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TERRORISMO: QUESTA FOLLIA NON E’ FOLLIA

28 Lug 16

A cura di Paolo F. Peloso

Vorrei aggiungere la mia voce al dibattito che ha visto dal 24 u.s. protagonisti, su POL. it, Massimo Recalcati, Luigi D’Elia, Simonetta Putti e, un po’ à coté, Sarantis Thanopulos, per raccogliere, da una parte, concetti che mi sono parsi importanti, ma dall’altra anche  esprimere allarme per quello che mi è parso un riferimento eccessivamente  insistito, in qualcuno di questi interventi come sui media in generale, dopo gli ultimi episodi di “polverizzazione” e individualizzazione – per così dire – del terrorismo (da Nizza, a Monaco, a Rouen), a categorie come follia, paranoia, psicopatologia, disagio mentale ecc. E, soprattutto, a quella di “psicosi”, tirata in ballo senza che esistano, a mia conoscenza, per i casi citati elementi idonei a suffragarla e senza valutare il rischio che ciò possa essere offensivo, e ingiustamente stigmatizzante, per quanti, di psicosi, soffrono invece sul serio. Che se certo compiono, per varie ragioni, la drammatica scelta del suicidio con frequenza maggiore della generalità della popolazione, lo fanno però tipicamente in silenzio, nell’ombra e in solitudine (altro che stragi! Stragi semmai solo di se stessi, epilogo spesso di lunghe e tristi storie di abbandono e sofferenza…). Un concetto, del resto, questo di psicosi, che – al di fuori della definizione psicopatologica e clinica di condizione nella quale è compromesso dell’esame di realtà (sostenuta, spesso, dal delirio e l'allucinazione non come  metafora, ma come esperienza) – ho spesso la sensazione che rischi di andare incontro quando utilizzato nel mondo della psicoanalisi a un uso nebuloso e inflazionato,  notte hegeliana delle vacche nere, che ha per effetto confondere più che chiarire. Breivik, del resto, è stato ritenuto capace d’intendere e volere dai giudici; Kabobo soltanto semiinfermo. Sarebbe meglio andarci piano, perciò, con la psicosi….
Ciò premesso, e con ciò presa spero con la nettezza necessaria posizione sul fatto che questa follia, appunto, per quanto mi riguarda – e salvo prova contraria – follia non è, mi trovo molto d’accordo, invece, sull’idea che raccolgo dallo stesso dibattito degli ultimi episodi terroristici come risultati di cortocircuiti tra fattori diversi e della loro complessa interazione, una miscela esplosiva insomma della quale vale forse la pena di provare a identificare, con prudenza, qualche ingrediente. E tra i quali, personalmente, proporrei di prendere almeno cinque gruppi in considerazione.
 
  1. Dire che gli autori dei recenti atti terroristici non abbiano probabilmente a che fare con la psicosi non significa, ovviamente, sostenere che la loro mente nulla abbia a che fare con quegli atti, che fattori psicologici individuali cioè non siano in gioco. La mente di ciascuno, del resto, ha a che fare coi suoi atti, buoni o cattivi che essi siano. In molti casi (non in tutti) sembrano essere in gioco percorsi biografici di isolamento, frustrazione, bullismo subito, risentimento. In un romanzo del 1873, I demoni, Dostoëvskij approfondisce gli aspetti psicologici, personali che inevitabilmente stanno dentro la scelta, anche la più generosa, di esercitare la violenza per ottenere il cambiamento; e i demoni dei nostri giorni non fanno eccezione. Più carico di valore euristico e meno fonte di equivoci, poi, del riferimento a categorie mutuate dalla psicopatologia, mi parrebbe semmai per approcciare questi fattori quello al concetto di “esaltazione fissata”, proposto da Ludwig Binswanger nel 1956. Non una malattia, ma una delle forme che l’esistenza può assumere. Un restringersi sempre più, via via che ci si esalta da soli o in piccolo gruppo, eventualmente in riferimento al grande gruppo, dell’ampiezza dell’esistenza, rimpicciolirsi e impoverirsi del mondo fino a vederlo tutto concentrato in un punto, che finisce per corrispondere, in questo caso, all’obiettivo.
  2. Mi paiono anche certamente in gioco i fattori generazionali sui quali insiste Recalcati:  appare innegabile, infatti, che gli autori degli ultimi attentati in Europa sono giovani. La giovinezza è, per esperienza comune di noi tutti e di una storia i cui esempi più vicini troviamo nella resistenza, il ’68, le lotte degli anni ’70, l’età nella quale più facili sono adesione a ideali, aspirazione alla purezza, disponibilità al sacrificio, ricerca di gloria. Il giovane ha fame d’ideali in nome dei quali eventualmente immolarsi, di buone cause per le quali adoperarsi e infatti come cantava quel tale, giusto a proposito d’un kamikaze d’altri tempi: “gli eroi son tutti giovani e belli”. Sappiamo, poi, anche come talvolta questa spinta all’ideale può ribaltarsi nel giovane nella tendenza all’ideale negativo (o intrecciarsi in modo complesso con essa); a noi tutti operatori “psi” capita d’intercettare questi giovani difficili (il che non significa, ovviamente, che si tratti di psicotici, né che la loro sofferenza si presti ad essere letta come malattia). Nell’attentatore di Monaco, a quel che se ne sa, questo potrebbe essere stato un aspetto importante: pare fosse stato da sempre ossessionato dal fatto di essere nato lo stesso giorno di Adolf Hitler (chissà quanti altri, peraltro, sono nati quel giorno oltre ai due, quasi il 3/1.000 circa dell’umanità, direi a spanne; ma tant’è…); e abbia scelto per la  strage l’anniversario di quella di Utaja. Eroi mefistofelici e negativi, incarnazioni del mostro che l’Occidente porta in se stesso e con il quale non ha fatto forse i conti fino in fondo, come Jaspers avrebbe voluto, o di un mostro che si erga contro l’Occidente, abbastanza forte e simile ad esso da fronteggiarlo e vincerlo. Eroi in rivolta contro i genitori, contro la società, contro i coetanei, contro… Noi tutti, almeno in un momento della giovinezza, lo siamo stati. Attimi nei quali forse, fissati via via sempre più nell’esaltazione, si può essere più vulnerabili anche alla fascinazione del Califfo. Con la sua straordinaria capacità, probabilmente, di mobilitare il male, la rabbia, il conflitto, qualunque ne sia l’origine, col contrapporre una fede assoluta e antica al relativismo etico che va per la maggiore in Occidente, offerta a buon mercato di una grande causa collettiva, in grado di nobilitare nel sacrificio a volte disperazioni private.  E poi, ancora, e qui sta un elemento di novità della generazione cui questi giovani appartengono, sappiamo come la strada del male verso l’apparizione mediatica, moderno sostituto del “passaggio alla storia” di altri tempi, è molto più facile e breve da percorrere rispetto a quella, tortuosa e faticosa, del bene.
  3. Se è certamente vero che è sostanzialmente di giovani che si tratta, lo è altrettanto che si tratta di soggetti caratterizzati da una identità etnico-culturale complessa, come ebbero a scrivere Delia Frigessi Castelnuovo e Michele Risso “a mezza parete”: figli di uno o entrambi i genitori immigrati in terra straniera. Portatori, nel proprio corpo o nel proprio sentirsi in un luogo che non è quello dei propri antenati e della propria storia, di un conflitto che ha a che fare con quelli che possiamo definire fattori identitari. Tra i quali possiamo distinguere quelli di carattere storico, da riferirsi alla storia coloniale che non passa e della quale l’Occidente non si rassegna a scusarsi fino in fondo (dove scusarsi significherebbe anche scendere dalle posizioni di vantaggio che da essa derivano). Figli degli ex (?) oppressi che vivono nella terra dell’ex (?) oppressore; corpi meticci che incarnano la commistione tra il sangue dell’ex oppresso e quello dell’ex oppressore in una realtà, quella del mondo postcoloniale, che è tutto fuorché pacificata o archiviata. Realtà dove, scriveva nel 2007 Roberto Beneduce: “in ogni sguardo, un rifugiato o un immigrato rivelano non solo la complessa dimensione sociale e affettiva della propria condizione, bensì tutta la densità di un passato inenarrabile, represso, che aspetta ancora il suo riscatto”. Non c’è solo il passato, però; questi fattori presentano anche aspetti sociali che riguardano le diverse forme, oggi, dell’oppressione: rapporti economici asimmetrici tra nord e sud del mondo, tra occidente e mondo arabo, doppiopesismo e malafede delle politiche occidentali in Medio Oriente, pretesa di essere i corifei dei valori umani calpestandoli e/o alleandosi regolarmente con chi li calpesta, fino agli infiniti episodi di microrazzismo – reale o anche solo soggettivamente sofferto – che caratterizzano le nostre città. E ancora la sensazione – immagino fastidiosa – per cui, e il pensiero è a Frantz Fanon di Pelle nera, maschere bianche,  non si è mai abbastanza lattificati da sentirsi bianchi fino in fondo. E non può forse allora stupire che nel momento nel quale incarnano nei loro corpi, o nel rapporto tra il corpo e il luogo, elementi antichi e attuali di conflitto, alcuni di questi giovani possano sentirsi più sensibili all’identificazione coi nonni e coi  parenti di laggiù, di quei luoghi oggetti di bombardamento, che coi nuovi concittadini di qui, i luoghi dai quali partono i bombardieri. Concittadini che offrono loro sì, nel migliore dei casi, integrazione, ma mai un’integrazione che possa essere sentita da loro come tale, forse, davvero fino in fondo.
  4. La religione e la tradizione (islamiche) non sono così soltanto, in questo contesto, una bandiera posticcia sul terrore, un pretesto, ma paiono costituirsi piuttosto come un insieme di fattori religioso-tradizionali in grado di catalizzare polarizzazione identitaria: e qui il pensiero corre ancora a Frantz Fanon, a quello dell’Anno V della Rivoluzione algerina e de I dannati della terra, che in indimenticabili pagine ha delucidato questo passaggio con una chiarezza, credo, insuperata e di assoluta e drammatica attualità. «In quel periodo mi trovavo in un tale stato d’animo che se fossi stato un americano mi sarei sporto dalla finestra e avrei cominciato a sparare sulla gente»: questa, che cito a memoria e in modo approssimativo, era la battuta iniziale de “Il coltello in testa”, un film realizzato da Reinherd Hauff nel 1978 in Germania sul fenomeno del terrorismo politico. E gli ultimi attentatori suicidi (così non era forse per i primi), sembrano incarnare insieme il vuoto della proposta che l’Occidente rivolge al giovane che questa frase testimonia, e la disperazione che può proporgli un Medio Oriente teatro ormai da decenni d’insensata macelleria umana e spietate e altrettanto insensate guerra globale e fratricida tra tutti e tutti. I sacrifici umani solenni e spietati consumati nei selfies dei boia del Califfo, insomma, come un mito, nuovo e arcaico insieme (nuovo negli strumenti di diffusione, arcaico nella sostanza), capace di fare uscire dall’assenza di senso che possono dare il vuoto che sperimenta l’Occidente e la disperazione, ad esso speculare, che sperimenta il Medio Oriente.
  5. Ancora, credo che sia indispensabile considerare, accanto a tutti questi, anche fattori geopolitici: di carattere globale come lo scontro tra potenze globali, Russia e Occidente, scontro ormai orfano del suo rappresentare progetti di mondo diversi – l’enfasi su uno dei due valori emersi dalle rivoluzioni borghesi, eguaglianza e libertà, a detrimento dell’altro – ma stranamente persistente. E poi le esigenze del mercato delle armi e di quello del petrolio. E’ pure innegabile che, in tutto questo casino, ogni volta che faccio benzina io la pago un quarto in meno di quanto la pagavo solo qualche anno fa, e la fantasia che ogni volta questo mi scatena, guastandomi il piacere, è che il quarto di denaro che io risparmio sia stato versato da qualcun altro, in litri di sangue. Papa Francesco ha commentato oggi in questi termini l’omicidio, avvenuto ieri, dell’abate di Rouen: «Non c’è guerra di religione, c’è guerra di interessi, per i soldi, per le ricchezze naturali, per il dominio dei popoli». Sante parole! Occorre poi considerare tra i fattori geopolitici anche quelli di carattere locale, a rendere la situazione ancora più complessa, dal riesploso sanguinoso conflitto sciiti-sunniti allo scontro tra le potenze regionali, la triste gerontoteocrazia al potere in Iran, la ferocia arcaica delle petromonarchie e del Golfo, il neocolonialismo israeliano, i regimi autoritari e sanguinari installatisi in Egitto e in Turchia.
 
Mi pare che nessuno di questi possibili fattori escluda gli altri, probabilmente nessuno sarebbe sufficiente da solo a motivare un attentatore, ma forse alcuni di essi possano contribuire – in proporzione e con modalità certo diverse da un caso all’altro, perché ognuno di questi episodi ha storia propria  – alla miscela necessaria per ottenere purtroppo, di volta in volta l’esplosione.
Per questo, io credo proprio che questa follia non sia follia. O, se proprio si vuole, che in queste follie – nel senso di atti in sé folli (così simili però a quegli atti normali dei grandi del mondo, ai quali diamo il nome di guerra), non certo di atti di persone folli (se non, eventualmente, in qualche raro caso, e comunque sempre a traino della follia delle persone la cui mente vediamo funzionare in modo normale) – ci sono molte ragioni che è alla nostra razionalità, più che alla sempre “altrui” follia, che devono essere fatte risalire.  
 
 

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