assurdità logica (quindi sospendendo il principio del terzo escluso; cfr. L.E.J. Brouwer “L’inaffidabilità dei principi logici”, 1908). In termini rigorosi (più sottili che difficili) Gödel dimostrò che il calcolo proposizionale intuizionista (ma Brouwer avrebbe criticato il termine “calcolo”) non può essere quello di una logica polivalente, cioè di una logica che adotta un numero finito di valori di verità: da 1, il più vero, a n, il più falso. (v. K. Gödel, Zum intuitionistischen Aussagenkalkül, Anzeiger der Akademie der Wissenschaften in Wien, mathematisch-naturwissenschaftliche Klasse, 69, 1932, pp. 65-66, trad. E. Ballo, “Sul calcolo proposizionale intuizionista”, in Kurt Gödel Opere, vol. I, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 160-161).

In questo testo Gödel dimostra che la logica intuizionista presuppone l’infinito. Come? La dimostrazione di Gödel, nei cui dettagli tecnici non entro, è costruttiva, come vogliono i canoni intuizionisti; costruisce una successione strettamente decrescente di semantiche a due, a tre, … n valori di verità che all’infinito trova un limite nella logica intuizionista. La logica iniziale a due valori (S2) è la logica booleana (già aristotelica). Le successive Sn sono restrizioni duali di quella, sempre più ristrette al crescere del numero n dei valori di verità (o stati epistemici) ammessi. Il limite di tale successione di semantiche, oggi note come algebre di Heyting, è la semantica della logica intuizionista.

Cosa significa “duale” in logica? Significa “simmetrico” rispetto a certe operazioni. Un enunciato è duale di un altro se deriva da quello scambiando l’affermazione con la negazione, l’operatore et con il vel, l’ordinamento maggiore-uguale con l’inverso, il massimo con il minimo e il minimo con il massimo. Sono duali l’una dell’altra, per esempio, le formule di de Morgan, usate da Lacan nel seminario sul fantasma, per dire che l’alternativa “o sono o penso” è la negazione di “non sono e non penso” o, come amava dire Lacan, forzando non poco l’argomentazione: “sono dove non penso e penso dove non sono”. In questo senso la successione delle semantiche Sn di Gödel è una successione di immagini duali della logica classica sempre più ricche di valori di falsità. Procedendo di semantica in semantica, all’infinito la verità ultima approda alla falsità che più falsa non si può, quella dell’infinito appunto. In effetti, la sospensione intuizionista del terzo escluso si può formulare dicendo che un enunciato e la sua negazione possono essere entrambi falsi. L’asserto (A o non A) vale in senso intuizionista solo se o si dimostra A o si dimostra l’assurdità di A (giustificazionismo).

Ecco l’ombra, anzi le ombre, che l’infinito getta sulla logica classica, ombre che si addensano sulla logica intuizionista, perciò non poco osteggiata dall’accademia sin dal suo nascere (come del resto la sua progenitrice, la filosofia cartesiana che supponeva falso tutto il verosimile). Hilbert, il formalista, duellò all’ultimo sangue contro Brouwer, l’intuizionista. Oggi le acque si sono calmate. A livello sintattico per la logica intuizionista sono state formulate diverse assiomatizzazioni distinte ma equivalenti da Kolmogorov, Glivenko, Schröter, Gentzen, Lukasiewicz, Heyting, allievo di Brouwer, Beth, Kleene, De Jong, senza contare il sostegno filosofico di personalità come Poincaré, H. Weyl e Borel. (Per una rassegna completa rimando a M. Dummett, Elements of intuitionism, Oxford Univ. Press, Oxford 1977).

L’intuizionismo è stato definitivamente sdoganato dopo che sono venute alla luce diverse semantiche per la sua logica, ossia modelli che la soddisfano, cioè la verificano. A parte una semantica modale di Gödel (1933), che traduce l’intuizionismo nella logica modale S4 di Lewis, una logica che riduce il necessario al dimostrabile, sono tutte semantiche infinite. C’è la semantica topologica degli aperti di Tarski (1938), la semantica degli alberi della conoscenza di Kripke (1965), la teoria algebrica dei topoi di Grothendieck (circa 1960), la semantica a ventaglio di de Swart (1977). In pratica, bisogna riconoscere che la logica intuizionista è la logica euristica (congetturale) che il soggetto della scienza usa nella propria pratica quotidiana intorno all’oggetto infinito: dimostrare l’assurdità di certe congetture, mantenendole in vita fino a prova contraria. Il fatto è relativamente ben assodato: la logica intuizionista (non bivalente né finitaria) è necessaria a ogni epistemologia giustificazionista. Al cui interno, dopo la mossa di Brouwer, si è data la stura a una quantità considerevole di logiche non aristoteliche, dette genericamente non classiche: modali, epistemiche, deontiche, temporali, lineari ecc. Tutta colpa dell’infinito? È l’infinito che manca alla classicità?

Insomma, l’ombra dell’infinito non si strappa dal pensiero scientifico, ma si allarga in diverse direzioni. Se fossi un pensatore idealista direi che l’infinito è l’essenza della scienza. Ho le mie buone ragioni per evitare l’idealismo, tentando di pensare l’infinito come essenza. Infatti, l’infinito non può essere l’essenza di alcunché, perché è un oggetto non categorico (non concettuale), che ammette modelli non equivalenti, per esempio numerabili e non numerabili. Nonostante considerazioni improprie, legate alla nozione di misura, giustamente gli antichi greci intuirono che l’infinito è apeiron, indeterminato, e ammettevano solo l’infinito potenziale (come Brouwer del resto).

E l’infinito non si strappa neppure dal pensiero psicoanalitico, se è logico.
La mia posizione teorica in psicoanalisi è ormai nota da un ventennio. L’infinito rientra nel pensiero psicoanalitico, nel momento in cui pretende essere logico. Viceversa, convocando l’infinito, ho la pretesa di pensare la psicoanalisi all’interno di una logica pubblicamente accettata. Naturalmente, presuppongo un pubblico – un collettivo di pensiero – non ostile all’infinito. Esiste?
So bene che il punto è delicato. Chi mi legge – almeno uno su due – a questo punto storce il naso; nel mio convocare l’infinito annusa un fumo idealistico (alla Hegel, per intenderci) o religioso. “Dove starebbe di casa questo infinito?” stai per chiedermi, vero? Ricordo con una punta di tristezza che la domanda mi fu effettivamente posta qualche anno fa da una cara amica di Firenze, Giuliana Bertelloni, recentemente scomparsa, che era una dei pochi colleghi interessati all’introduzione dell’infinito in psicanalisi.

Rispondo subito, anzi anticipo: l’infinito abita l’oggetto del desiderio. La logica della psicoanalisi è una logica “oggettuale”, come dicono gli psicoanalisti con un brutto neologismo. La psicanalisi è la logica dell’oggetto infinito del desiderio. Ma di questo alle prossime puntate.

Concludo la presente con una breve ma decisiva considerazione suggeritami da due solerti accademici, uno polacco, Karel Berka, e l’altro tedesco, Lothar Kreiser dell’Università di Lipsia, di cui riporto nel poscritto le prime due pagine della loro introduzione a un’antologia di scritti moderni di logica. Al loro seguito mi pongo la domanda: perché porre questioni di logica in una rubrica che tratta del soggetto collettivo? La risposta dei due autori è tanto semplice quanto sfuggente: perché la logica tratta l’insieme non vuoto dei pensieri comunicabili, die mitteilbare Gedanken. Sono per eccellenza comunicabili le tautologie, sempre vere in ogni condizione, come il principio di identità e non contraddizione, perché non hanno contenuto empirico. Ma sono comunicabili anche le congetture empiriche né vere né false su cui lavorano gli scienziati nei loro collettivi, dedicati a “cose epistemiche” prima che a cose empiriche. Comunque, la logica non tratta i pensieri incomunicabili del misticismo e dell’idealismo metafisico. Ricordo che “comunicare tutto”, alles mitzuteilen, è la regola freudiana fondamentale della psicoanalisi, originariamente “collettivizzante”, come avrebbe scritto Bourbaki (nome fittizio per un autore collettivo) nelle prime pagine della sua Teoria degli insiemi. Insomma, se a livello teorico esiste una scienza delle comunicazioni, essa rientra nel campo della logica in quanto “scienza” dell’infinito.

La logica ha poi praticamente diritto di ospitalità in una rubrica sul collettivo come questa perché qui non si tratta di pensieri in quanto pensati da un autore o da un maestro e imposti all’orda degli adepti, ma di pensieri effettivi su un oggetto indisponibile come l’infinito, circolanti in un collettivo reale di soggetti intercomunicanti, che li convalidano o li confutano. Si tratta di pensieri in quanto bene comune di un collettivo di pensiero; sono pensieri trattati per il loro valore intrinseco e non per il loro marchio di fabbrica o per la firma dell’autore – nel vero pensiero valore d’uso e valore di scambio coincidono. Morale per gli utenti di questo blog: quando si dice democrazia, si pensi all’infinito. È una regola pratica per non fare della demagogia.

* * *

Da Per la storia della logica, in Karel Berka e Lothar Kreiser, Logik-Texte. Kommentierte Auswahl zur Geschichte der modernen Logik. Akademie-Verlag, Berlin, 1986, p. 1.

 Nel nostro secolo la comprensione del logico si è modificata in modo profondo. Per quanto riguarda la grande quantità di temi che fino agli anni Trenta rientravano, come se fosse ovvio, sotto il titolo di “Logica”, questa modifica sembra oggi la radicale potatura di un albero; non mancano voci secondo cui mani abusive avrebbero piazzato seghe e forbici nel posto sbagliato (cfr. B.G. Jacoby, Die Ansprüche der Logistiker auf die Logik und ihre Geschichtsschreibung (“Le pretese dei logistici sulla logica e il loro modo di scrivere la storia”), Stuttgart 1962). Per rimanere nella metafora, come dice H. Scholz (Geschichte der Logik, (“Storia della logica”), Berlin 1931, 2° ed., p. 21), non a causa dei suoi frutti ma per il rigoglio del fogliame, che spuntava dall’arido legno, il tronco della logica cresciuto nei millenni, le cui radici principali affondavano nella cerchia culturale degli antichi, rischiava di disfarsi e perdere la propria forma nel vento tempestoso del nuovo sviluppo della conoscenza scientifica. Solo a prima vista emergenti dall’arida sterpaglia del calcolo, il nucleo ligneo butta fuori uno dopo l’altro rami carichi di frutti, che chiarificazione dopo chiarificazione soddisfano a pieno i principi delle nuove forme creative. La questione dei principi delle nuove forme creative, la questione per così dire della natura naturata, obbliga a uscire dalla metafora. Detta in breve la questione è: come si possono riferire alla logica i risultati di conoscenza acquisiti in passato e al presente, ivi compreso il processo di fondazione, in una classificazione aperta anche al futuro? La risposta dipende dalla comprensione del logico, che non si dà una volta per tutte al di fuori della sua conoscenza specifica.

H. Scholz dedusse i criteri per determinare la collocazione storica della logica dalla sua ultima forma evolutiva, la logica matematica o logistica, che per lui valeva come la forma attualmente più matura del logico (ibidem). Così la storia della logica diventa la preistoria della logistica. Non si può negare una certa giustificazione a questo punto di vista. Basta solo non intendere retrospettivamente il processo storico come semplice ripartizione di un certo numero di personalità appiattite su un certo piano, con la dimensione del tempo da una parte e dall’altra l’avvicinamento progressivo delle concezioni logiche alla logistica. Non si può attribuire a H. Scholz tale piatta concezione della storia. Per contro, almeno nel lavoro citato, l’autore non è sfuggito del tutto a un’altra insidia. Dal punto di vista del problema temporalmente determinato – ma quale altro se ne può avere? – è molto facile sopravvalutare il presente, ma senza arrivare a riconoscere gli aspetti rilevanti del logico stesso. In Scholz è il calcolo che minaccia di trasformarsi da strumento in vero e proprio oggetto della conoscenza logica. Ma come ci è dato il logico?

Al logico non ci si può riferire come a qualunque altro oggetto che faccia scattare la nostra percezione. Empiricamente non dipende da una teoria che mostri di dominare la conoscenza. Riguardo a ciò, si dice che la teoria T ha come oggetto il logico se i teoremi di T sono asserzioni sensate su un insieme non vuoto di pensieri comunicabili, formulati in qualche modo linguistico, con certe proprietà e certe relazioni tra tali proprietà, in modo che o tutti i teoremi di T sono asserzioni vere su proprietà distinte in modo univoco o le proposizioni di T sono secondo il loro senso asserzioni su una n-pla di teorie di tipo già definito (n ≥ 1). Si dice che una teoria del primo tipo è una teoria logica empirica, mentre una teoria del secondo tipo, in cui si enuncia almeno una teoria logica empirica, si dice che è una teoria logica astratta o anche teoria metalogica. Se il contesto consente di prescindere da questa distinzione, si parla chiaramente di teoria logica. Due teorie logiche empiriche T1 e T2 sono equivalenti se e solo se esiste un isomorfismo tra le due tale che i teoremi di T1 e T2 si corrispondono in modo biunivoco. Il logico si distingue, quindi, per la capacità di riconoscere differenze di valore tra teorie logiche empiriche.

Essenziale per la definizione data di teoria logica è che il logico sia collegato a pensieri in qualche modo comunicabili (sottolineatura mia).

Ciò non esclude che un calcolo sviluppato come mezzo d’espressione linguistica possieda un modello (cioè un’interpretazione che la soddisfi) anche in altro campo esterno al pensiero; infatti, questo linguaggio non corrisponde per nulla alla determinazione data del logico; è solo l’applicazione sintattica di una forma del logico. La presenza di interpretazioni di un calcolo in un campo di pensieri e in un campo che non contiene alcun pensiero (ma, per esempio, interruttori elettrici), dice dal punto di vista cibernetico che in campi differenti esistono leggi di distribuzione e di regolazione della stessa natura. Si può perciò anche fare in modo che attraverso l’analisi di procedure in campi che non sono di pensiero (ma di puri simboli linguistici, considerati come semplici formazioni materiali) si possa arrivare in vista del logico. Il procedimento funziona unicamente perché chi lo costruisce ha già sul logico un’ipotesi metalogicamente formulata, da cui si lascia condurre.
 

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