I Peter Pan della globalizzazione
Dall'adolescenza all'età adulta oggi, nell'epoca del precariato e della globalizzazione
di Leonardo (Dino) Angelini

Bikini, burka e burkini. Modelli di femminilità a confronto nell’epoca della globalizzazione. Alcune note.

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24 agosto, 2016 - 22:18
di Leonardo (Dino) Angelini
È noto che ogni cultura elabora delle proprie immagini della corporeità, destinate poi a mutare con il mutare delle condizioni sociali ed economiche che le hanno prodotte. David Le Breton e Umberto Galimberti nei loro testi sulla corporeità ricostruiscono a grandi linee le varie immagini della corporeità che si sono succedute nella nostra cultura. La stessa cosa in fondo aveva fatto vari decenni prima di loro Huizinga nel ricostruire le vicissitudini della corporeità all’interno del percorso storico compiuto dall’homo faber e dal suo rovescio rappresentato dall’homo ludens.
E Baudrillard, nel suo classico lavoro su “La società dei consumi”, pone in evidenza come lungo il ‘900 nella nostra cultura siano emerse due nuove immagini della corporeità: dapprima quella dell’”uomo robot”, figlia del taylorismo, successivamente quella dell’”uomo mannequin” , figlia della società consumistica, che dapprima affianca, poi sopravanza quella precedente. Immagine precedente che però non scompare, così come non scompaiono le precedenti immagini ‘occidentali’ della corporeità, che semmai si incistano in alcune enclave culturali, all’interno delle quali evidentemente continuano ad aver senso[1].
Queste sono  le prime considerazioni che mi sono venute in mente in questi giorni leggendo ed ascoltando i vari pareri sulla questione del burkini. E questo a mio avviso può essere un utile, anche se di per sé insufficiente punto di partenza per avvicinarsi al tema.
Utile perché ci permette di affrontare il tema della corporeità prendendo in considerazione la particolarità e la storicità di ogni tratto culturale, figlio di ogni carattere etnico e di ogni corrispondente inconscio etnico, avrebbe detto Devereux.
Insufficiente perché ciò che c’è all’odg in tema di burkini non è genericamente la corporeità, ma - per dirla con Lorella Zanardo - ‘il corpo delle donne’, cioè la corporeità al femminile, con tutti gli incroci di sguardi, di significati, di introiezioni, di rimozioni, di interdetti, etc. che in esso incombono.
Un campo minato quindi già prima che arrivassero gli immigrati e le immigrate: vedi tutte le vicissitudini e le violenze (verso gli altri e verso se stessi) che provengono dal versante dell’uomo .. e della donna mannequin! Un campo che all’improvviso è diventato esplosivo allorché le prime, le seconde e (come in Francia) le terze generazioni degli immigrati hanno preso ad usare le immagini della corporeità maschile e femminile che derivano dalle proprie tradizioni ( e perfino i loro corpi materiali) come vessilli che a volte imitano, a volte contraddicono, a volte tendono a contaminare e meticciare le varie imago della corporeità dalle quali sono attraversati.
E, con la loro contiguità, con lo spessore -per quanto denegato- della loro presenza corporea, con il valore simbolico –per quanto ridotto a stereotipo- che deriva dai loro modi di essere, di vestire, di vivere la loro religiosità, etc., hanno spinto anche noi a fare i conti con loro.
Si è creato così un campo in cui i precipitati di ogni immagine di corporeità concorrono nel definire un insieme di vissuti, che variano da città a città, da regione a regione, da stato a stato, da cultura a cultura. Immagini che possono condurre ‘alla guerra’, o alla ghettizzazione, o all’integrazione, o al meticciamento culturale. O a qualsiasi soluzione intermedia che derivi dalla ibridazione fra l’una e l’altra di queste soluzioni.
Questo a grandi linee è a mio avviso il campo che contiene noi e loro, senza alcuna distinzione di genere: un campo, come è possibile intuire, già saturo di tensioni.
 
Ciò che però emerge di tanto in tanto quando si parla delle donne immigrate, e che riemerge con virulenza nel dibattito sul burkini, è qualcosa di più complicato, perché la scomposizione in base al genere di questo campo già saturo pone in evidenza la natura sessuata di due soggetti collettivi:
1. gli uomini autoctoni ed immigrati – che parlano e che – sia pure con accenti diversi – hanno, o pretendono di avere voce in capitolo (anche) sul corpo delle donne. Di tutte le donne: cioè sia di quelle autoctone che delle immigrate, di qualsiasi etnia esse siano.
2. E, di fronte ad essi, le donne, autoctone ed immigrate, attraversate da immagini della femminilità (oltre che della maschilità) che provengono loro dalle diverse tradizioni culturali cui esse appartengono. Immagini della femminilità che però sono fortemente imbevute di quelle proiezioni che gli uomini di qui e di lì hanno sempre gettato su di esse: sui loro corpi e sulle loro anime (anche attraverso la colonizzazione del pensiero e del cuore delle loro madri), nel tentativo di descriverle e, direi, circoscriverle per esorcizzare la loro irriducibile alterità.
Sappiamo che sia qui che lì da vari decenni ormai le donne vanno portando avanti aspre battaglie per sottrarsi a queste costrizioni e per emergere con la pienezza dei loro profili nello stesso tempo autonomi e cultural – specifici, anche in tema di corporeità.
Sappiamo, ce lo ricorda la Spivak, che le donne che vengono a noi da lì devono compiere un doppio processo di autonomizzazione, in grado di emanciparle sia dai vecchi vincoli patriarcali che dalle sirene consumiste.
Sappiamo altresì che questi movimenti da una parte sono contraddetti anche in tema di corporeità, dalle sirene consumiste che tendono ad annullare o, più subdolamente, a ridurre la femminilità a feticcio (ciò ovviamente vale anche per gli uomini!).
Ma sappiamo anche che per altri versi, quando riescono a sottrarsi a queste mistificazioni, sono in grado di indurre nel resto del ‘campo’ una serie di movimenti difensivi o progressivi, nostalgici o predisponenti alla contaminazione.
Il caso del burkini, per le sue molteplici allusioni in tema di corporeità femminile, è emblematico in proposito. Fa da catalizzatore di ogni investimento e di ogni interdetto. Mobilita sia gli uomini  che le donne; sia gli autoctoni che gli immigrati; sia i singoli che gli stati.
E, come ha dimostrato un importante reportage di “Famiglia Cristiana”, viene assunto per i motivi più disparati, che vanno da un gesto di ossequio di fronte ad una richiesta maschile e maschilista che tende ad inscrivere il corpo femminile all’interno di un a camicia di forza patriarcale, fino ad un gesto di ribellione femminile e giovanile nei confronti di una società vissuta come ghettizzante e violenta, e di adesione reattiva al radicalismo islamista. Insomma una specie di eskimo sessantottino a rovescio (nel qual caso è e evidente che vietarlo risulta un gesto di stupidità poliziesca).
 
Diversa, molto diversa è la transigenza nei confronti del burka,  che coprendo il volto pone colei che lo indossa e colui che la costringe ad indossarlo in contraddizione con uno dei fondamenti del modo di vita metropolitano: la singolarità della nostra identità. Che viene prima ed è più importante della nostra appartenenza ad una famiglia, ad un clan, ad un popolo.
Una transigenza equiparabile a quelle, per fortuna meno consuete e permesse nelle nostre società, che vanno dalla escissione alla infibulazione, dalla poligamia alla schiavitù, al potere di vita o di morte nei confronti dei figli ed altre turpitudini patriarcali.
Ma sia di fronte a queste brutture, sia di fronte agli impatti meno drammatici derivanti dall’incontro di due o più culture è necessario che la cultura egemone (cioè in questo caso noi) predisponga cerimonie di accoglienza (che ad es. si concludano con un solenne giuramento sulla Costituzione) e processi di affiliazione (Moro) che ancor oggi clamorosamente mancano, e che sono all’origine ‘dopo’ di molti malintesi. Ma questo è un altro discorso che ho già affrontato in altra sede; cfr: “I nostri riti di passaggio e i loro”; e “Filiazione e affiliazione. I figli dei migranti fra famiglia e scuola”-

 
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Bibliografia
Baudrillard D . J., 1976, La società  dei consumi,Bologna, Il Mulino
Devereux G., 1978, Saggi di etnopsichiatria generale, Roma, Armando
Galimberti U., 1987, Il corpo , Milano, Feltrinelli
Huizinga J, 1973, Homo ludens, Torino, Einaudi
Le Breton D., 1990, Anthropologie du corps et modernité, Paris, PUF
Moro M. R., 2002, Genitori in esilio. Psicopatologia e migrazione, Milano, Raffaello Cortina
Spivak Chakravorty  G., 2003, Morte di una disciplina, Roma, Meltemi
Zanardo L., 2010, Il corpo delle donne,  Milano, Feltrinelli
 
 



[1] Vedi le immagini di corporeità della comunità Hamisch, così come appare nel film “Il testimone”
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