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CORPO E CITTA’: spazialità e corporeità dei dispositivi disciplinari in occasione del G8 genovese. 15 years later – Parte III

21 Lug 16

A cura di chiclana

Segue da parte I e parte II (vai all'inizio).
 
La violenza e lo sguardo: il ribaltamento del rapporto.

 
E gli otto potenti, per contendere visibilità ai quali tutto questo stava accadendo? Li abbiamo visti fin dall'inizio scomparire, ingoiati nel silenzio adialettico della loro gabbia chilometrica, prigionieri di un protocollo previsto e prevedibile, a lesinare quattro spiccioli di elemosina maldestramente gabbati per solidarietà[i]. Li abbiamo visti irrompere a tratti nella cronaca televisiva degli  avvenimenti di piazza, a interromperla fastidiosi come gli spot pubblicitari. Perché la scena era innegabilmente altrove, nelle vie e nelle piazze rumorose, abitate e combattute del basso Bisagno, contrapposte all’assordante silenzio del Centro ingabbiato. Sul piano mediatico, il presidente Berlusconi è scomparso dietro un sorriso destinato a divenire via via più dissonante e inadeguato, e con lui Bush e tutti gli altri, spietatamente oscurati dal movimento, la sua numerosità, i suoi colori, e purtroppo anche la tragedia delle devastazioni, la morte di un ragazzo, le botte, i lacrimogeni, le cariche, il sangue, sangue sui visi, sangue sulla strada. In questa sottrazione di scena, pagata a duro prezzo, sta certo la sonora sconfitta del G8; chi aveva il compito dell’ordine pubblico deve aver avvertito il rischio che qualcuno avrebbe pagato con il posto, e anche questo può aver contribuito alla sua frustrazione e al nervosismo.
 
Il sacrificio di Carlo Giuliani ha avuto il senso di smascherare d'altronde, riproducendolo in modo purtroppo più realistico e reale di quanto chiunque avrebbe voluto, il fondo lugubre del rituale che nel cortile di Palazzo Ducale si stava consumando, la concretezza del dominio e del disequilibrio: la sproporzione – quella sproporzione che "è" il Potere – tra l'eventuale lancio di un estintore e lo sparo di un revolver nelle strade di Genova, che ripropone sullo scenario globale quella del confronto tra una fionda e un carro armato o un missile per le strade di Nablus e di Ramallah, o quella tra il furto di un'autoradio da parte di un tossicodipendente e lo sparo di un metronotte in qualsiasi strada del mondo. Carlo Giuliani non è la prima vittima di questa globalizzazione dei capitali e delle merci a dispetto del rigoroso vincolo dei corpi al loro destino economico-sociale con le leggi antimigrazione; altri lo hanno preceduto in Brasile, Bolivia, nelle periferie del mondo[ii]. Ma la concreta visibilità di quel corpo sul selciato di una città dell'Occidente ha svelato il tema di fondo di quella riunione di pre-potenti, nascosto dietro ai sorrisi, le facce patinate e i patetici discorsi da chierichetti del globo: come proseguire cioè la guerra che governa il mondo, guerra stellare, guerra commerciale e guerra quotidiana. Il suo corpo era in quel momento il corpo di un uomo di colore legato a forza sulla sedia della morte in una prigione texana, o uno dei corpi sterminati per fame, tubercolosi o AIDS nelle bidonville dell'Africa, dell'America latina o dell'Asia. E la sua ingombrante presenza rendeva più che mai attuale quanto, all'indomani della morte del Che, Franco Basaglia[iii] scrisse: che il corpo di Guevara continuasse, muta testimonianza, ad essere «mortificato, violentato e offeso dai suoi nemici come lo era in vita. Vogliamo che si continui a ritenerlo il corpo della violenza, il corpo sfacciato della rivoluzione che continua ad esistere – oltre la morte – finché c'è violenza e sopraffazione».
 
La morte è piombata assolutamente inattesa sui cortei, e ciascuno si è sentito pervaso da un sentimento profondo di amarezza e di ulteriore ingiustizia. Solo il senso di responsabilità dei manifestanti ha consentito loro di contenere la rabbia e continuare a credere nel senso della manifestazione democratica del proprio desiderio di esserci, limitandosi a un poderoso grido di dolore, di testimonianza e di rimprovero, "Assassini!", che prorompeva spontaneo destinato a chiedere – certo con la genericità, l'approssimazione e l'aggressività propri di uno slogan – a ciascuno dei partecipanti al G8 o alla sua difesa armata di riflettere sui propri atti e il significato e i modi della propria presenza. Solo la capacità e il senso di responsabilità dei portavoce del GSF – e particolarmente di quelli delle sue componenti più radicali, maggiormente in grado di parlare ai sentimenti più immediati di disillusione e alle istanze più urgenti di rivalsa – hanno saputo con un'assemblea di straordinario valore democratico impedire che la rabbia immediatamente dilagasse. Dall'altro lato, non si è avvertita la necessità di nessun segno di resipiscenza: non certo la sospensione, che sarebbe stata la sola risposta proporzionata allo spegnersi di una vita umana. Ma neppure un'ora di sospensione dei lavori, in segno di umanità: lo spettacolo del mercato non ha potuto interrompersi per un effetto collaterale – non lo si è detto ma lo si è chiaramente dimostrato – marginale e trascurabile. La macchina non poteva rallentare: ha proseguito il suo ritmo automatico e brutale, indifferente a questo corpo stritolato come alle dita di un operaio nell'ingranaggio di una pressa. La prima effimera reazione delle Forze dell'ordine è stata il  tentativo di nascondersi dietro una menzogna (quella del sasso), nella speranza che ciò si dimostrasse sufficiente, e in altri tempi e circostanze probabilmente sarebbe bastato. Quella dei leader del G8 – solo la Francia ha saputo distinguersi per un minimo di moderazione e di buon gusto – e del governo italiano, soprattutto nelle sue componenti più faziose, è stata l'urgenza di schierarsi e fare quadrato, pronti a giustificare il fatto che si ritornasse a pestare, ed eventualmente sparare, l'indomani. 
 
Abbiamo seguito nelle parole di Foucault i passaggi attraverso i quali la vista del corpo straziato nel supplizio era divenuta gradatamente intollerabile alla coscienza civile dell’Europa e il suo nascondimento ha rappresentato uno dei due aspetti di novità che la nascita della penalità carceraria introduceva. Questo copione appare rispettato tanto a Bolzaneto che alla Pertini, dove chi ha colpito lo ha fatto dietro al muro e nel buio della notte, e si è cercato persino di restaurare con la maldestra aggressione al centro stampa del GSF per quel che riguarda la violenza sui cortei. L’insieme dei fatti di Genova, tuttavia, propone con il proprio inarrestabile torrente iconografico e la diffusione in tempo reale grazie a un sapiente utilizzo di internet, un rapporto tra sguardo, potere e violenza sostanzialmente ribaltato rispetto allo scenario del supplizio: la visibilità del corpo suppliziato non comunica più la forza e la perfezione del Potere, ma semmai la sua debolezza e la vergogna. La cospicua produzione d’immagini e testimonianze, lo sforzo di verità e l'intuizione di questo ribaltamento rappresentano dunque l'elemento di modernità del quale al GSF deve essere dato atto. Perché quest’operazione di verità potesse avere luogo, tutto doveva assolutamente svolgersi, in senso non solo metaforico, alla luce del sole, e così è stato a Genova: tra un giorno e l’altro abbiamo assistito all’irreale silenzio delle notti, i manifestanti nelle proprie case o nei campi di accoglienza; quelli del blocco nero a propria volta obbligati al riposo dal ritiro del gigante, solo parassitando il quale potevano colpire; le Forze dell’ordine nelle caserme o, in piccolo numero, fuori, a presidiare pigramente le strade ormai deserte. L’assoluta maggioranza dei manifestanti, poi, ha lottato in quei drammatici tre giorni a viso scoperto: coperti, insieme a pochi violenti, dietro ai caschi privi di matricola o ai fazzoletti per quel che riguarda i ranghi subalterni, o nell’indecoroso rimpallo dei ruoli e delle responsabilità per quelli superiori, irriconoscibili l’uno dall’altro e davvero clandestini, sono stati invece a tutti i livelli gli uomini delle Forze dell’ordine che hanno violato la legge e i responsabili politici del loro operato.
 
Il carattere internazionale della manifestazione e l’attenzione che da tutto il mondo era puntata su di essa hanno rappresentato a propria volta un fatto nuovo per Genova e l’Italia, e certo hanno a queste operazioni di verità contribuito in modo ampio. Se qualcuno puntava al G8 genovese per divulgare l’immagine tranquillizzante della nuova Italia come nazione potente e progredita della cui fedeltà l’Occidente e l’Europa potevano andar fieri, attraverso un clamoroso denudamento del re ha ottenuto un risultato di segno totalmente opposto: l’immagine che è girata per il mondo è quello di una nazione che si è dimostrata incapace di garantire l’ordine pubblico con gli strumenti della democrazia, caratterizzata da un governo e da settori importanti delle Forze dell'ordine in grado di reagire alla propria inefficienza solo riproponendo con ferocia la cultura e lo scenario di prima del 1945, tragica riedizione a loro volta dei dispositivi di presa sul corpo caratteristici dello “splendore dei supplizi” e della sua tracotante esibizione dell’assoluto del Potere.
 
Dopo Genova: alcuni nodi prioritari nel panorama italiano.
 
Rimangono oggi, all'indomani degli eventi, l’amarezza per una vita stroncata sui vent’anni, per tanti corpi straziati dal dolore e umiliati; ma, se il quadro si confermerà quello inquietante che è stato abbozzato sulla stampa, rimangono soprattutto alcuni nodi prioritari da affrontare.
– La preoccupazione – e alcuni dei leader della protesta a partire da Walden Bello ne hanno sottolineato l’importanza – che, in prossime occasioni, misteriosi uomini coperti di nero possano attraversare di nuovo le strade del movimento e finire per renderle inagibili, funzionando da elementi confondenti che regalano alla cultura della violenza di Stato il pretesto per riproporsi e al Potere quello per ritornare a esplicitarsi, anche in un paese dell’Europa, come presa violenta che, fallito il controllo dello spazio, è pronta ad avvinghiarsi al corpo con inutile e disperata crudeltà. Non sarà certo facile, ma individuare strategie capaci di impedire infiltrazioni esterne e derive al proprio interno rappresenta oggi un passaggio ineludibile per il movimento.
– La necessità, per tutti, di continuare a confrontarsi con l’evento “Genova”, partendo dalla messa fuori legge dei "tonfa", per la loro pericolosità innanzitutto, ma anche perché la presa di coscienza dell'insensatezza del loro utilizzo sia per tutti gli appartenenti alle Forze dell'ordine un segno inequivocabile di ciò che loro è richiesto, cioè efficienza nella tutela della democrazia e non atti di ferocia, che con l'efficienza nulla hanno a che fare.
– L'esigenza di un accertamento delle responsabilità individuali per atti di violenza, tra i manifestanti come tra gli agenti e i funzionari, come garanzia democratica per tutti e premessa indispensabile a una riconciliazione tra le Forze dell'ordine – delegittimate dal comportamento incivile di alcuni dei propri appartenenti, e non certo dalle doverose inchieste della Procura genovese – e la gente. Preoccupa aver visto i sindacati della Polizia subito corporativamente ripiegati in una pregiudiziale autodifesa a onta dei fatti e delle immagini, ma preoccupa di più aver visto molti soggetti politici, per di più con responsabilità di governo, impegnati in un giustificazionismo assoluto per chiunque fosse in divisa, quando non addirittura in tentativi di intimidazione della Magistratura, senza rendersi conto della pericolosità dell'esistenza in un paese democratico di corporazioni comunque intoccabili, intoccabili perché se ne ha paura o perché si pensa faccia più comodo averle dalla propria. Tanto più quando a queste corporazioni sono delegati il monopolio dell'uso delle armi e il compito di un uso ragionevole, proporzionato e mai distruttivo nei fini, della forza fisica in nome di tutti, due deleghe che ne rendono gli atti illegali infinitamente più gravi rispetto a quelli di qualsiasi altro cittadino.
– L'urgenza di un accertamento, da parte dell'Ordine dei Medici di Genova o altri se coinvolti, delle responsabilità dei propri appartenenti, e l'eventuale adozione tempestiva di provvedimenti inequivocabili qualora si riscontrassero comportamenti contrari alla deontologia.
– Il bisogno di una esplicitazione, in sede politica, delle responsabilità morali di chi, quantomeno attraverso la perenne aggressività dell'atteggiamento e un'enfasi sproporzionata sull'ordine pubblico rispetto alla democrazia, o forse persino in modo più diretto, per questa evoluzione dei fatti genovesi ha costruito in questi anni il terreno di coltura.
– Il fatto che lo scioglimento del GOM della Penitenziaria e degli altri corpi speciali di PS coinvolti nei fatti genovesi non rappresenti né un tabù né una crociata, ma un'ipotesi da valutare con serenità, perché non si comprende quale utilità potrebbero avere – qualora le testimonianze si dimostrassero veritiere – per la tutela dell'ordinamento democratico settori dei corpi di polizia che oltre a pestare violentemente, torturare e umiliare obbligassero i fermati a cantare Faccetta Nera, salutare romanamente e inneggiare al razzismo e a Pinochet.
– La documentazione dei fatti e la diffusione di immagini e testimonianze – nelle quali "i corpi tumefatti e i manganelli inferociti son posti in un nesso causale diretto e orribile che riporta l'immagine del controllo all'incubo del supplizio"[iv] – in tempo reale si sono dimostrati a Genova l'unica garanzia democratica possibile. Deve pertanto essere respinta con fermezza l'aberrante richiesta che notizie di stampa attribuiscono a un sindacato di polizia, il Li.Si.Po., che fotografi e giornalisti siano allontanati quando le Forze dell'ordine entrano in azione. Ma deve soprattutto essere profuso da tutti il massimo sforzo per la libertà e il pluralismo dell'informazione, e perché la professionalità che i cronisti hanno dimostrato nelle giornate genovesi possa continuare a trovare lo spazio e la visibilità che le sono indispensabili.
– Le forze democratiche dovrebbero infine smetterla di inseguire i settori più retrivi della destra sul terreno della sicurezza, ma elaborare un proprio modello di ordine pubblico che preveda davvero la tutela del ministro che partecipa a un vertice internazionale quanto quella del cittadino che intende contestarlo; quella del grande proprietario quanto quella del nullatenente; quella del lombardo quanto quella del marocchino. Contestualmente, dovrebbero lavorare a promuovere tra gli appartenenti alle Forze dell'ordine il concetto che l'ordine pubblico trova senso nell'essere strettamente vincolato ai valori della democrazia, e non deve mai costituire un valore in se stesso assoluto e definitivo. "Sapere qual è il tasso di democrazia di carabinieri e polizia è di nuovo, come ai tempi di De Lorenzo" – scrive Giulietto Chiesa (cit., p. 75) – "una questione vitale per il futuro dell'Italia".
 
Solo attraverso questi passaggi, la lotta per l’affermazione di rapporti più giusti tra le persone in sede internazionale potrà forse seguire in futuro cammini un po’ meno dolorosi e percorrere strade meno insanguinate nella terra dei Verri e Beccaria.
 
 
2001-2016. 15 anni dopo: another word was possible?
 
Sono passati 15 anni da quelle tumultuose giornate del luglio 2001 e una domanda mi pare che oggi s’imponga: un altro mondo è stato possibile? Credo di no, o se sì, è decisamente un mondo peggiore. Credo che questo dimostri come la domanda di un altro mondo, migliore, che la moltitudine scesa in piazza a Genova rivolgeva agli otto grandi fosse una domanda colma di urgenza e di significato. La scelta di non prenderla neppure in considerazione ha avuto le conseguenze devastanti che ci sono ogni giorno sotto gli occhi.
Nei giorni del G8 sono accadute a Genova cose che, ragionandoci a 15 anni di distanza, paiono surreali, incredibili. Appare incredibile, ripercorrendo oggi quelle strade dove “viaggia il traffico solito, scorrendo rapido e irregolare” (Guccini), che esse – automobili, bancomat, vetrine – siano state per due giornate abbandonate al saccheggio della (piccola) parte più adolescenziale, superomista e irresponsabile del movimento, in un’ubriacante illusione di anarchia. Mentre “un pensionato ed un vecchio cane” magari passeggiavano lì accanto, senza timore. Ancora più surreale e angosciante si avverte la carica di ferocia che dal seno delle forze dell’ordine di una Repubblica europea nata dalla Resistenza ha potuto sprigionarsi per le strade, alla scuola Diaz-Pertini e a Bolzaneto. La foga, la rabbia e la passione con le quali si vedono nei video alcuni poliziotti, carabinieri, finanzieri accanirsi a picchiare persone intrappolate, inermi, spesso già sanguinanti lasciano allibiti. Come pure il fatto che l’accertamento dei fatti e delle responsabilità sia stato ostacolato in modo così pervicace e arrogante e reso solo in minima parte possibile, nonostante il nobile e ostinato impegno della Procura genovese, e ricordo il PM Enrico Zucca in particolare.
Questa impudente impunità, che ha riguardato anche il personale medico al cui coinvolgimento abbiamo già fatto riferimento, oltre a dimostrare un’incapacità dello Stato a criticare se stesso (che in democrazia non è mai buona cosa), costituisce una grave insidia in primo luogo proprio per chi apparentemente se ne è avvantaggiato, e poi per la società nel suo complesso; la straordinaria capacità di approfondire aspetti psicologici e ricadute sociali di questo fenomeno, che Dostoëvskij dimostrava scrivendone nelle Memorie di una casa di morti del 1862, dovrebbero essere di monito:
 
«Chi ha provato una volta questo potere, questa illimitata signoria sul corpo, il sangue e lo spirito di un altro uomo come lui, fatto allo stesso modo, suo fratello secondo la legge di Cristo; chi ha provato il potere e la possibilità senza limiti di infliggere il supremo avvilimento a un altro essere che porta su di sé l'immagine di Dio, costui, senza volere, cessa in certo qual modo di essere padrone delle proprie sensazioni. La tirannia è un'abitudine; essa è capace di sviluppo, e si sviluppa fino a diventare malattia. Io sostengo che il migliore degli uomini può, in forza dell'abitudine, farsi ottuso e brutale fino al livello della bestia.  Il sangue e il potere ubriacano: si sviluppano la durezza di cuore, la depravazione; all'intelligenza e al sentimento si fanno accessibili e infine riescono dolci le manifestazioni più anormali.  L'uomo e il cittadino periscono nel tiranno per sempre, e il ritorno alla dignità umana, al pentimento, alla rigenerazione diviene ormai quasi impossibile per lui. Inoltre l'esempio, la possibilità di siffatta licenza agisce in modo contagioso anche su tutta la società: un simile potere è tentatore. La società che assiste con indifferenza a un simile fenomeno è già infetta essa stessa nelle sue fondamenta. Insomma il diritto della punizione corporale concesso a un uomo su di un altro è una delle piaghe della società, e uno dei più forti mezzi per distruggere in essa ogni germe, ogni tentativo di civile libertà, ed è premessa sicura del suo immancabile e ineluttabile sfacelo».
 
Credo che gran parte dei fascismi trovi la sua comprensibilità in queste antiche considerazioni.
Sul piano della ricostruzione storica è andata meglio rispetto a quello della sanzione giudiziaria, amministrativa e politica. La produzione documentaria (video, libri ecc.) è iniziata subito dopo i fatti e non ha ancora avuto termine[v]; ai giorni del G8 genovese e al cuore repubblicano e ribelle della città di Paolo da Novi, di Balilla e di Mazzini, del 25 aprile ‘45 e del 30 giugno ‘60, Francesco Guccini ha dedicato una canzone robusta e bellissima, Piazza Alimonda (2004). Genova che capì subito da che parte stare: le coraggiose mani sconosciute a dare dalle finestre indicazioni, e ad aprire per subito richiudere usci che a molti in fuga dalle cariche furono provvidenziali. 
Il film Carlo Giuliani, ragazzo di Francesca Comencini (Italia, 2001) è il dialogo tra due madri sulla morte di un ragazzo e in mezzo a loro “scorrono le folle che invasero Genova per essere pietra d'inciampo alla riunione dei signori del mondo, per essere pietra d'angolo di una nuova casa-mondo”; Black Block di Carlo Augusto Bachschmidt (Italia, 2011) è la raccolta di sette testimonianze semplici, commuoventi, scioccanti, profondamente umane; Diaz. Non pulire questo sangue di Daniele Vicari (Italia, 2012), nonostante qualche critica forse ingenerosa della quale è stato oggetto, ha più l’aspetto del prodotto artistico, capace dunque di trasmettere al grande pubblico – e questo è importante – l’orrore, la violenza, le emozioni di quanto si è verificato alla Diaz-Pertini e a Bolzaneto. Immagini e testimonianze destano ancora, appunto, a 15 anni di distanza, angoscia, sgomento, terrore.
Ricordo inoltre la pubblicazione, sulla XLVII annata (2013) della rivista Psicoterapia e scienze umane (pp. 423-442) di un articolo di Adriano Zamperini e Marialuigia Menegatto, entrambi dell’università di Padova, dal titolo La violenza collettiva e il G8 di Genova. Trauma psicopolitico e terapia sociale della testimonianza. Oltre a contenere una sempre utile testimonianza di ciò che incredibilmente poté accadere in quei giorni, mi pare che esso manifesti una volta di più la difficoltà di trovare parole utili a descrivere ed essere d’aiuto, in quelle situazioni di radicale violenza e ingiustizia nella quali lo sgomento e il dolore impressi come un marchio a fuoco nel corpo proprio, nella storia personale e nell’esperienza vissuta con la loro disarmata evidenza, rischiano di far sentire inutile e ingombrante ogni ulteriore articolazione discorsiva.
Quella che Amnesty International ha definito la più grande sospensione dei diritti umani in un paese occidentale dal 1945 è una dolorosissima lacerazione nella storia dell’Italia democratica destinata a rimanere aperta e a continuare a interrogare fastidiosa, la “traccia aperta di una ferita” (Guccini). Peraltro, a 15 anni dal G8, la trasformazione in legge della convenzione ONU contro la tortura del 1984, ratificata nel 1988, continua a trovare ostacoli e, se lo sarà, si va delineando una versione più timida e omertosa di ciò che l’ONU chiederebbe. Ed è significativo che proprio in questi giorni del quindicesimo anniversario dei fatti del G8 il disegno di legge abbia subito un ulteriore rinvio.
Il 17 marzo 2015 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ha condannato il ritardo nell’adeguamento della legislazione italiana alla Convenzione proprio in merito a uno dei fatti della Diaz, esplicitamente qualificato in quell’occasione come “atto di tortura”. La Corte, che si è basata sulle sentenze emanate dalla Magistratura italiana nei tre ordini di giudizio, ha inoltre disapprovato in quell’occasione l’impossibilità di identificare mediante un codice i singoli partecipanti all’operazione, si è rammaricata del fatto che «la polizia italiana si sia potuta rifiutare impunemente di fornire alle autorità competenti la collaborazione necessaria all’identificazione degli agenti che potevano essere coinvolti negli atti di tortura», ha criticato l’entità delle pene di fatto comminate proprio in relazione all’inadeguatezza della legislazione italiana a punire in modo proporzionato i comportamenti qualificabili come tortura in base alla Convenzione, lamentato la mancata sospensione dei funzionari pubblici imputati di atti di tortura nel corso del procedimento penale, e relativamente all’evoluzione della loro carriera dopo le condanne «prende atto del silenzio del Governo al riguardo nonostante la domanda di informazioni espressamente formulata».
Parole che suonano vergognose, mi pare, per le istituzioni italiane; avvilenti davvero. Immeritatamente vergognose anche per il popolo italiano. Pagine che rendono poi imbarazzante e difficile, credo, per l’Italia fare la voce grossa quando un italiano viene spietatamente massacrato dalle istituzioni di un altro Paese, o quando in altri Paesi si assiste a violazioni dei diritti umani, certo, di altro livello anche rispetto a quelle, pur gravi, avvenute a Genova in quelle tristi giornate. E se poi abusi vengono lamentati oggi sui migranti bloccati  a Ventimiglia, cosa si deve pensare?
Credo che la sensazione di irrealtà, sgomento, terrore che oggi coglie nel rivedere e riascoltare quelle scene di sangue – un sentimento fisico di vuoto, annichilimento, disperazione che corrisponde all’esperienza di poter essere in balia della violenza e dell’arbitrio dell’altro – sia alla base di un desiderio generalizzato ma pericoloso di rimuovere i fatti, non saperne più cogliere fino in fondo la gravità con la sensazione di una cosa troppo grande per essere stata vera. E insieme rimuovere la domanda angosciante che si ha paura, forse, di farsi: quale misteriosa forza esiste oggi in Italia dietro lo strato pubblico della politica, che ha potuto rendere i responsabili di quegli atti a tutti i livelli decisionali, nonostante l’avvicendarsi dei governi, invulnerabili alla sanzione giudiziaria? 
Quanto al “movimento”, esso ha continuato dopo Genova a riunirsi e a promuovere esperienze importanti dal basso, dall’Asia all’America latina, dove ha probabilmente contribuito all’affermarsi di esperienze progressive in gran parte del continente, effimere esperienze che hanno fatto sperare per una breve stagione e hanno consentito l’inizio di un minimo di ridistribuzione della ricchezza, ma oggi paiono ritornare a soccombere sotto il peso di una nuova offensiva conservatrice.
In Palestina continua, intanto, nell’indifferenza del mondo il lento ma inesorabile arretramento della popolazione araba e lo stillicidio quotidiano di giovani vittime in un territorio illegalmente occupato e conteso casa per casa, palmo per palmo dalla maggiore potenza militare dell’area a un popolo quasi inerme. Negli Stati Uniti, gli afroamericani hanno una probabilità di morire per mano della polizia o di essere incarcerati molto più elevata rispetto ai concittadini di pelle bianca[vi]. Nelle e tra le repubbliche dell’ex Unione Sovietica sono esplose in questi 15 anni guerre fratricide, che rimangono in gran parte temporaneamente come congelate e sempre pronte a riesplodere.
Ma il mondo è peggiorato da allora soprattutto nello dimensione più globale, quella della guerra e della cronaca di macelleria quotidiana alla quale abbiamo ormai fatto l’abitudine (purché, ovviamente, sia là, da loro e non qua[vii]). Mentre gli otto “grandi” discutevano a Genova, ingabbiati e superprotetti, la storia era già gravida a loro insaputa del crollo delle Torri gemelle, un evento solo il giorno prima inimmaginabile destinato a trasformare radicalmente il mondo e a rendere le cose discusse in quel vertice, qualunque esse siano state, da subito obsolete. La reazione occidentale ha investito per primo l’Afghanistan degli ex alleati antisovietici, i talebani, dando inizio a una guerra che quindici anni dopo non si è ancora interrotta. Nel frattempo la guerra, come un angelo sterminatore, ha investito l’Iraq, la Siria, la Libia, lo Yemen seminando devastazione e destabilizzazione. Non ha risparmiato operatori sanitari e feriti, massacrandoli anche negli ospedali, a partire da Kunduz in Afghanistan, mai poi ad Aleppo e in altre aree della Siria, e nello Yemen. Le bombe occidentali, insieme ad ambiguità, doppiopesismi, deportazioni amministrative, torture e umiliazioni ampiamente documentate hanno contribuito a evocare per contrasto dal seno dei settori più retrivi del mondo islamico una ferocia di altri tempi, che in maggior parte si manifesta in guerre fratricide ma – seppure solo in minima parte (quella però della quale qui ci accorgiamo di più) – colpisce anche l’Occidente seminando stragi di uomini, donne, bambini resi vulnerabili dall’essere innocentemente riuniti nei luoghi dell’assembramento e del divertimento. Il fascismo in clima islamico, stretto alleato dell’Occidente insieme alle feroci arcaiche petromonarchie del Golfo, si è imposto in Egitto e in Turchia, di nuovo a prezzo di massacri contro una parte, discriminata su base politica o etnica, della popolazione civile. Da 15 anni la fetta del mondo che va dalle coste occidentali dell’Africa alla penisola indiana, che aveva visto l’alba della civiltà, è entrata in uno stato di perenne ebollizione e non trova pace, pagando un prezzo di sangue davvero spaventoso.
Non solo. La prima giornata della contestazione al G8 era stata caratterizzata dal tema dell’accoglienza ai migranti: sembrava un fenomeno nuovo allora ma, guardandoci indietro oggi, era solo un inizio. Gli stranieri regolarmente residenti in Italia in quel lontano 2001 superavano di poco il milione, oggi sono più di cinque milioni. Solo una minoranza dei migranti in arrivo in Italia sospinta dalla guerra e la miseria arriva attraverso la micidiale rotta del Canale di Sicilia, considerata in questo momento la frontiera più pericolosa e letale al mondo, ma anche in questo caso le guerre in Siria e in Libia hanno aumentato in modo esponenziale i tentativi di traversata. Di fronte a questa massa in arrivo l’Europa si è rivelata luogo inospitale, altro che diritto di asilo[viii]! Muri e reticolati hanno reso di fatto impraticabile la via dei Balcani, meno pericolosa e non ci si fa scrupolo di riconsegnare i malcapitati arrivati e respinti nelle mani del fascista Erdogan, come ieri l’Italia li riconsegnava a Gheddafi chiudendo gli occhi su cosa poi ne avrebbe fatto. Organismi internazionali come Medici Senza Frontiere hanno condannato l’Europa per questa scelta pilatesca. Con sempre maggiore frequenza, nella massima indifferenza, di migrazione si muore. Secondo stime affidabili le persone morte nel tentativo di attraversare le frontiere in tutto il mondo negli ultimi 15 anni supererebbero 40.000; quelle perite nel tentativo di attraversare il Mediterraneo che separa nord e sud del mondo sarebbero circa 30.000, circa un terzo delle quali nel Canale di Sicilia. Ad esse dovrebbero essere aggiunti i morti nel deserto e per gli stenti, che non sono neppure arrivati a vedere la costa africana per l’imbarco. Tutti morti evitabili, morti sul limite della nostra porta chiusa. Sarebbe stato sufficiente socchiuderla. Erano 976 i decessi del 2016 nel canale di Sicilia al 15 maggio: 976 morti che avrebbero potuto essere evitati e interpellano l’opulenza e indifferenza dell’Europa. Morti spesso senza un nome; spesso donne e molto spesso bambini. Io credo che la Storia chiederà conto alla nostra generazione di Europei di queste migliaia di morti annegati: e non potremo certo dire che noi non sapevamo. Ci chiederà conto uno per uno dei piccoli corpi dei bambini, di quelli che il mare ci ha restituito come atti di accusa sulle spiagge e di quelli ripescati ancora avvinghiati al corpo della madre nelle stive dei barconi affondati…
Gli otto grandi non hanno creduto che un altro mondo fosse possibile, si sono rifiutati di provare ad esplorarlo; hanno voluto propinarci ad ogni costo il loro mondo, che oggi Adolfo Perez Esquivel, premio Nobel argentino per la pace nel 1980, descrive in questi termini:
 
«Migliaia di persone fuggono dalla guerra, dalla fame, dalla miseria, straziati senza pietà dalle bombe e dagli attentati, navigano per il Mediterraneo a bordo di barconi senza meta e senza un orizzonte certo. Sono persone che spinte dalla pura e dall’angoscia intraprendono un viaggio carico di rischi e dal destino incerto. La loro bussola indica solo la meta della tragedia umana e il dolore per orizzonti irraggiungibili. L’Europa e altre potenze mondiali come gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia non sono né capaci né vogliono affrontare il dramma che loro stessi hanno provocato. Fanno finta di ignorare di essere sati gli artefici delle guerre in  Medio Oriente e di aver armato, per i propri interessi economici, strategici, e politici nella regione, i gruppi di combattenti ribelli. I grandi centri di potere, con il complesso industriale militare, vogliono affermare la propria egemonia mondiale utilizzando la violenza e ogni altro mezzo, come ad esempio la droga, per finanziare le guerre e manipolare la vita dei popoli. Le invasioni contro Iraq, Afghanistan Siria, Libia e l’interminabile colonizzazione della Palestina da parte di Israele provocano gli erroneamente denominati “danni collaterali” mentre le potenze responsabili ignorano e giustificano l’ingiustificabile»[ix].
 
Ne avremmo fatto a meno. A Genova chi ha battuto alle griglie della zona rossa per farsi sentire lo ha fatto per cogliere nella presenza in città degli otto uomini più potenti del mondo un’occasione storica irripetibile per dire loro che l’orizzonte che avrebbe voluto per il mondo non era quello verso cui in questi 15 anni lo hanno portato. Un altro mondo era dunque possibile? Beh, sarebbe stato un mondo nel quale queste migliaia di stranieri che la crudeltà degli uomini – non del mare – ha strappato alla vita potessero viaggiare in sicurezza ed essere accolti. Guardandoci alle spalle mentre quel 19 luglio sfilavamo in un allegro corteo colorato e multietnico, non ancora traumatizzato dalla violenza, da piazza Sarzano alle strade della Foce, costeggiando quel Mediterraneo, sentiamo il peso di tutti questi uomini morti cercando solo un posto tra noi. E’ passata la prima parte dell’estate, e con essa sono giunte le notizie dei primi naufragi e dei primi morti in mare: anche quest’anno il Mediterraneo ha cominciato a riscuotere il suo tributo di morte. Quanti morti dovremo contare prima che l’estate finisca? E saremo disposti a fare di nuovo finta di niente, a non chiedere conto ai governanti dell’Europa della nuova carneficina che si va delineando?
Viviamo un mondo sospeso, ma non – come avremmo voluto 15 anni fa – sul ciglio della speranza di un altro mondo possibile, di un mondo migliore; viviamo un mondo che non sa quando l’inutile strage che insanguina il sud e l’est del Mediterraneo – e occasionalmente ma tragicamente ricorda alle nostre città che il mondo è uno, e non può esserci pace per nessuno se non c’è pace per tutti – avrà fine. E che non sa quando e come la pressione inquieta dei corpi che premono per un posto tra noi potrà trovare l’accoglienza cui ha diritto. Il capitalismo sta facendoci pagare un costo in termini di vite umane elevatissimo per continuare a mantenere migliaia di corpi eccedenti fuori dal banchetto che è imposto loro di desiderare, ma al quale devono rassegnarsi a non essere invitati.
Così va il mondo, di fronte al quale 15 anni fa in decine di migliaia ci siamo trovati a Genova per dire: «NO. Un altro mondo è possibile!». Alcuni, designati dal caso, sono stati massacrati per questo per le strade e in una scuola-dormitorio, e/o torturati e umiliati in un carcere improvvisato. Uno è stato ucciso. Poi il mondo è andato avanti così, di male in peggio; e se ancora ci sforziamo di coltivare la speranza che un altro mondo, forse, sia possibile, oggi a 15 anni di distanza il bilancio è negativo e sembra più difficile di allora ritrovarci in tanti sotto la sua bandiera, quella della pace; e cominciare a spostarci, almeno di qualche passo, nella sua direzione.

Nel video allegato: Francesco Guccini, Piazza Alimonda
 

[i] Sui reali risultati del G8 genovese si veda il bel saggio di Andrea Fumagalli, Genova, ovvero le disavventure della metafisica liberista, in: AA. VV.: La sfida al G8… cit., 2001, pp. 47-78.
[ii] K. Ainger, Fermare il deserto politico, in: I giorni di Genova… cit., 2001, pp. 111-114.
[iii] F. Basaglia, F. Ongaro Basaglia,  Il corpo di Che Guevara, Che fare, 2, 1967; in: F. Basaglia, Scritti, vol. I, Torino, Einaudi, 1981, pp. 465-467.
[iv] A. Negri, Così incominciò a cadere l'impero, in: La sfida al G8, Roma, Manifestolibri, 2001, pp. 91-104 (p. 96). Sul ruolo dei media, e in particolare di internet, nella preparazione, cronaca e commento sui fatti del G8 genovese si veda anche nello stesso volume: A. Di Corinto, Don't hate the media, become the media (pp. 157-180), oltre a E. Menduni, L'abbraccio mediatico al movimento, Il mulino, 50, 397, 2001, pp. 893-901.
[v] Oltre ai testi usciti a caldo, in gran parte già citati, ricordo tra quelli più recenti:  S. Mezzadra, F. Raimondi, Oltre Genova, oltre New York. Tesi sul movimento globale, Roma, DeriveApprodi, 2001; F. Giovannini (a cura di), Bloc Book. Cosa pensano le tute nere, Viterbo, Stampa Alternativa, 2002; Aa. Vv., Io sono un black block, Roma, DeriveApprodi, 2002; G. Giuliani, H. Giuliani, Un anno senza Carlo, Milano, Baldini & Castoldi, 2002; E. Magnone e E. Mangini, La sindrome di Genova. Lacrimogeni e repressione chimica, Genova, F.lli Frilli, 2002;  L. Guadagnucci, Noi della Diaz, Piacenza, Terre di Mezzo / Altraeconomia, 2002 (2008); M. Poggi, Io, l’infame di Bolzaneto. Il prezzo di una scelta normale, Modena, Logos, 2004 (si tratta della testimonianza dell’infermiere che, presente a Bolzaneto, decise di rompere il muro di omertà e contribuì in modo importante alla ricostruzione dei fatti da parte della Magistratura); E. Bartesaghi, Genova, il posto sbagliato. La Diaz, Bolzaneto, il carcere. Diario di una madre, Roma, Nonluoghi, 2004; F. Caffarena e C. Stiaccini (a cura di), Fragili, resistenti. I messaggi di Piazza Alimonda, un luogo di identità collettiva, Milano, Terre di Mezzo, 2005;  M. Portanova, Inferno Bolzaneto. L’atto d’accusa dei magistrati di Genova, Milano, Melampo, 2008; S. Mammano, Assalto alla Diaz. L’irruzione del 2001 ricostruita attraverso le voci del processo di Genova, Viterbo, Stampa Alternativa, 2009; G.M. Chiocci, S. Di Meo intervistano Vincenzo Canterini, Diaz: dalla gloria alla gogna del G8 di Genova…,  Reggio Emilia, Imprimatur, 2012; G. Giuliani, Non si archivia un omicidio, (Ed. in proprio), 2013; R. Settembre, Gridavano e piangevano. La tortura in Italia: ciò che ci insegna Bolzaneto, Torino, Einaudi, 2014; C. De Gregorio, Non lavate questo sangue, Torino, Einaudi, 2016; M. Palma,  Happy Diaz. La formazione musicale di una generazione che è stata ammazzata di botte, Roma, Arcana ed., 2016.
[vi] Rimando in proposito all’intervento del 1900 di W.E.B. Du Bois, che Luigi Benevelli ha recentemente proposto su POL. it: W.E.B. Du Bois e la linea del colore; nonché al bel libro curato da Sandro Mezzadra dal quale lo ha tratto. 
[viii] Sulle difficoltà e contraddizioni delle politiche migratorie europee cfr. in questa stessa rubrica: Corpi eccedenti, corpi violati. Le donne di Colonia e i (vecchie e nuovi) fantasmi d’Europa. Monologo sull’Europa.
[ix] “Il manifesto”, XLVI, n. 171, domenica 17 luglio 2016.

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