Anch’io, come tanti, resisto all’infinito.
Dal primo post di fine gennaio, ho rimandato di quasi un semestre l’annunciato discorso sulla questione dell’oggetto infinito del desiderio. Non si tratta di rimozioni o censure sessuali, come Freud sarebbe pronto a interpretare. Si tratta di un residuo di idealismo che da più di due millenni, dai tempi di Platone, sta alla radice del buon senso o del senso comune occidentali e che in me non è meno attivo che in altri. L’infinito è un oggetto su cui l’idealismo, non solo non fa presa, ma che categoricamente rifiuta. Infatti, non può idealizzarlo, cioè ridurre a qualche idea, tanto meno a qualche ideale. Perché? Perché non è uno. Non ha essenza propria, neppure divina, l’infinito. Allora, non potendo pensarlo, l’idealismo, che pensa le essenze, lo rimuove.
I logici usano dire che l’infinito è un oggetto non categorico; intendono che se ne possono dare modelli diversi non equivalenti. Cantor per primo scoprì la non equivalenza dell’insieme dei numeri naturali rispetto all’insieme dei numeri reali, il primo essendo numerabile e il secondo no. Infatti, non si può stabilire una corrispondenza biunivoca tra numeri naturali, i numeri del conteggio, e i numeri reali, i numeri della misura (teorema diagonale di Cantor). Ogni numero naturale ha un predecessore immediato: il numero quattro precede strettamente il numero cinque e tra loro non c’è nessun numero naturale intermedio (dimostrarlo!). Ogni numero reale, invece, non ha predecessore in senso stretto: non esiste il predecessore immediato di pi greco. In un certo senso i numeri reali si stringono tra loro gomito a gomito senza lasciare lacune. (I numeri razionali li imitano ma non abbastanza: esistono lacune tra i numeri razionali, che pure sono densamente distribuiti tra i reali; per esempio la radice quadrata di due non compare tra i razionali, come sapeva anche Aristotele). Qui accenno solo a una peculiarità dei numeri reali, forse di interesse psicanalitico: fanno decadere il modello ingenuo di infinito come interminabile, di cui per esempio parlano le traduzioni europee della freudiana Die endliche und die unendliche Analyse; i numeri reali dimostrano che esistono degli infiniti, in un certo senso, più che interminabili; sono numeri che non hanno neppure un inizio, prima ancora di non avere una fine (assenza del buon ordine).
Forse non sarà del tutto chiaro. In ogni caso è chiara la domanda che chi legge si pone: cosa ce ne facciamo noi psicanalisti di modelli diversi della stessa “cosa” infinita, ammesso che si possa parlare di “una” cosa?
La mia proposta, che qui voglio cominciare a sgrossare, è che i diversi modelli di infinito possano funzionare da modelli dei diversi oggetti del desiderio. Non coincidono con essi, ma sono ad essi equivalenti, secondo una nota distinzione matematica tra identità ed equivalenza. Come ho già avuto modo di ribadire in alcuni post precedenti, adotto l’approccio galileiano dei modelli, senza riferimenti al principio di causa-effetto. Propongo modelli diversi della stessa cosa – nel caso di Galilei erano i moti diversamente accelerati su diversi piani inclinati, nel mio caso sono i diversi infiniti – per stabilire cosa tali modelli hanno e cosa non hanno in comune dal punto di vista psicanalitico; miro a individuare il loro invariante geometrico-analitico. L’importanza logica del metodo dei modelli è in vista del problema della coerenza: se non esiste un modello del sistema fisico o psichico, è certo che è contraddittorio. Quindi porgere un modello di un sistema significa garantirne la coerenza, almeno relativamente a quel modello. Allora, gli oggetti infiniti del desiderio sono relativamente coerenti, perché hanno modelli, e ciò mi consente di proseguire il discorso. In ogni caso mi guardo bene dal trattare la questione dell’infinito come “oggetto causa del desiderio”, come farebbe un grande poeta, un Goethe per esempio, o un grande psicanalista, come Lacan. Innanzitutto, perché non ho la loro grandezza e poi perché la nozione di causa non rientra nella mia cassetta degli attrezzi (al più dispongo della nozione ontologicamente molto più debole di correlazione statistica).
La seconda ragione della mia prolungata esitazione a parlare di infinito è che in psicanalisi non si può parlare di oggetto senza parlare di corpo e di godimento. Ciò raddoppia la difficoltà dell’argomentazione, perché anche il corpo – la cartesiana res extensa – è infinito. Per non svicolare una volta di più, rimando la questione dell’infinito corporeo al prossimo post e qui mi limito a trattare la questione dell’infinitezza dell’oggetto del desiderio. La separazione tra corpo e oggetto è artificiosa, ma non so come evitare l’impasse.
In base all’insegnamento lacaniano distinguo quattro oggetti del desiderio: scopico e fonico (prevalentemente metaforici o della sostituzione infinita), anale e orale (prevalentemente metonimici o della concatenazione infinita). I loro rapporti con l’infinito sono geometrici, precisamente topologici, come cerco di dimostrare.
1. L’oggetto scopico
Forse l’oggetto scopico, cioè lo sguardo mio sull’altro e dell’altro su di me, porge l’occasione più chiara e più semplice per intuire qualcosa dell’infinità dell’oggetto del desiderio. In prima battuta, va precisato che lo sguardo non è nell’occhio di chi guarda ma è nello spazio in cui il soggetto, che vede o è visto, è immerso senza che possa vedersi. Lo sguardo è uno spazio infinito (non numerabile), regolato da una sua propria geometria: proiettiva, appunto.
La geometria proiettiva, disciplina abbozzata dai geometri tardo-ellenisti del IV secolo d.C., sviluppata dagli artisti romani, codificata dai pittori e architetti rinascimentali come scienza che regola la prospettiva, teorizzata dai geometri francesi del XVI secolo e tedeschi del XIX secolo come vera e propria geometria con proprie figure e propri invarianti, ha un paio di caratteristiche che forse possono interessare lo psicanalista, non essendo quantitative (o di misura) ma qualitative (per la precisione grafiche).
Innanzitutto, lo spazio proiettivo non ha origine delle coordinate. Il punto (0,0,0) dello spazio ordinario tridimensionale non appartiene allo spazio proiettivo. Lì potrebbe collocarsi il soggetto che vede ma non si vede, non essendo autoreferenziale; psicanaliticamente parlando, sarebbe un soggetto in afanisi: sparisce, ma lascia tutto uno spazio dietro di sé.
In secondo luogo, la geometria proiettiva tratta l’invarianza delle proiezioni (lineari), cioè di quelle trasformazioni dello spazio in se stesso – le collineazioni – che conservano la collinearità dei punti e la concorrenza di linee nel piano e di piani nello spazio. La dualità, secondo cui teoremi validi per i punti valgono simmetricamente per i piani e teoremi validi per i piani valgono per i punti, semplicemente scambiando la collinearità dei punti con la concorrenza dei piani in un punto, propone qualcosa di pertinente alla divisione fantasmatica tra soggetto (il punto) e oggetto (lo spazio). Se una proprietà vale per i punti, la sua duale vale per i piani e viceversa, sempre senza convocare operazioni quantitative di misura o metriche. Siffatta dualità è una sorta di ortogonalità tra punti e piani che, interpretata psicanaliticamente, corrisponde a quella che Lacan chiamava cripticamente “esclusione interna” tra soggetto e oggetto nel fantasma. “Le sujet est, si l’on peut dire, en exclusion interne à son objet.” (cfr. J. Lacan, La science et la vérité, (1965), in Id., Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 861). L’ortogonalità si giustifica concettualmente perché in realtà i punti dello spazio proiettivo sono rette che passerebbero per l’origine delle coordinate, se ci fosse; a ognuna di esse corrisponde un piano ortogonale.
La geometria proiettiva, come dicevo, è qualitativa; tratta solo dell’appartenenza di punti a piani e simmetricamente di piani a punti; non calcola né misura distanze, cioè non è metrica. In tale simmetria risiede la sua scientificità, inconsapevolmente coltivata per secoli. Forse lì c’è anche qualcosa di psicoanalitico.
Freud individuò due varianti della situazione scopica: l’attiva e la passiva. Nella prima il soggetto voyeur vede, di solito dal buco della serratura, lo spazio dove avviene una scena di interesse sessuale; nella seconda il soggetto esibizionista si pone al centro dell’attenzione sessuale di tutto spazio. Nel seminario XI Lacan vi ha aggiunto precisazioni fenomenologiche interessanti, dettagli che tuttavia non modificano la situazione proiettiva di base. Senza entrare in questi dettagli, noto solo quanto di inconscio intercorre nella relazione tra soggetto e lo spazio infinito che lo ospita. Il soggetto non domina – non vede – tutto lo spazio, che in un certo senso ek-siste rispetto a lui. Nello spazio proiettivo esistono punti all’infinito, simmetrici rispetto all’origine mancante, quasi suoi contrappesi. Si chiamano anche punti di fuga della prospettiva, dove convergono le linee parallele, che il soggetto non può toccare con mano. Lo spazio proiettivo possiede questa caratteristica di rimozione originaria rispetto al soggetto. È la caratteristica che deriva dalla non categoricità dell’infinito.
Il termine “proiezione” è usato in psicanalisi in senso antropomorfo, per indicare l’operazione del soggetto che proietta all’esterno rappresentazioni psichiche interne, in genere connotate in senso persecutorio. Non premo sul pedale di questo discorso né sull’evoluzione che ha avuto in un’autrice come Melanie Klein in termini di identificazione proiettiva. Temo, infatti, che l’antropomorfismo ci porti lontano da prospettive scientifiche.
Che l’oggetto scopico sia spaziale e lo spazio sia oggettuale, insomma la sovrapposizione di spazio e oggetto, è un’intuizione più alla portata dell’artista che dello psicanalista. Valga come paradigma la riproduzione di questa scultura del 1912-13 di Umberto Boccioni, intitolata Sviluppo di una bottiglia nello spazio, una delle rare nature morte del maestro, esposta al Museo del Novecento di Milano.
L’intuizione futurista dello spazio adotta la concezione scientifica del movimento, avanzata da Galilei: nel movimento di un corpo è tutto lo spazio che si muove, non solo il singolo corpo al suo interno. Se io sono su un treno, mi muovo in una certa direzione, ma lo spazio vicino a me si muove in direzione opposta; quello lontano sembra muoversi nella stessa direzione. I futuristi rendono plasticamente questa intuizione ingenua, che sorprende ogni bambino la prima volta che sale su un treno. Lo spazio cinematico del futurismo non è un contenitore di oggetti ma è esso stesso oggetto, con la conseguenza che gli oggetti diventano spaziali. La conseguenza fisica è che tutte le parti dello spazio sono solidali. Sono in movimento anche le parti in quiete, che si muovono a velocità pari a zero. Il movimento di un corpo nello spazio trasforma tutto lo spazio in sé stesso. Lo trasforma in un campo vettoriale, come si dice tecnicamente, dove a ogni punto dello spazio corrisponde un vettore velocità. L’intuizione non fu alla portata del pensiero antico, che negava il movimento, non avendo neppure gli strumenti intellettuali per pensarlo, a cominciare dalla nozione di variabile e di variabilità nel tempo della posizione di un punto dello spazio. (Le coordinate spaziali saranno inventate da Cartesio. Gli antichi avevano solo il concetto di misura, che è determinata e non varia nella singola operazione). Infatti, tutta la meccanica antica, essenzialmente l’archimedea, fu statica: fu la meccanica dell’equilibrio delle leve. E statica mi sembra anche la psicanalisi moderna, anche se parassita il termine “psicodinamica”, introducendo un dinamismo analogico, fatto di conflitti intra ed extrapsichici, censure e rimozioni.
All’interno della geometria proiettiva andrebbe collocato anche lo stadio dello specchio, secondo Lacan formatore dell’Io. L’Io sarebbe il riflesso dell’oggetto, che si vede dove non è, cioè virtualmente in un piano all’infinito. (Lo specchio piano è uno specchio concavo con curvatura pari a zero e fuoco all’infinito.) L’Io sarebbe simmetrico rispetto al soggetto, che invece si collocherebbe alla frontiera dell’oggetto, cui aderirebbe quasi come la sua pelle: una res intensa rispetto alla res extensa. Discorso da precisare nel prossimo post in termini topologici.
Modello psicopatologico dell’oggetto scopico: l’isteria, che trucca gli occhi con la matita nera ma non le labbra con la matita rossa.
2. L’oggetto fonico
Sull’oggetto fonico Freud, forse perché non aveva orecchio musicale, ha taciuto. Il merito di aver riconosciuto la voce come oggetto del desiderio va tutto a Lacan. Dopo tutto, la voce è l’unico oggetto messo in gioco nella seduta analitica condotta di spalle nel setting freudiano del divano e della poltrona.
Per simmetria con l’oggetto scopico direi che, se in quel caso l’oggetto è lo spazio, ora l’oggetto è il tempo. Se nel caso scopico domina la sincronia, data dalla compresenza di soggetto che vede e di oggetto che è visto (o viceversa di soggetto che è visto e di oggetto che lo vede), nel caso fonico viene alla ribalta la diacronia, cioè il tempo oggettivo della storia (ontologico) e della narrazione (epistemico) dell’esperienza soggettiva. La voce racconta storie, che si compongono nel romanzo nevrotico. Anche a livello epistemologico la presenza del tempo narrativo distinguerebbe le scienze umane dalle naturali; nelle prime c’è più narrazione, nelle seconde meno, anche se non manca la descrizione, soprattutto nelle scienze biologiche.
Quale geometria per la voce? Vale per lei una variante della geometria proiettiva, detta affine. Come la geometria proiettiva, anche l’affine esclude l’origine delle coordinate, ma non ammette tutte le collineazioni, cioè le applicazioni lineari (che conservano l’allineamento dei punti); accetta solo quelle che trasformano un certo piano privilegiato in sé stesso; in pratica si tratta delle traslazioni o dei trasporti paralleli, che allo psicanalista potrebbero ricordare qualcosa della sua pratica clinica (la traslazione affettiva, per esempio). Il piano “unito”, trasformato in se stesso dalle trasformazioni affini, è detto piano improprio o all’infinito: è lì, sempre presente ma immobile in tutte le modificazioni dello spazio.
La geometria affine, ricordo en passant, ha natali gloriosi, scientificamente parlando, tutti italiani, essendo stata l’ambiente dove Galilei ha localizzato i principi d’inerzia (un corpo non sottoposto a forze continua all’infinito il proprio moto a velocità costante, eventualmente nulla) e di relatività (le leggi fisiche si scrivono allo stesso modo in tutti i sistemi di rifermento inerziali). (Si aprirebbe qui un ampio discorso epistemologico: non è la matematica che si applica alla fisica, come ingenuamente si crede; è la fisica che suggerisce spunti di analisi alla matematica.)
Quali conseguenze geometriche sull’oggetto fonico? Eccone una: la stessa combinazione di armoniche, la stessa melodia, la stessa voce, lo stesso grido, lo stesso sussurro, traslato sulla scala cromatica, risuona allo stesso modo ma con tonalità differenti, sulla scala delle ottave o delle quinte, fino all’infinito, cioè al di là dell’udibile (16.000 Hz). Le due scale sono però incommensurabili, cioè non hanno intersezioni comuni. E di scale siffatte se ne possono costruire diverse in musica. Oggi si costruiscono pianoforti a 102 tasti, invece degli usuali 88, inseguendo quell’impossibile convergenza con un incremento del 16% delle frequenze esplorate.
Si inserisce qui una peculiarità “infinita” dell’oggetto fonico, che conferisce un’inconfondibile singolarità al singolo oggetto: voce, pianto, grido, sussurro, canto che sia. Esso è costituito dalla sovrapposizione di infinite armoniche, che ne determinano il timbro e distinguono un oggetto fonico dall’altro; originariamente il soggetto distingue su questa base la voce del padre da quella della madre. La base biologica è degna di ammirazione. L’organo del Corti nell’orecchio interno è abilissimo nell’eseguire l’analisi armonica delle frequenze e distinguere un oggetto fonico dall’altro con la precisione dell’analisi del DNA e forse superiore. In questo l’orecchio supera certamente la performance dell’occhio. Un esempio banale: nella sovrapposizione o accordo di quinta (do, sol) l’orecchio analizza e riconosce le due note; nella sovrapposizione o miscela di giallo e blu l’occhio vede solo il colore misto verde, di cui perde le due componenti.
Chissà, forse l’analisi poteva essere scoperta (da un duro d’orecchio come Freud!) solo nel registro fonico, dove il soggetto del desiderio decritta con sicurezza le componenti provenienti dai diversi altri che lo circondano: familiari ed estranei.
Modello psicopatologico dell’oggetto fonico: la nevrosi ossessivo-compulsiva del batterista jazz che picchia su piatti e tamburi a ritmo frenetico. Ritmo e ripetizione sono la stessa cosa? chiedo allo psicanalista. Se ponessi la stessa domanda a un matematico risponderebbe che ci sono numeri con ripetizione e numeri senza; per esempio, i numeri razionali hanno espansione decimale con un periodo che si ripete (per esempio, 1/7 = 0,14285714285714…), mentre i numeri irrazionali non hanno periodo che si ripete (radice di 2 = 1,414213562373095…, pi greco = 3,141592653589793…). Forse bisogna correggere sia Freud sia Nietzsche: nel reale non c’è ripetizione dell’identico, pur ammettendo che, se qualcosa si ripete, è segno che siamo in prossimità della morte.
3. L’oggetto anale o osmico
Preferisco dire, alla greca, osmico (da osmao, “annuso”, con l’omicron iniziale), invece che anale, perché è più generale: la merda puzza, ma il denaro non puzza: pecunia non olet. Se Freud poté dimostrare l’equivalenza di merda e denaro, di puzza e non puzza, la ragione è che i due oggetti hanno in comune il tratto spaziale della “pervasività” dell’oggetto osmico infinito, che è dappertutto e da nessuna parte, come l’elettrone quantistico: la rete fognaria copre la città, il denaro la rete delle transazioni economiche. La pervasività del denaro, che ne fa l’equivalente universale di merce, “trascende” la sua materialità. Con una battuta direi che l’osmico diventa facilmente cosmico, magari per la sua spinta osmotica (da osmòs, spinta, impulso, pulsione, ma con l’omega iniziale). Gli antichi greci sapevano qualcosa della psicanalisi dell’oggetto?
Sull’oggetto odore riporto per introdurlo un raccontino pubblicato recentemente su fb dal mio amico Socrate Mattioli. Come si sa, i letterati arrivano prima degli psicanalisti a cogliere l’essenza dei fenomeni vitali, forse perché gli psicanalisti non si occupano di essenze, anche se pretendono interessarsi alla vita. Freud lo diceva già 110 anni fa: “Gli scrittori sono alleati preziosi; la loro testimonianza va attentamente considerata, perché di solito sanno una quantità di cose fra cielo e terra che il nostro sapere scolastico neppure si sogna. Particolarmente nelle conoscenze dello spirito sorpassano di gran lunga noi comuni mortali, poiché attingono a fonti non ancora aperte alla scienza” (S. Freud, Il delirio e i sogni nella “Gradiva” di Wilhelm Jensen (1906), in OSF, vol. V, Boringhieri, Torino 1972, p. 264, traduzione modificata).
“Le Stop senza filtro divise in due metà e fumate con un bocchino d’avorio, lercio da far schifo, il professor Tapuloni ne aspirava il fumo con un’avidità, con una bramosia, con una voluttà tale che era impossibile non partecipare al suo godimento. Le “tirate” leggere ma intense, producevano spire e volute di un fumo azzurrognolo che, per non sprecare proprio nulla, rincorreva col naso e roteando la testa, recuperava con fare estatico e soddisfatto.
Poi, quando della sigaretta restavano pochi millimetri, con due dita d’amianto, “spellava” la brace, e gelosamente, quasi furtivamente, metteva quei pochi milligrammi di tabacco superstite in una scatoletta. Quindi con fare goloso annunciava: “Queste me le fumo stasera a casa”!”
Qual è la geometria dell’odore? Non è una geometria nel senso degli Elementi di Euclide, che è una geometria dei movimenti spaziali rigidi, che conservano le dimensioni dell’oggetto. È una geometria che conserva solo le proprietà dello spazio legate alla sua continuità. È una topologia, cioè è una geometria molto debole, morbida ed elastica, senza unità di misura, che tratta la coesione e l’adesività reciproca dei corpi e che ammette tutte le trasformazioni continue, che nello spazio non introducono lacerazioni né sovrapposizioni (omeomorfismi). L’odore è ciò che aderisce ai corpi, come sanno bene le formiche che si annusano tastando con le antenne i corpi delle compagne, in genere sorelle. L’odore è pertanto un fattore fondamentale per la costituzione del legame sociale. Se c’è razzismo, è perché gruppi sociali diversi odorano diversamente. Allora il razzismo esiste, anche se la razza non esiste come fatto scientifico, essendo la variabilità genetica entro (supposte) razze, per esempio entro boscimani o entro islandesi, superiore alla variabilità genetica tra razze, per esempio tra maori australiani e ariani tedeschi.
Su questa topologia, che non è metrica, potrei diffondermi a lungo, rischiando di annoiare chi mi legge. Per inquadrare l’argomento, dico solo due parole introduttive, che forse potranno servire in seguito. Una topologia su un insieme è una famiglia di suoi sottoinsiemi, detti “aperti”, che soddisfano due condizioni: l’unione di aperti è ancora un aperto; l’intersezione finita di aperti è ancora un aperto. Una topologia trasforma un insieme senza struttura, detto sostegno, in un insieme strutturato, cioè in uno spazio topologico, che risulta quindi l’accoppiata dell’insieme, i suoi punti, e della sua topologia, l’insieme delle sue parti. Una topologia porge una visione – una delle tante possibili, esseno possibili diverse topologie sullo stesso sostegno – della coesività dell’insieme, posto di considerare “abbastanza vicini” due punti che appartengono allo stesso aperto (nel nostro caso che hanno lo stesso odore). La vicinanza estrema, ma senza arrivare al contatto, è data dai punti limite di un corpo (ecco che nel discorso topologico torna il corpo escluso!). Ma di questo al prossimo post.
L’oggetto specifico di studio della topologia sono le trasformazioni continue, che trasformano aperti in aperti, punti vicini in punti vicini, punti limite in punti limite, odori in odori simili. L’accanimento topologico del mio maestro Lacan potrebbe aver avuto questa base osmica, tipica del professor Tapuloni. Il mio amico, però, manca di precisare nel suo racconto un punto potenzialmente interessante per lo psicanalista, cioè come si ponesse il suddetto professore nei confronti di quel particolare oggetto del desiderio che sta all’intersezione tra fonico e osmico, cioè il peto. A proposito di professori, segnalo che un grande professore di psichiatria, Silvano Arieti, aveva subodorato lo specifico odore della schizofrenia, dovuto a suo dire all’escrezione urinaria di amine aromatiche. Scherzi dell’oggetto del desiderio.
L’oggetto osmico segnala una particolarità caratteristica dell’oggetto del desiderio: l’abilità che esso ha di sfumare mentre si cerca di afferrarlo. Non essendo categorico, l’osmico è proteiforme e come Proteo sfugge alla presa. Ciò fa dire a Lacan che l’oggetto del desiderio è originariamente perduto. Da correggere: non è l’oggetto che è perduto, sei tu che ti perdi in lui. Detto alla greca, davanti all’oggetto il soggetto va in afanisi.
Concludo il capitolo sull'oggetto osmico come l’ho cominciato, cioè con un’altra favoletta, l’incredibile storiella che Freud racconta in una lunga nota al quarto capitolo del Disagio nella civiltà. La stazione eretta dell’uomo avrebbe allontanato il suo naso dagli eventi “bassi”, cioè quelli che si verificano per terra a livello dei piedi o poco più su a livello del sesso (tipicamente dall’odore delle mestruazioni). La conseguente sublimazione degli eventi “alti”, a livello del cranio, si baserebbe, allora, sulla “rimozione organica” della componente edipica della personalità, associata alle zampe. Storielle, ma fanno pensare. Ricordo a chi non ha fatto il classico, che Edipo si chiamava così per via dei piedi gonfi, che ebbe legati durante l’esposizione sul Monte Citerone e perciò andarono incontro ad edema.
Modello psicopatologico dell’oggetto osmico: il finanziere e l’operatore di borsa, che vende titoli allo scoperto; fa scendere i tuoi e li ricompra accumulandoli. Sadomasochista freudiano, variante collezionista.
4. L’oggetto orale… interminabile
L’oggetto orale, tipicamente l’inesauribile seno buono, rappresenta la forma più antica di infinito: l’infinito potenziale, che non è mai infinito, perché è sempre finito, ma è sempre più grande, inesauribile appunto. È l’apeiron o l’indeterminato di Anassimandro e di Aristotele. L’indeterminazione riguarda la possibilità di variare – si direbbe con terminologia moderna – le misure del finito – cioè le sue determinazioni quantitative – tra due stremi: esse si estendono tra l’infinito positivo e l’infinito negativo, estremi ovviamente esclusi. Ai due estremi si collocherebbero le due simmetriche patologie che così bene sanno giocare con la quantità di cibo: la bulimia (dalla parte dell’infinito positivo) e l’anoressia (dalla parte dell’infinito negativo). L’anoressia gioca con l’infinito come con lo zero, che in un certo senso è il suo inverso simmetrico, la bulimia con l’infinito del frigorifero, ormai congelato. Ma non si trovano riferimenti all’infinito nelle elucubrazioni psicanalitiche su questi due “disturbi delle condotte alimentari”. Gli psicanalisti sembrano non avere orecchio (o naso) per l’infinito.
L’infinito interminabile è l’infinito della diacronia che, non esistendo, innerva tutte le operazioni psicanalitiche condotte all’insegna della narrazione – “dei casi clinici che si leggono come novelle”, lamentava Freud, essendo in carenza del marchio dell’autentica scientificità. Freud aveva ragione, ma non seppe inventare qualcosa di diverso dall’anamnesi medica. I suoi successori ancor meno. Apprezzo di Lacan il fatto che, dopo aver raccontato il caso Aimée nella sua tesi di psichiatria, si astenne in seguito da tale pratica poco scientifica.
L’infinito potenziale fu da Aristotele ammesso in metafisica – che altro luogo può pretendere per sé l’infinito se non fuori dalla fisica, anche se concerne il mondo fisico? La preoccupazione di Aristotele era di salvare il principio di ragion sufficiente, il solo che garantiva la scienza antica, lo scire per causas. Salvava i fenomeni, secondo la prescrizione del suo maestro, come effetti di certe cause. Se l’infinito fosse attuale, la regressione dalla causa ultima, alla penultima, alla terzultima non arriverebbe mai alla causa prima e non ci sarebbe mai conoscenza dell’effetto, cioè i fenomeni non verrebbero salvati. Non sarebbe un guaio solo teorico. Infatti, se non conosci la causa non puoi agire né in politica né in medicina per immettere nel reale la controcausa che guarisce la malattia in medicina o sana il conflitto in politica. Allora, abbasso l’infinito attuale, dice il buon senso in nome delle proprie ascendenze idealistiche, ed evviva l’infinito potenziale, che essendo in potenza non esiste e ci lascia liberi di pensare ai nostri piccoli e non infiniti affari.
È patetico leggere in proposito uno degli ultimi testi teorici di Freud, intitolato Analisi finita e infinita del 1937, tradotto in molte lingue europee con l’improponibile titolo di Analisi terminabile e interminabile. La traduzione errata è suggerita dallo stesso Freud. Il quale confondeva psicanalisi con medicina e pretendeva che la cura psicanalitica o fosse terminabile, se restituiva lo stato premorboso, o fosse sospendibile, se falliva o era inutile, esattamente come una qualunque cura medica. Ma la psicanalisi è altra cosa dalla medicina; la sua “cura” non si accanisce bulimicamente sulla terapia, per restituire lo stato premorboso, ma mira eticamente alla scienza. La cura psicanalitica è un esperimento etico; non è né terminabile né interminabile ma provvisorio, come intuì Cartesio. Funziona finché funziona e se funziona. Ma Freud da bravo medico, corazzato dalla Kausalbedürfnis, o bisogno imperativo di causalità (in medicina si chiama eziologia), non lo sapeva, o meglio, lo sapeva ma non lo riconosceva. In realtà l’aveva dimenticato o rimosso, come preferiva dire.
Come si vede, ho parlato poco di oralità. È la conseguenza di aver censurato il corpo. Al prossimo post.
Concludo con un’osservazione ancora geometrica (uffa!). La geometria vigente per l’oralità è la consueta geometria euclidea della misura quantitativa del cibo assunto o evacuato, del vomito o della diarrea. È una geometria più ristretta ancora dell’affine, perché ammette solo trasformazioni ortogonali dello spazio in sé stesso: le trasformazioni rototraslatorie rigide che portano a coincidere, per esempio gli opposti, come i due sfinteri anale e orale, dedicati rispettivamente alla diarrea e al vomito. Nella topologia delle superfici bidimensionali la bottiglia di Klein porge il modello dove i due “buchi” opposti, le due aperture, coincidono, come sanno bene i bulimici-anoressici. È una figura topologica senza interno. Svilupperò nel prossimo post il concetto topologico di soggetto come figura senza punti interni, che sta alla frontiera dell’oggetto o del corpo.
Il modello psicopatologico dell’oggetto orale è ovviamente la bulimia-anoressia. Il corpo bulimico-anoressico è detto in topologia raro (o non ovunque denso), nel senso che non contiene punti interni. Insomma, rispetto al frutto proibito l’oggetto orale è la buccia: non contiene semi.
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