I cinquecento anni dalla prima edizione (le successive sono del 1521 e, quella definitiva, del 1532) dell’Orlando furioso sono stati celebrati con una mostra al Palazzo dei Diamanti di Ferrara che chiuderà l’8 gennaio e dalla pregevole riedizione critica del poema, da parte dell’editore Einaudi[i], una sinopsi tra le diverse edizioni. Per parte mia, più modestamente, sono stati l’occasione per ritornare a scorrere – dopo gli indigesti assaggi studenteschi (io, oltre tutto, parteggiavo decisamente per il Tasso) – le piane e serene ottave di Ludovico Ariosto (1474-1533), i versi simpatici con i quali le chiude e i repentini e capricciosi cambi di scena, i simpatici arrivederci al termine di ciascun canto. I toni dolci, a volte spiritosi o sorprendentemente lascivi, le affascinanti metafore, amore, orgoglio e i mille complessi sentimenti delle donne e dei cavalieri. E ancora, la commuovente devozione di Medoro per il suo re, il cui corpo morto difende, alla luce di un soffuso albeggiare che sarebbe stato meglio ritardasse, come l’orsa gli orsacchiotti di fronte al cacciatore[ii], e quella di Cloridano per lui. La cangiante fantasmagoria di un vagabondare tra sogno e realtà tra la magia di cavalli volanti, palazzi incantati dalle vane apparenze dove «assume l’aspetto di magica favola l’umano atteggiamento della fantasia che raggiunge e smarrisce e ritrova le immagini del cuore»[iii], anelli fatati che rendono invisibili o talismani che annullano magie, la sognante casa del sonno o l’isola dove la maga Alcina ammalia i cavalieri. Il clima di evanescenza fantastica, insomma, di visionario attenuarsi della realtà che pervade questo lungo sogno letterario.
Spunti per una psicologia della relazione amorosa e della violenza di genere
L’amore, anzi gli amori nel senso delle infinite declinazioni che esso può assumere, è, con le donne e i cavalieri che se ne rendono protagonisti e con le armi, l’oggetto, enunciato fin dal primo verso, del poema. Molto più interessanti e avvincenti, peraltro, almeno oggi, le pagine dedicate ad essi che non alle armi[iv], che suonano ripetitive e stucchevolmente faziose, con miracoli e magie come armi segrete tutte in mano ai franchi e i saraceni che verso il finale o passano nel campo dei buoni, convertendosi, o vengono uccisi. E questo sia che si tratti degli amori commuoventi e accidentati in un mondo di desiderio e incantesimo che rimanda piacevolmente alla fiaba: Ruggiero e Bradamante; Ariodante e Ginevra; Olimpia tra Bireno e Oberto; Zerbino e Isabella; Doralice tra Rodomonte e Mandricardo; Norandino e Lucina; Fiordiligi e Brandimarte; Fiordispina e Bradamante, anche; e poi naturalmente Angelica e Medoro. O che si tratti invece degli amori prepotenti, infantili, predatori e violenti di molti protagonisti maschili per donne riluttanti; Orlando e tanti altri per Angelica, anzitutto. L’amore – talvolta intrecciato in modo complesso con l’orgoglio, la gelosia, l’invidia, il che del resto è nell’esperienza comune – è nel poema una forza che trascina, e spesso al punto tale da distrarre dalle armi, dalla fedeltà cioè al proprio re e alla guerra di religione in cui si è impegnati o dai doveri d’ospitalità e ad altre regole della cavalleria.
L’amore può cioè costituire, ed è nel poema il caso di Orlando ma certo non solo, l’oggetto di quella forma di esistenza mancata che Ludwig Binswanger definisce “esaltazione fissata”[v], un modello che abbiamo già avuto modo di proporre quest’anno per don Chisciotte[vi]. L’ampiezza cioè, la moltitudine di dimensioni che l’esistenza normalmente presenta per ciascuno è ridotta a un’unica idea, a un unico sentimento (abbiamo parlato d’idea per il più razionale Chisciotte, e parliamo di sentimento per il più passionale Orlando). Nel suo caso, si tratta di coronare l’amore per Angelica, un amore che la bellissima, amata da tanti cavalieri, non contraccambia. Questo sentimento – che è almeno altrettanto orgoglio che amore, amore di sé più che dell’altra – fa ombra a tutto il resto, pur non mancando certo, anche per lui, digressioni, perché neppure lui può sottrarsi del tutto alla dissipazione, al perdersi cioè per poi ritrovarsi, che costituisce il ritmo generale del poema[vii]. Orlando è un paladino, ma per porsi all’inseguimento di Angelica lascia il suo re in pericolo ed è una forma, questa, che l’esistenza di Orlando assume già prima della furia e che in certo modo a essa lo predispone. Ed è questa esaltazione fissata nell’innamoramento che, di fronte all’evidenza della sua impraticabilità, determina nella mente del paladino un ingorgo, come se si volesse far uscire un liquido (il dolore, le emozioni) da una bottiglia dal collo fattosi troppo stretto – l’efficace metafora è nel testo[viii] – che lo porta al delirio e all’esplosione del sentimento trasformatosi in rabbia e disperazione. Lo porta al rifiuto e alla rabbiosa (e pericolosa, ma anche insensata e inutile) aggressione della realtà, per l’impossibilità di adattarla a quell’unico desiderio al quale la mente si è fissata. Emblematico è del resto anche il caso di Tanacro, uno dei due figli di Marganorre, che cade nell’inganno dell’amata Drusilla alla quale ha ucciso, per sgombrarsi il campo, il marito perché «sì la voglia ha in uno oggetto intensa, / che sol di quello, e mai d’altro non pensa»[ix]. Sembra proprio una definizione della sproporzione antropologica, che fa sì tra l’altro che nell’amore vissuto nella forma dell’esaltazione fissata non c’è posto neppure per l’altro come soggetto.
Questi cavalieri, insomma, sono più esposti al rischio dell’esaltazione fissata perché presentano (siano essi mori o cristiani) in più casi una personalità che definiremmo narcisistica, caratterizzata da egocentrismo, smisurato orgoglio e infantile incapacità di tollerare anche la minima rinuncia e frustrazione (dimenticano la guerra e ogni dovere a fronte anche del minimo torto subito, come la perdita di un cavallo, di una spada, di uno scudo, figuriamoci di una donna). Sotto il profilo psicologico, i protagonisti del romanzo di cavalleria non paiono dunque evoluti dai tempi antichi, quelli in cui l’ira funesta di Achille tanti lutti addusse agli Achei. E appare quindi ovvio che le figure allegoriche di superbia e discordia, aizzate dall’angelo a difesa dei cristiani, abbiano buon gioco ad scatenare nel campo saraceno un contro l’altro soggetti così predisposti alla competizione.
Sono, salvo rare eccezioni, egocentrici, possessivi, egoisti, orgogliosi, gelosi e ciò influenza, tra l’altro, le modalità del loro amare. A Mandricardo, che ha conquistato armi in pugno Doralice come un trofeo a Rodomonte, appare ovvio avere nella sua disponibilità Marfisa per offrirla al rivale in cambio, quando sconfigge i cavalieri coi quali ella si accompagna in abito muliebre, salvo ricredersi quando la donna dimostra di sapersi essa stessa battere come un uomo per la propria libertà, cioè di essere, sul piano sociale, in quanto capace di duello, un uomo; e appare del resto eccezionale la scelta del re Agramante di attribuire a Doralice la scelta tra i due pretendenti, una scelta che a posteriori il deluso Rodomonte, pur di non accettare la frustrazione, considererà non diversa dall’aver tirato la decisione a sorte, tanto inaffidabile e volubile gli pare la scelta di una donna[x]. E lo stesso Rodomonte poi, ubriaco, vorrebbe approfittare d’Isabella che viaggia in compagnia del cadavere di Zerbino e ha tutt’altri desideri in quel momento di lutto recente, e finisce col cadere nel banale tranello con il quale la donna ottiene da lui la morte che desidera, per unire il suo destino a quello del consorte e per evitare lo stupro. Ma poi anche i due figli di Marganorre, che per “quel desir che nominiamo amore” di due donne sposate, non riuscendo a sedurle, non esitano a cercare di renderle vedove per poterle avere, riuscendovi in un caso salvo poi incorrere nell’odio e nella vendetta della donna. Persino Ruggiero, un personaggio in altre occasioni più capace di pensare, considera ovvio il fatto di poter disporre a suo piacimento del corpo di Angelica, per averla salvata dal mostro marino.
Bestioni che il vino o la furia possono rendere più pericolosi, insomma, questi cavalieri. Orlando, incontrata nella furia Angelica sulla spiaggia di Barcellona, la inseguirà per ucciderla come distrugge ogni altra cosa intorno a sé. E Rodomonte, affranto non sappiamo quanto del sentimento di colpa o da quello di vergogna, reagisce all’involontario femminicidio ripetendo, come un atto compulsivo, il gioco del duello in onore di Isabella (altro non sa fare che combattere, e non ha quindi da offrire alla sua memoria), finché umiliato da un’altra donna, in questo caso in armi, Bradamante, è costretto a interrompere il rituale riparativo e, capriccioso, allora si spoglia delle armi: “se perdo, e per di più perdo da una donna, non gioco più, insomma!”.
Sono un pericolo in primo luogo per se stessi. Nel caso di Ariodante, infatti, l’esaltazione fissata nell’amore, o meglio nella gelosia, porta al rifiuto della realtà nei termini di un tentato suicidio per amore, che così il fratello commenta: «”Ah misero fratel, fratello insano” / – gridò – “perché hai perduto l’intelletto, / ch’una femina a morte trar ti debbia? / Ch’ir possan tutte come al vento nebbia”»[xi]. Del resto, il pensiero suicidario è per molti la reazione quasi automatica alla sensazione della delusione in amore; così è per Bradamante o Ruggiero, ad esempio.
Ma l’eccitazione fissata nella passione amorosa può portare invece al capovolgimento dell’amore deluso in violenza contro l’amata, e le questioni dell’oppressione della donna nella società patriarcale e della violenza di genere in famiglia sono presenti ad Ariosto e affrontate a più riprese, direttamente dalla voce autoriale, o da qualcuno dei personaggi.
L’Ariosto, inteso come voce autoriale, cade sovente in luoghi comuni di ogni tempo sulla donna, ammiccando, seduttivo, al lettore con accenni alle proprie personali esperienze. Poi, in genere, si riprende col criticare quelli stessi luoghi comuni, come se intendesse mettere in scena un suo conflitto interiore – il che è verosimilmente un gioco retorico – tra una parte di sé più impulsiva ferita dalla donna e desiderosa di rivalsa, e una più ragionevole che si sforza di guardare con più obiettività la questione[xii].
Ci sono passaggi, però, nei quali la consapevolezza dell’ingiusta condizione d’inferiorità in cui la donna è mantenuta in una società fortemente patriarcale emerge in modo sorprendentemente chiaro e moderno; ad esempio quando in chiusura del IV canto Rinaldo – legato fin dal poema di Boiardo ad Angelica da una relazione simmetrica e speculare che li porta a desiderarsi in proporzione inversa l’un l’altra – contesta la violenza sociale rappresentata dalla legge che fa sì che Ginevra rischi la pena capitale per avere permesso a un uomo di sedurla, mentre l’uomo al quale si è concessa ne andrà, oltre che impunito, lodato: «son fatti in questa legge disuguale / veramente alle donne espressi torti»[xiii]. O poi lo stesso paladino, di fronte al lamento di un marito tradito per avere voluto testare la fedeltà della sua donna, commenta: «se te altrettanto avesse essa tentato….»[xiv]; e poco oltre raccoglie dal nocchiero che lo conduce sul Po la storia del reciproco tradimento di Anselmo e Argia, un inno alla simmetria e uguaglianza tra uomo e donna in tema di fedeltà, con Argia che impone: «di par l’avere e ‘l dar, marito, poni»[xv]. La stessa simmetria caratterizza, nel canto XXXVII, il simpatico avvicendamento – ad opera delle due cognate cavaliere, Bradamante e Marfisa, per le quali è evidente la simpatia dell’Ariosto – della tirannia misogina di Marganorre (a proposito della quale sono notevoli le osservazioni della voce autoriali in tema di psicologia delle masse) con una dittatura matriarcale che impone, come legge fondamentale, il rispetto della donna. Nel canto XL troviamo un fugace accenno al biasimo di Orlando e Astolfo per gli stupri che fecero seguito alla presa di Biserta, e non furono in grado d’impedire[xvi], che è interessante e, purtoppo, attuale. O ancora, in apertura del V canto, la voce autoriale condanna la violenza domestica privata del maschio sulla donna, quei casi cioè nei quali i letti coniugali: «non di pianto sol, ma alcuna volta / di sangue gli ha bagnati l’ira stolta». E prosegue: «Parmi non solo gran mal, ma che l’uom faccia / contra natura e sia di Dio ribello, / che s’induce a percuotere la faccia / di bella donna, o romperle un capello; / ma chi le dà veleno, o chi le caccia / l’alma del corpo con laccio o coltello, / ch’uom sia quel non crederò in eterno / ma in vista umana un spirto de l’inferno»[xvii].
Mi pare che le due figure di Rodomonte e Orlando si prestino particolarmente a considerazioni utili a una delucidazione di alcune dinamiche che possono sottendere la violenza di genere, dinamiche per la cui lettura bisogna considerare la personalità e le eventuali particolari condizioni psicologiche in cui si trova il maschio, e anche la vittima. Si tratta, nel caso dei nostri due cavalieri, come abbiam detto di due personalità come si è detto narcisistiche e infantili, per le quali la donna è soprattutto oggetto di competizione orgogliosa con altri uomini; sono già per questo, pericolosi per lei. Ma non basta; contribuisce a renderli ancora più pericolosi, nel caso di Rodomonte lo stato di ubriachezza in cui si trova quando uccide Isabella, e in quello di Orlando l’essere furioso o folle quando tenta di uccidere Angelica; tre condizioni, queste, che limitando le capacità di autocontrollo possono essere fattori facilitanti la violenza sulla donna, come altri crimini violenti. E non a torto i critici parlano, pur in ambiente magico, di un sorprendente realismo dell’Ariosto.
Considerando poi le due donne, anche la loro situazione potrebbe suggerirci qualcosa. Nel caso di Isabella, infatti, le istanze di possesso di Rodomonte si scontrano con un desiderio, che in questo caso è consapevole, di morte di lei; è chiaro che questo è un discorso da fare con grande prudenza e rispetto per non rischiare l’ingiusta colpevolizzazione della vittima come complice, ma lo è anche il fatto che, solo in alcuni casi certo, anche le dinamiche consapevoli o inconsapevoli del mondo interno della vittima debbano essere prese in considerazione per una lettura (mai però un’anche solo parziale giustificazione) del crimine. Isabella ha perso Zerbino e la vita ha perso valore ai suoi occhi prima che il mostro l’incontri; lui la cerca ubriaco per appagare un desiderio sessuale, lei lo usa per appagare il suo di morte e compiere così “per procura” quel suicidio dal quale poco prima l’aveva dissuasa, ma non forse del tutto, l’eremita. Più astuta, esce dalla tenzone paradossalmente vincitrice costringendo il cavaliere, complice il vino che lo ha reso credulone, a un atto che poi non sarà più capace d’espiare. Glielo rinfaccerà Bradamante quando, disarmandolo dopo averlo battuto, pare revocargli il porto d’armi col dirgli: “lascia le armi se non sei abbastanza adulto da usarle senza far male quando non vorresti”. E’ ben diverso invece il caso di Angelica che, quando incorre per sua sventura nella furiosa e cieca distruttività d’Orlando e rischia di esserne vittima, vuole pienamente vivere per coronare, tra tanti uomini brutali che l’inseguono, il suo sogno d’amore con il timido e tenero Medoro. Che è un personaggio materno come si è visto (una tenera mamma orsa), un poeta ingenuo e stupefatto che la realtà possa essere così bella come Angelica gli discopre, il meno corrispondente di tutti allo stereotipo maschile; ed è segno di un’interessante evoluzione del personaggio della regina il fatto che proprio lei, che nell’Orlando innamorato di Matteo Boiardo (1441-1494) era giunta dal Catai per concedersi al maschio più forte, scelga nel poema di Ariosto quello più femminile e delicato. Per di più, un semplice soldato in mezzo a superbi conti, duchi e re (e questo è ciò che particolarmente ferisce Rinaldo[xviii]), gli energumeni col sangue subito montato alla testa che sempre incontra sul cammino[xix]. Angelica ci mette perciò ogni energia per sfuggire al mostro che la insegue e ci riesce, lasciandolo a sfogare la sua insensata distruttività, in sua vece, sulla giumenta di lei in una sorta di primitivo feroce sacrificio simbolico[xx].
Potremmo perciò osservare, con molta prudenza, che forse Angelica sfugge al femminicidio, oltre che perché fortunatamente in possesso del magico anello, perché dentro di sé si è già messa in salvo, con la rinuncia all’ideale del maschio dominatore del quale era venuta in Europa alla ricerca.
Sono, infine, particolarmente importanti gli approfondimenti psicologici delle emozioni nel triangolo formato da Bradamante, Leone e Ruggiero, personaggi che appaiono nei canti XLV e XVI estremamente moderni, con i dubbi che li tormentano e le istanze opposte tra le quali si dibattono: amore, rispetto ai genitori, partigianeria, gratitudine, ammirazione gratuita. Il giovane Leone, in particolare – figura introdotta, come quella di Olimpia, nella III edizione del poema – si dimostra sorprendentemente ragionevole e privo di quell’esagerato orgoglio e dei tratti infantili che pervadono il poema come un’epidemia dalla quale pochi personaggi sono immuni; e ciò in almeno quattro occasioni. La prima, quando si lascia affasciare dal valore epico di Ruggiero, che riconosce con obiettività sebbene si tratti del nemico; questo lo legherà al cavaliere come un adolescente al suo idolo. La seconda, quando si rende conto con lucidità di non poter vincere Bradamante, della quale conosce il valore, e cerca perciò una soluzione, anche se umiliante, realistica. La terza, e più importante, quando rinuncia a Bradamante in favore di Ruggiero, di nuovo semplicemente perché si rende conto, ancora con ammirevole lucidità, che è l’altro ad amarla in misura maggiore: «Molto più a te, ch’a me, costei conviensi, / la qual, ben ch’io per li suoi merit’ami, / non è però, s’altri l’avrà, ch’io pensi / come tu, al viver mio romper li stami»[xxi] (e, chissà, se conta qualcosa, anche perché è l’altro che lei desidera). L’ultima occasione, è quando si rende conto del garbuglio nel quale la complessità dei sentimenti lo ha avvolto con Bradamante e Ruggiero, e non esita ad umiliarsi e rendersi ridicolo agli occhi di Carlo, pur di scioglierlo.
Ma, sorprendentemente, queste pagine di fine psicologia, di ragionevolezza e serenità non possono ancora rappresentare il lieto fine che il lettore aspetta; c’è ancora un rigurgito di furia con l’improvvisa riapparizione di Rodomonte che ha terminato la tregua che si era imposto dopo l’uccisione di Isabella e l’umiliazione da parte di Bradamante, e ora costringe Ruggiero ad accapigliarsi in una zuffa feroce e truculenta. Come quando l’apparizione del furioso sulla spiaggia aveva interrotto l’idillio di Angelica e Medoro, l’Ariosto sembra volerci, fino in fondo, ammonire a non illuderci, perché la furia – l’esplodere irragionevole cioè di una violenza con la quale è impossibile il dialogo – abita inevitabilmente la realtà e non ci deve cogliere sorpresi.
Spunti per una psicologia della relazione amorosa e della violenza di genere
L’amore, anzi gli amori nel senso delle infinite declinazioni che esso può assumere, è, con le donne e i cavalieri che se ne rendono protagonisti e con le armi, l’oggetto, enunciato fin dal primo verso, del poema. Molto più interessanti e avvincenti, peraltro, almeno oggi, le pagine dedicate ad essi che non alle armi[iv], che suonano ripetitive e stucchevolmente faziose, con miracoli e magie come armi segrete tutte in mano ai franchi e i saraceni che verso il finale o passano nel campo dei buoni, convertendosi, o vengono uccisi. E questo sia che si tratti degli amori commuoventi e accidentati in un mondo di desiderio e incantesimo che rimanda piacevolmente alla fiaba: Ruggiero e Bradamante; Ariodante e Ginevra; Olimpia tra Bireno e Oberto; Zerbino e Isabella; Doralice tra Rodomonte e Mandricardo; Norandino e Lucina; Fiordiligi e Brandimarte; Fiordispina e Bradamante, anche; e poi naturalmente Angelica e Medoro. O che si tratti invece degli amori prepotenti, infantili, predatori e violenti di molti protagonisti maschili per donne riluttanti; Orlando e tanti altri per Angelica, anzitutto. L’amore – talvolta intrecciato in modo complesso con l’orgoglio, la gelosia, l’invidia, il che del resto è nell’esperienza comune – è nel poema una forza che trascina, e spesso al punto tale da distrarre dalle armi, dalla fedeltà cioè al proprio re e alla guerra di religione in cui si è impegnati o dai doveri d’ospitalità e ad altre regole della cavalleria.
L’amore può cioè costituire, ed è nel poema il caso di Orlando ma certo non solo, l’oggetto di quella forma di esistenza mancata che Ludwig Binswanger definisce “esaltazione fissata”[v], un modello che abbiamo già avuto modo di proporre quest’anno per don Chisciotte[vi]. L’ampiezza cioè, la moltitudine di dimensioni che l’esistenza normalmente presenta per ciascuno è ridotta a un’unica idea, a un unico sentimento (abbiamo parlato d’idea per il più razionale Chisciotte, e parliamo di sentimento per il più passionale Orlando). Nel suo caso, si tratta di coronare l’amore per Angelica, un amore che la bellissima, amata da tanti cavalieri, non contraccambia. Questo sentimento – che è almeno altrettanto orgoglio che amore, amore di sé più che dell’altra – fa ombra a tutto il resto, pur non mancando certo, anche per lui, digressioni, perché neppure lui può sottrarsi del tutto alla dissipazione, al perdersi cioè per poi ritrovarsi, che costituisce il ritmo generale del poema[vii]. Orlando è un paladino, ma per porsi all’inseguimento di Angelica lascia il suo re in pericolo ed è una forma, questa, che l’esistenza di Orlando assume già prima della furia e che in certo modo a essa lo predispone. Ed è questa esaltazione fissata nell’innamoramento che, di fronte all’evidenza della sua impraticabilità, determina nella mente del paladino un ingorgo, come se si volesse far uscire un liquido (il dolore, le emozioni) da una bottiglia dal collo fattosi troppo stretto – l’efficace metafora è nel testo[viii] – che lo porta al delirio e all’esplosione del sentimento trasformatosi in rabbia e disperazione. Lo porta al rifiuto e alla rabbiosa (e pericolosa, ma anche insensata e inutile) aggressione della realtà, per l’impossibilità di adattarla a quell’unico desiderio al quale la mente si è fissata. Emblematico è del resto anche il caso di Tanacro, uno dei due figli di Marganorre, che cade nell’inganno dell’amata Drusilla alla quale ha ucciso, per sgombrarsi il campo, il marito perché «sì la voglia ha in uno oggetto intensa, / che sol di quello, e mai d’altro non pensa»[ix]. Sembra proprio una definizione della sproporzione antropologica, che fa sì tra l’altro che nell’amore vissuto nella forma dell’esaltazione fissata non c’è posto neppure per l’altro come soggetto.
Questi cavalieri, insomma, sono più esposti al rischio dell’esaltazione fissata perché presentano (siano essi mori o cristiani) in più casi una personalità che definiremmo narcisistica, caratterizzata da egocentrismo, smisurato orgoglio e infantile incapacità di tollerare anche la minima rinuncia e frustrazione (dimenticano la guerra e ogni dovere a fronte anche del minimo torto subito, come la perdita di un cavallo, di una spada, di uno scudo, figuriamoci di una donna). Sotto il profilo psicologico, i protagonisti del romanzo di cavalleria non paiono dunque evoluti dai tempi antichi, quelli in cui l’ira funesta di Achille tanti lutti addusse agli Achei. E appare quindi ovvio che le figure allegoriche di superbia e discordia, aizzate dall’angelo a difesa dei cristiani, abbiano buon gioco ad scatenare nel campo saraceno un contro l’altro soggetti così predisposti alla competizione.
Sono, salvo rare eccezioni, egocentrici, possessivi, egoisti, orgogliosi, gelosi e ciò influenza, tra l’altro, le modalità del loro amare. A Mandricardo, che ha conquistato armi in pugno Doralice come un trofeo a Rodomonte, appare ovvio avere nella sua disponibilità Marfisa per offrirla al rivale in cambio, quando sconfigge i cavalieri coi quali ella si accompagna in abito muliebre, salvo ricredersi quando la donna dimostra di sapersi essa stessa battere come un uomo per la propria libertà, cioè di essere, sul piano sociale, in quanto capace di duello, un uomo; e appare del resto eccezionale la scelta del re Agramante di attribuire a Doralice la scelta tra i due pretendenti, una scelta che a posteriori il deluso Rodomonte, pur di non accettare la frustrazione, considererà non diversa dall’aver tirato la decisione a sorte, tanto inaffidabile e volubile gli pare la scelta di una donna[x]. E lo stesso Rodomonte poi, ubriaco, vorrebbe approfittare d’Isabella che viaggia in compagnia del cadavere di Zerbino e ha tutt’altri desideri in quel momento di lutto recente, e finisce col cadere nel banale tranello con il quale la donna ottiene da lui la morte che desidera, per unire il suo destino a quello del consorte e per evitare lo stupro. Ma poi anche i due figli di Marganorre, che per “quel desir che nominiamo amore” di due donne sposate, non riuscendo a sedurle, non esitano a cercare di renderle vedove per poterle avere, riuscendovi in un caso salvo poi incorrere nell’odio e nella vendetta della donna. Persino Ruggiero, un personaggio in altre occasioni più capace di pensare, considera ovvio il fatto di poter disporre a suo piacimento del corpo di Angelica, per averla salvata dal mostro marino.
Bestioni che il vino o la furia possono rendere più pericolosi, insomma, questi cavalieri. Orlando, incontrata nella furia Angelica sulla spiaggia di Barcellona, la inseguirà per ucciderla come distrugge ogni altra cosa intorno a sé. E Rodomonte, affranto non sappiamo quanto del sentimento di colpa o da quello di vergogna, reagisce all’involontario femminicidio ripetendo, come un atto compulsivo, il gioco del duello in onore di Isabella (altro non sa fare che combattere, e non ha quindi da offrire alla sua memoria), finché umiliato da un’altra donna, in questo caso in armi, Bradamante, è costretto a interrompere il rituale riparativo e, capriccioso, allora si spoglia delle armi: “se perdo, e per di più perdo da una donna, non gioco più, insomma!”.
Sono un pericolo in primo luogo per se stessi. Nel caso di Ariodante, infatti, l’esaltazione fissata nell’amore, o meglio nella gelosia, porta al rifiuto della realtà nei termini di un tentato suicidio per amore, che così il fratello commenta: «”Ah misero fratel, fratello insano” / – gridò – “perché hai perduto l’intelletto, / ch’una femina a morte trar ti debbia? / Ch’ir possan tutte come al vento nebbia”»[xi]. Del resto, il pensiero suicidario è per molti la reazione quasi automatica alla sensazione della delusione in amore; così è per Bradamante o Ruggiero, ad esempio.
Ma l’eccitazione fissata nella passione amorosa può portare invece al capovolgimento dell’amore deluso in violenza contro l’amata, e le questioni dell’oppressione della donna nella società patriarcale e della violenza di genere in famiglia sono presenti ad Ariosto e affrontate a più riprese, direttamente dalla voce autoriale, o da qualcuno dei personaggi.
L’Ariosto, inteso come voce autoriale, cade sovente in luoghi comuni di ogni tempo sulla donna, ammiccando, seduttivo, al lettore con accenni alle proprie personali esperienze. Poi, in genere, si riprende col criticare quelli stessi luoghi comuni, come se intendesse mettere in scena un suo conflitto interiore – il che è verosimilmente un gioco retorico – tra una parte di sé più impulsiva ferita dalla donna e desiderosa di rivalsa, e una più ragionevole che si sforza di guardare con più obiettività la questione[xii].
Ci sono passaggi, però, nei quali la consapevolezza dell’ingiusta condizione d’inferiorità in cui la donna è mantenuta in una società fortemente patriarcale emerge in modo sorprendentemente chiaro e moderno; ad esempio quando in chiusura del IV canto Rinaldo – legato fin dal poema di Boiardo ad Angelica da una relazione simmetrica e speculare che li porta a desiderarsi in proporzione inversa l’un l’altra – contesta la violenza sociale rappresentata dalla legge che fa sì che Ginevra rischi la pena capitale per avere permesso a un uomo di sedurla, mentre l’uomo al quale si è concessa ne andrà, oltre che impunito, lodato: «son fatti in questa legge disuguale / veramente alle donne espressi torti»[xiii]. O poi lo stesso paladino, di fronte al lamento di un marito tradito per avere voluto testare la fedeltà della sua donna, commenta: «se te altrettanto avesse essa tentato….»[xiv]; e poco oltre raccoglie dal nocchiero che lo conduce sul Po la storia del reciproco tradimento di Anselmo e Argia, un inno alla simmetria e uguaglianza tra uomo e donna in tema di fedeltà, con Argia che impone: «di par l’avere e ‘l dar, marito, poni»[xv]. La stessa simmetria caratterizza, nel canto XXXVII, il simpatico avvicendamento – ad opera delle due cognate cavaliere, Bradamante e Marfisa, per le quali è evidente la simpatia dell’Ariosto – della tirannia misogina di Marganorre (a proposito della quale sono notevoli le osservazioni della voce autoriali in tema di psicologia delle masse) con una dittatura matriarcale che impone, come legge fondamentale, il rispetto della donna. Nel canto XL troviamo un fugace accenno al biasimo di Orlando e Astolfo per gli stupri che fecero seguito alla presa di Biserta, e non furono in grado d’impedire[xvi], che è interessante e, purtoppo, attuale. O ancora, in apertura del V canto, la voce autoriale condanna la violenza domestica privata del maschio sulla donna, quei casi cioè nei quali i letti coniugali: «non di pianto sol, ma alcuna volta / di sangue gli ha bagnati l’ira stolta». E prosegue: «Parmi non solo gran mal, ma che l’uom faccia / contra natura e sia di Dio ribello, / che s’induce a percuotere la faccia / di bella donna, o romperle un capello; / ma chi le dà veleno, o chi le caccia / l’alma del corpo con laccio o coltello, / ch’uom sia quel non crederò in eterno / ma in vista umana un spirto de l’inferno»[xvii].
Mi pare che le due figure di Rodomonte e Orlando si prestino particolarmente a considerazioni utili a una delucidazione di alcune dinamiche che possono sottendere la violenza di genere, dinamiche per la cui lettura bisogna considerare la personalità e le eventuali particolari condizioni psicologiche in cui si trova il maschio, e anche la vittima. Si tratta, nel caso dei nostri due cavalieri, come abbiam detto di due personalità come si è detto narcisistiche e infantili, per le quali la donna è soprattutto oggetto di competizione orgogliosa con altri uomini; sono già per questo, pericolosi per lei. Ma non basta; contribuisce a renderli ancora più pericolosi, nel caso di Rodomonte lo stato di ubriachezza in cui si trova quando uccide Isabella, e in quello di Orlando l’essere furioso o folle quando tenta di uccidere Angelica; tre condizioni, queste, che limitando le capacità di autocontrollo possono essere fattori facilitanti la violenza sulla donna, come altri crimini violenti. E non a torto i critici parlano, pur in ambiente magico, di un sorprendente realismo dell’Ariosto.
Considerando poi le due donne, anche la loro situazione potrebbe suggerirci qualcosa. Nel caso di Isabella, infatti, le istanze di possesso di Rodomonte si scontrano con un desiderio, che in questo caso è consapevole, di morte di lei; è chiaro che questo è un discorso da fare con grande prudenza e rispetto per non rischiare l’ingiusta colpevolizzazione della vittima come complice, ma lo è anche il fatto che, solo in alcuni casi certo, anche le dinamiche consapevoli o inconsapevoli del mondo interno della vittima debbano essere prese in considerazione per una lettura (mai però un’anche solo parziale giustificazione) del crimine. Isabella ha perso Zerbino e la vita ha perso valore ai suoi occhi prima che il mostro l’incontri; lui la cerca ubriaco per appagare un desiderio sessuale, lei lo usa per appagare il suo di morte e compiere così “per procura” quel suicidio dal quale poco prima l’aveva dissuasa, ma non forse del tutto, l’eremita. Più astuta, esce dalla tenzone paradossalmente vincitrice costringendo il cavaliere, complice il vino che lo ha reso credulone, a un atto che poi non sarà più capace d’espiare. Glielo rinfaccerà Bradamante quando, disarmandolo dopo averlo battuto, pare revocargli il porto d’armi col dirgli: “lascia le armi se non sei abbastanza adulto da usarle senza far male quando non vorresti”. E’ ben diverso invece il caso di Angelica che, quando incorre per sua sventura nella furiosa e cieca distruttività d’Orlando e rischia di esserne vittima, vuole pienamente vivere per coronare, tra tanti uomini brutali che l’inseguono, il suo sogno d’amore con il timido e tenero Medoro. Che è un personaggio materno come si è visto (una tenera mamma orsa), un poeta ingenuo e stupefatto che la realtà possa essere così bella come Angelica gli discopre, il meno corrispondente di tutti allo stereotipo maschile; ed è segno di un’interessante evoluzione del personaggio della regina il fatto che proprio lei, che nell’Orlando innamorato di Matteo Boiardo (1441-1494) era giunta dal Catai per concedersi al maschio più forte, scelga nel poema di Ariosto quello più femminile e delicato. Per di più, un semplice soldato in mezzo a superbi conti, duchi e re (e questo è ciò che particolarmente ferisce Rinaldo[xviii]), gli energumeni col sangue subito montato alla testa che sempre incontra sul cammino[xix]. Angelica ci mette perciò ogni energia per sfuggire al mostro che la insegue e ci riesce, lasciandolo a sfogare la sua insensata distruttività, in sua vece, sulla giumenta di lei in una sorta di primitivo feroce sacrificio simbolico[xx].
Potremmo perciò osservare, con molta prudenza, che forse Angelica sfugge al femminicidio, oltre che perché fortunatamente in possesso del magico anello, perché dentro di sé si è già messa in salvo, con la rinuncia all’ideale del maschio dominatore del quale era venuta in Europa alla ricerca.
Sono, infine, particolarmente importanti gli approfondimenti psicologici delle emozioni nel triangolo formato da Bradamante, Leone e Ruggiero, personaggi che appaiono nei canti XLV e XVI estremamente moderni, con i dubbi che li tormentano e le istanze opposte tra le quali si dibattono: amore, rispetto ai genitori, partigianeria, gratitudine, ammirazione gratuita. Il giovane Leone, in particolare – figura introdotta, come quella di Olimpia, nella III edizione del poema – si dimostra sorprendentemente ragionevole e privo di quell’esagerato orgoglio e dei tratti infantili che pervadono il poema come un’epidemia dalla quale pochi personaggi sono immuni; e ciò in almeno quattro occasioni. La prima, quando si lascia affasciare dal valore epico di Ruggiero, che riconosce con obiettività sebbene si tratti del nemico; questo lo legherà al cavaliere come un adolescente al suo idolo. La seconda, quando si rende conto con lucidità di non poter vincere Bradamante, della quale conosce il valore, e cerca perciò una soluzione, anche se umiliante, realistica. La terza, e più importante, quando rinuncia a Bradamante in favore di Ruggiero, di nuovo semplicemente perché si rende conto, ancora con ammirevole lucidità, che è l’altro ad amarla in misura maggiore: «Molto più a te, ch’a me, costei conviensi, / la qual, ben ch’io per li suoi merit’ami, / non è però, s’altri l’avrà, ch’io pensi / come tu, al viver mio romper li stami»[xxi] (e, chissà, se conta qualcosa, anche perché è l’altro che lei desidera). L’ultima occasione, è quando si rende conto del garbuglio nel quale la complessità dei sentimenti lo ha avvolto con Bradamante e Ruggiero, e non esita ad umiliarsi e rendersi ridicolo agli occhi di Carlo, pur di scioglierlo.
Ma, sorprendentemente, queste pagine di fine psicologia, di ragionevolezza e serenità non possono ancora rappresentare il lieto fine che il lettore aspetta; c’è ancora un rigurgito di furia con l’improvvisa riapparizione di Rodomonte che ha terminato la tregua che si era imposto dopo l’uccisione di Isabella e l’umiliazione da parte di Bradamante, e ora costringe Ruggiero ad accapigliarsi in una zuffa feroce e truculenta. Come quando l’apparizione del furioso sulla spiaggia aveva interrotto l’idillio di Angelica e Medoro, l’Ariosto sembra volerci, fino in fondo, ammonire a non illuderci, perché la furia – l’esplodere irragionevole cioè di una violenza con la quale è impossibile il dialogo – abita inevitabilmente la realtà e non ci deve cogliere sorpresi.
Segue parte II, “La furia”, (clicca per proseguire)
[i] L. Ariosto, Oriando furioso secondo l’editio princeps del 1516 (a cura di Tina Matarrese e Marco Praloran), Torino, Einaudi, 2016.
[ii] Canto XIX, VII ottava.
[iii] A. Momigliano, Saggio su “l’Orlando furioso”, Bari, Laterza, 1952, p. 2.
[iv] Così anche per Momigliano (A. Momigliano, Saggio su “l’Orlando… cit., p. 271.
[v] L. Binswanger, Tre forme di esistenza mancata. Esaltazione fissata, stramberia, manierismo. Tre saggi di analisi esistenziale (1956), Milano, Garzanti, 1978.
[vi] Si veda in questa rubrica: Omaggio a Miguel De Cervantes nel IV centenario della morte.
[vii] A. Momigliano, Saggio su “l’Orlando… cit., p. 79 e 322.
[viii] Canto XXIII, CXIII ottava.
[ix] Canto XXXVII, LXV ottava.
[x] Per la reazione misogina di Rodomonte alla delusione: Canto XXVII, CXVII-CXXXIV ottava; Canto XXVVIII, I-LXXXIV ottava, con il saraceno che ascolta con piacere le storie dell’oste contro le donne, ma si fa minaccioso quando il vecchio avventore interviene in loro difesa.
[xi] Canto V, LIII ottava.
[xii] Si veda per esempio l’atteggiamento ambivalente della voce autoriale verso Angelica, della quale si augura la morte – sua e di tutte le donne che sono comunque ingrate – per mano di Orlando in chiusura del Canto XXIX (LXXIII-LVIV ottava), salvo abiurare e scusarsi all’inizio di quello successivo (Canto XXX, I-IV ottava). Per queste oscillazioni e tanto altro sul sentimento amoroso ricordo su POL. it il bel saggio di Gabriella Covri De amore. Un saggio leggero.
[xiii] Canto IV, LXVII ottava.
[xiv] Canto XLIII, XLIX ottava.
[xv] Canto XLIII, CXLII ottava (da LXIX a CXLIV ottava).
[xvi] Canto XL, XXXIV ottava.
[xvii] Canto V, II e III ottava.
[xviii] Canto XLII, XLV ottava.
[xix] Cfr. voce Angelica in: Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e tutte le letterature, Milano, Bompiani, 2005, vol. XI Personaggi A-Z, pp. 63-75 (p. 63).
[xx] Non posso a questo proposito sfuggire a un’associazione, forse audace, di idee. Perché anche in Delitto e castigo di Dostoëvskij compare, in uno dei sogni di Raskolnikov, anch’egli autore infondo di un duplice omicidio di donne, una giumenta percossa a morte (e sui molteplici rimandi di questo sogno, del quale si è occupato anche Ronald Laing, rimando al contributo personale: P.F. Peloso, Cinque ipotesi di lettura per il caso Raskolnikov, Rassegna Italiana di Criminologia, VI, 1995, pp. 547-564).
[xxi] Canto XLVI, XLIII ottava.
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