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FARE E PENSARE… ANCORA. 20 anni dalla scomparsa di Dario De Martis

22 Set 16

A cura di Paolo F. Peloso

La partecipazione alla giornata di studio “Dario De Martis, uno psichiatra psicoanalista: attualità di una prospettiva scientifica” organizzata da allievi e collaboratori a Pavia il 16 settembre scorso per la ricorrenza dei 20 anni dalla scomparsa, mi ha indotto a ripensare alla lezione di questo maestro della psichiatria italiana contemporanea dal mio punto di vista, di psichiatra dei servizi.   Per farlo, ho scelto di riprendere in mano, tra i suoi testi, quello con il quale ho maggiore confidenza: Fare e pensare in psichiatria. Relazione e istituzione[i]. Pubblicato nel 1987, quando ero studente, mi era stato segnalato poco dopo da Alessandra Berti – una collega di poco più grande e troppo presto scomparsa, con la quale condividevamo in quegli anni la curiosità dei primi passi – ed  è stato, con i manuali di Giberti e Rossi, Sarteschi ed Ey che avevo utilizzato per preparare l’esame e gli scritti più classici del gruppo di Basaglia con i quali avevo avvicinato la questione psichiatrica negli anni precedenti, una delle mie prime letture nella  psichiatria, quella che mi ha messo di fronte a una riflessione sulla complessità e ricchezza del lavoro nei servizi, allora conosciuti soltanto da fuori. Ad esso, e ad altri scritti del gruppo pavese che ho poi via via recuperato, sono ritornato spesso[ii] per riscontrarvi sempre una straordinaria sorprendente capacità di focalizzare quelli che erano allora – e rimangono oggi a maggior ragione mi pare – gli elementi critici fondamentali nella vita dei servizi. Una vita che è fatta soprattutto di fare e di pensare, e quando ci si riesce farlo insieme, infondo. Di questo, e non di altro, credo che dovremmo soprattutto oggi continuare a occuparci; non di ritocchi, ad esempio, a una legge che, forse certo come ogni cosa umana perfettibile, apre comunque già così com’è la possibilità di fare cose straordinarie (si tratta, semmai, di rimboccarci le maniche e farle). E non, per carità, degli ultimi ritocchi alla nosografia che, ancorché per definizione imperfetta, difficilmente può davvero essere migliorata o peggiorata in modo significativo, mi pare; né con le sue oscillazioni potrà mai recare qualcosa di utile ai malati. A queste diverse ma simili modalità di un pensare che rischia di essere fine a se stesso, a questi modi diversi ma simili di esaurirsi nel tessere inconcludibili e inconcludenti tele di Penelope, credo che si debba preferire fare, e se si può fare bene; e al nostro fare credo che soprattutto dovremmo pensare, come il titolo davvero azzeccato del testo insegna.
Già nel titolo il volume evoca infatti questioni delle quali, conoscendo via via meglio gli ambienti psichiatrici italiani, avrei colto negli anni più pienamente l’importanza. In primo luogo, ovviamente, il rischio continuo di una divaricazione – che bisognerebbe sempre cercare di evitare – tra fare e pensare, cioè tra chi fa e chi pensa. Che sta nella scarsa corrispondenza tra ambienti accademici, i luoghi dove si pensa (o almeno si dovrebbe pensare), e mondo dei servizi, i luoghi dove si fa (o, anche in questo caso, a volte si dovrebbe fare), risalente ancora alla scelta scellerata attuata circa un secolo fa di separare insegnamento universitario e lavoro in manicomio. Ma anche, all’interno dello stesso mondo dei servizi, nella separazione tra la, infondo ristretta, pattuglia di coloro che partecipano ai convegni (dove spesso il pensare, peraltro, ha assai poco a spartire con il fare) e alla vita delle Società scientifiche – sempre meno capaci di coinvolgere, focalizzare sul fare della psichiatria l’interesse ed essere quindi davvero rappresentative – e la massa dei colleghi che tutti i giorni, nella pratica dei servizi, fanno, e spesso fanno bene e spesso non hanno tutto il tempo che vorrebbero e di cui avrebbero bisogno per pensare al proprio fare. Fare e pensare, dunque: in un indissolubile legame capace di far sì che si pensi soprattutto a quello che si fa (e quanto del pensare degli operatori psichiatrici che pure coltivano interessi teorici, invece, con quello che fanno durante le ore in servizio c’entra invece spesso ben poco…), e si faccia sempre pensando.
A emergere dalla giornata di studio del 16 settembre è stata soprattutto la coerenza che De Martis ha in prima persona incarnato tra il fare del lavoro psichiatrico e il pensare che trovava poi riflesso nell’attività formativa e negli scritti: è stato uno psicoanalista (forse atipico perché troppo psichiatra, nonché per la tendenza, che Antonino Ferro ha ricordato, a interpretazioni di situazione in anni nei quali ad andare per la maggiore erano quelle di transfert). Sempre disposto a contaminare, facendo storcere il naso a tanti allora, come Francesco Barale ha ricordato, “l’oro della psicoanalisi con i più vili metalli della psichiatria”. Ma è stato anche in senso pieno uno psichiatra, atipico in questo caso per la centralità che nel suo pensare occupava la psicoanalisi (su entrambi questi elementi di atipia, traspare un certo sornione compiacimento a p. 23). Ma anche per l'apertura verso tante novità introdotte dalla socioterapia  francese: l'attenzione per il coinvolgimento del personale non medico, quella per il sociale nel quale s'inscrive la storia del paziente, la scelta di fare dello scacco rappresentato dalla lungodegenza manicomiale punto di partenza etico, politico, scientifico e umano. E poi è stato un docente di psichiatria, ancora atipico per l’abitudine a fondere fare e pensare la psichiatria nell’endiadi indissolubile che dicevamo, a partire dalla maleolente corsia manicomiale e poi fino alla rivoluzione dell’ingresso della psichiatria in ospedale e alla vertigine del lavoro nel territorio. Nella consapevolezza che non può insegnare la psichiatria – come ogni altra cosa forse, del resto – chi non sta nei luoghi dove essa in quel momento storico si dà, manicomio o servizi, cioè chi non ne ha diretta esperienza in un fare che al pensare, che fonda a sua volta l’insegnare, fornisce la materia bruta, il fondamento. E’ stato poi uomo civilmente impegnato (a partire dal coinvolgimento giovanile nella Resistenza[iii]), affascinato nel cogliere della rivoluzione basagliana la caratura etica, oltre che pratica, tecnica, scientifica (p. 7); ed è su questa dimensione di “impegno”, per come qualche anno fa lo s’intendeva, che abbiamo sentito Fausto Petrella soprattutto insistere: per ricordarci (certo, a noi operatori; ma anche agli amministratori responsabili delle nostre risorse), bonario e insieme severo, senz’altro preoccupato e in ogni caso molto chiaro, insieme alla flessibilità – alla capacità cioè di regolare l'intervento sull'ascolto partecipe dell'altro, del suo mondo affettivo  e la sua storia – come cifra fondamentale dello stile di lavoro di De Martis ("calda lacrima bambù di un'anima" sono le parole con cui Guido Saltamerenda chiude una poesia dedicata al maestro),  che: “è uno schifo che ci si occupi dei malati di mente, senza pensare che sono persone”. E, ancora, che “occorrono  operatori preparati e disponibili, e insieme amministratori sensibili, occorre un lavoro psichiatrico all’altezza della persona, la sua umanità e il suo valore”: perché “se gli anni ’70 hanno portato in dote la chiusura dei ghetti,  oggi non dobbiamo riaprirne di nuovi”.  Che il nucleo dell'insegnamento di De Martris, infondo, è  di lottare per la psichiatria.
Queste quattro diverse dimensioni, sfaccettature della persona di De Martis, lungi dal distrarlo l’una dall’altra, si sono nutrite vicendevolmente. Fare e pensare, appunto.
Né mi pare meno importante il sottotitolo del testo, che fissa in modo lapidario la centralità di due pilastri sui quali il gruppo pavese che intorno a sé aveva riunito fondava il suo innovativo modello di psichiatria: relazione, cioè la qualità dello stare tra noi per l’altro e dello stare noi con l’altro (il paziente, ma anche il familiare); e istituzione, cioè lo spazio, il tempo, l’organizzazione, i ruoli all’interno dei quali la relazione, che è relazione di cura, si dà[iv]. Fare e pensare relazione e istituzione, quindi: di questo si tratta, e il libro allora è documentazione di un lavoro collettivo, di équipe, i cui punti centrali esposti fin dalla prima pagina sono identificati nei quattro seguenti (p. XI). In primo luogo, attenzione costante ai movimenti transferali e controtransferali nel rapporto con pazienti e familiari (relazioni, dunque; innanzitutto relazioni fatte, e poi anche relazioni pensate con riferimento al modello teorico prescelto); perché dopo la 180, “fuori del tempo siderato e dello spazio raggelante” del manicomio, le teorie delle quali la psichiatria può essere forte (fenomenologia e psicoanalisi, ipotesi sociogenetiche e approccio sistemico) sono finalmente  libere di mettere a disposizione le loro potenzialità “comprensive, significanti e disalienanti” (p. 14) a partire dalle quali poter guardare con sguardo nuovo aspetti cruciali della psicopatologia classica, a partire dall’esperienza delirante, ai quadri dissociativi, alla confusione mentale, al circolo maniaco-depressivo. Poi, coinvolgimento nel sociale in quanto contesto nel quale la sofferenza psichica si esprime, e può trovare soluzione; oggi potrebbe parere scontato ma per la psichiatria, l’Università, la psicoanalisi di quegli anni, che al sociale guardavano per motivi diversi l’una dall’altra con sospetto, era elemento fortemente innovativo e certo non scontato. Ancora, abitudine alla discussione collettiva nell’équipe multiprofessionale come integrazione di apporti tecnico-conoscitivi, ma anche emotivi; resa, già allora, difficile dai ritmi di lavoro che si fanno talora frenetici e dalla complessità del mantenere coesa e coerente un’azione collettiva che tende per sua natura a parcellizzarsi. Fare e pensare insieme, insomma, che richiede più fatica di quanto già non ne richieda fare pensando e pensare a ciò che si fa. E ancora, infine, connessione dell’impegno didattico e formativo a ogni momento dell’attività osservativa, terapeutica e riabilitativa nelle strutture dell’ospedale generale – dove la psichiatria entra non per omologarsi alla sua filosofia, ma per farsi “pratica rivoluzionaria” (p. 10) – e del territorio, quel territorio dove non è possibile illudersi che la spinta all’esclusione che aveva generato il mostro manicomiale sia esaurita ma deve essere ancora rintuzzata non più con la tecnica della battaglia campale, ormai, ma ora della più estenuante guerra di guerriglia (p. 7).
Ce n’è abbastanza, mi pare, per quello che mi proponevo; richiamare brevemente e sommessamente attraverso pochi spunti la preziosa attualità di un libro meritatamente del resto assai noto che documenta il fare e pensare di una persona e di un gruppo. Un libro che non sarà oggi l’ultima novità editoriale, certo, ma forse ha molto da dire ancora, e da ridire a chi, come me, lo aveva chiuso da un po’. Molto da far pensare, e da aiutare a fare e fare bene.
Non è mia intenzione addentrarmi ulteriormente nella ricchezza di un testo, peraltro appunto noto ai più, che nelle sue pagine affronta la nuova psichiatria per come emergeva dal primo decennio della sua storia nei suoi molteplici aspetti: le nuove potenzialità osservative offerte dal superamento del manicomio, la complessità dell’integrazione tra psicoterapia istituzionale e lavoro dei servizi, le nuove potenzialità di elaborazione teorica offerte dal territorio, gli elementi di complessità nel funzionamento interno dell’SPDC nella sua relazione con l’ospedale e i rischi di inedite forme di cronicità, e poi ancora la relazione con le famiglie, il lavoro in ambulatorio, al domicilio, il lavoro con gli anziani. O siamo cambiati davvero così tanto, in trent’anni, che altro e non più questo è quello di cui oggi ci occupiamo, e queste questioni hanno perso interesse per noi?
 

[i] D. De Martis, F. Petrella, P. Ambrosi (a cura di), Fare e pensare in psichiatria. Relazione e istituzione, Milano, Cortina, 1987. Il testo faceva seguito ad altre monografie del gruppo pavese, tra le quali ricordo: D. De Martis, F. Petrella, Sintomo psichiatrico e psicoanalisi. Per una epistemologia psichiatrica, Milano, Lampugnani Nigri, 1972; D. De Martis, M. Bezoari (a cura di), Istituzione, famiglia, équipe curante. Pratiche e teorie a confronto, Milano, Feltrinelli, 1978; D. De Martis, F. Petrella, E. Caverzasi (a cura di), Il paese degli specchi. Confronto con lungodegenti manicomiali, Milano, Feltrinelli, 1980.
[ii] Ricordo in particolare: P. Ciancaglini, P.F. Peloso, Cultura psicoterapica e trasformazione dei servizi psichiatrici, in: AA. VV.: Dalla comorbilità alla complessità: nuovi percorsi psicoterapeutici (a cura di P.M. Furlan), Torino, CSE, 2007, pp. 3-9; P.F.Peloso, L. Pesce, Il fermento di un pensiero critico. Intervista con Fausto Petrella, in: P.F. Peloso, L. Pesce (a cura di), 180: vent’anni dopo, Varazze (SV), Ediz. Redancia, 1998, pp. 137-143 (poi rielaborato in: P.F. Peloso, L. Pesce, F. Petrella, Esperienze e trasformazioni nella psichiatria dal 1964 a oggi. Ricordi, osservazioni e riflessioni, in: AA. VV.: Lavorare in  psichiatria. Manuale per gli operatori della salute mentale, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, pp. 430-437 e in: F. Petrella: Occasioni di dialogo. Quarant’anni di presentazioni, interviste e recensioni psicoanalitiche, Torino, Antigone ed., 2010, pp. 225-239).
[iii] La circostanza è ricordata da F. Petrella in: Dario De Martis, uno psichiatra, uno psicoanalista, Rivista di psicoanalisi, 1997, 2.
[iv] Su istituzione e deistituzionalizzazione in psichiatria rimando in questa stessa rubrica a: PSICHIATRIA, ISTITUZIONE, DEISTITUZIONALIZZAZIONE.

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