GALASSIA FREUD
Materiali sulla psicoanalisi apparsi sui media
Ottobre 2016 II - Ricapitolazioni
13 novembre, 2016 - 08:23
SE LA MORTE NON È UN ABISSO DA VINCERE
di Massimo Recalcati, repubblica.it, 16 ottobre 2016
Davanti a me il ricordo indelebile delle mani nodose di mio nonno paterno che decretavano inesorabilmente, con gesti lenti e precisi, la morte di un coniglio impaurito. Un colpo secco alla testa, poi le operazioni di scuoiamento. È attraverso questa pratica antica della vita contadina che ho fatto da bambino il mio primo incontro con la morte. Restavo basito di fronte a quella mescolanza di violenza e tranquillità chiedendomi come era possibile integrare il ritmo naturale della vita – uccidere l’animale per nutrirsi – con la brutalità ordinaria che orientava i gesti antichi del nonno. Non era, il suo, un desiderio sadico: stava lavorando per prepararci la cena, non stava uccidendo con piacere la sua vittima. Tuttavia, il ritmo naturale della vita contadina non poteva assorbire del tutto lo sconcerto dell’incontro con la nuda morte. Quel coniglio, scelto casualmente tra i suoi simili rinchiusi nella stessa gabbia, mi faceva incontrare una dimensione di non-senso che già da bambino intuivo non essere per nulla estranea alla vita. La morte introduceva nella vita un tabù che mi appariva psichicamente indigeribile.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6456
Davanti a me il ricordo indelebile delle mani nodose di mio nonno paterno che decretavano inesorabilmente, con gesti lenti e precisi, la morte di un coniglio impaurito. Un colpo secco alla testa, poi le operazioni di scuoiamento. È attraverso questa pratica antica della vita contadina che ho fatto da bambino il mio primo incontro con la morte. Restavo basito di fronte a quella mescolanza di violenza e tranquillità chiedendomi come era possibile integrare il ritmo naturale della vita – uccidere l’animale per nutrirsi – con la brutalità ordinaria che orientava i gesti antichi del nonno. Non era, il suo, un desiderio sadico: stava lavorando per prepararci la cena, non stava uccidendo con piacere la sua vittima. Tuttavia, il ritmo naturale della vita contadina non poteva assorbire del tutto lo sconcerto dell’incontro con la nuda morte. Quel coniglio, scelto casualmente tra i suoi simili rinchiusi nella stessa gabbia, mi faceva incontrare una dimensione di non-senso che già da bambino intuivo non essere per nulla estranea alla vita. La morte introduceva nella vita un tabù che mi appariva psichicamente indigeribile.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6456
VALENTINO ROSSI E PAPÀ GRAZIANO, QUAL È IL SEGRETO DI QUEI DUE?
di Luigi Campagner, ilsussidiario.net, 18 ottobre 2016
Gira voce negli ambienti sportivi — lo conferma nel suo ultimo libro Il mio basket (Dalai, 2012) Sandro Gamba — che non ci sia nulla di meglio dell'”allenare un orfano”. Un caustico luogo comune che fotografa le condotte di tanti genitori che non sanno far a meno di complicare la vita ai figli. Tuttavia, come altre apparenti verità, anche questa non coglie nel segno, scambiando un dato statistico con la riuscita di un’ambizione. Nomi come Mazzola, Meneghin, Maldini, Sacchetti, Cagnotto e per tagliare corto Bryant (Kobe e papà Joe), sono sufficienti per rendersi conto che la statistica non dice la verità. Almeno non tutta. Nell’elenco manca volutamente il nome Rossi, che negli ultimi due decenni gli italiani hanno imparato ad associare a Valentino e Graziano, dopo averlo indissolubilmente saldato al Pablito dei Mondiali di calcio 1978 e 1982. Domenica scorsa si è chiusa definitivamente in Giappone la speranza per Valentino Rossi di aggiudicarsi il campionato MotoGP (e con esso il decimo alloro mondiale). Il titolo è finito, con merito, nella cesta dei trofei del ventiduenne Marc Marquez, al suo quinto titolo. La delusione in casa Rossi è immaginabile, ma con tre cadute e un motore fuso è impossibile vincere un mondiale. Ad ogni modo nella “marea gialla”, la schiera dei tifosi che segue il Dottore da ogni angolo del mondo, continuano a prevalere l’ammirazione, lo stupore e l’entusiasmo per l’indomito trentasettenne di Tavullia, che ha trasformato il MotoGP da sport d’élite a sport popolare. Un’avventura iniziata nell’infanzia, ovvero nel passato remoto di Valentino, per opera del padre Graziano, pilota di talento anche se non vincente come il figlio.
Segue qui:
http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2016/10/18/VALENTINO-ROSSI-E-papa-Graziano-qual-e-il-segreto-di-quei-due-/728640/
Gira voce negli ambienti sportivi — lo conferma nel suo ultimo libro Il mio basket (Dalai, 2012) Sandro Gamba — che non ci sia nulla di meglio dell'”allenare un orfano”. Un caustico luogo comune che fotografa le condotte di tanti genitori che non sanno far a meno di complicare la vita ai figli. Tuttavia, come altre apparenti verità, anche questa non coglie nel segno, scambiando un dato statistico con la riuscita di un’ambizione. Nomi come Mazzola, Meneghin, Maldini, Sacchetti, Cagnotto e per tagliare corto Bryant (Kobe e papà Joe), sono sufficienti per rendersi conto che la statistica non dice la verità. Almeno non tutta. Nell’elenco manca volutamente il nome Rossi, che negli ultimi due decenni gli italiani hanno imparato ad associare a Valentino e Graziano, dopo averlo indissolubilmente saldato al Pablito dei Mondiali di calcio 1978 e 1982. Domenica scorsa si è chiusa definitivamente in Giappone la speranza per Valentino Rossi di aggiudicarsi il campionato MotoGP (e con esso il decimo alloro mondiale). Il titolo è finito, con merito, nella cesta dei trofei del ventiduenne Marc Marquez, al suo quinto titolo. La delusione in casa Rossi è immaginabile, ma con tre cadute e un motore fuso è impossibile vincere un mondiale. Ad ogni modo nella “marea gialla”, la schiera dei tifosi che segue il Dottore da ogni angolo del mondo, continuano a prevalere l’ammirazione, lo stupore e l’entusiasmo per l’indomito trentasettenne di Tavullia, che ha trasformato il MotoGP da sport d’élite a sport popolare. Un’avventura iniziata nell’infanzia, ovvero nel passato remoto di Valentino, per opera del padre Graziano, pilota di talento anche se non vincente come il figlio.
Segue qui:
http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2016/10/18/VALENTINO-ROSSI-E-papa-Graziano-qual-e-il-segreto-di-quei-due-/728640/
DARIO NOBEL. La fatica di vivere dà un senso alla vita, ecco il vero significato dell’inquietante agitarsi di Fo
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 19 ottobre 2016
Difficile stendere sul lettino un premio Nobel asceso al cielo, se mostri delle pur nobili riserve molti suoi fan ti accuseranno d’invidia e maldicenza, sicché dopo un po’ ti chiedi: ma non potevo star zitto, che mi frega di parlare di Lui? Eppure ne parlo quindi qualcosa mi frega, e non è l’opinione di un istante quale giustamente Giuliano Ferrara condanna, ma la misteriosa ferita di un mezzo secolo, sempre la stessa. Cinquant’anni fa, quando ne avevo venti, ero in un teatro milanese a guardare “Isabella, tre caravelle e un cacciaballe”. Volevo scacciare tristi pensieri e ridere, o sorridere e meditare, insomma desideravo partecipare a qualcosa, sentirmi vivo. Ero appena diventato comunista, ma non di quelli incredibilmente seri ed eleganti che m’incutevano rispetto, non mi rispettavo per niente, mi sentivo un buffone. Bè quella sera a teatro non risi, non ci riuscivo nonostante la mia ottima disposizione di comunista verso un altro comunista, c’era qualcosa in quella messinscena che proprio non funzionava, e sì che ero prontissimo a ridere, forse troppo, forse desideravo un padre che mi desse un po’ di carica.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/10/19/dario-fo-nobel-agitato___1-vr-149466-rubriche_c117.htm
Difficile stendere sul lettino un premio Nobel asceso al cielo, se mostri delle pur nobili riserve molti suoi fan ti accuseranno d’invidia e maldicenza, sicché dopo un po’ ti chiedi: ma non potevo star zitto, che mi frega di parlare di Lui? Eppure ne parlo quindi qualcosa mi frega, e non è l’opinione di un istante quale giustamente Giuliano Ferrara condanna, ma la misteriosa ferita di un mezzo secolo, sempre la stessa. Cinquant’anni fa, quando ne avevo venti, ero in un teatro milanese a guardare “Isabella, tre caravelle e un cacciaballe”. Volevo scacciare tristi pensieri e ridere, o sorridere e meditare, insomma desideravo partecipare a qualcosa, sentirmi vivo. Ero appena diventato comunista, ma non di quelli incredibilmente seri ed eleganti che m’incutevano rispetto, non mi rispettavo per niente, mi sentivo un buffone. Bè quella sera a teatro non risi, non ci riuscivo nonostante la mia ottima disposizione di comunista verso un altro comunista, c’era qualcosa in quella messinscena che proprio non funzionava, e sì che ero prontissimo a ridere, forse troppo, forse desideravo un padre che mi desse un po’ di carica.
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SMARTPHONE SOTTO CONTROLLO. Alcuni consigli non per impedire l’uso del telefonino ai ragazzini, ma per responsabilizzarli
di Giuseppe Maiolo, ladigetto.it, 19 ottobre 2016
I giovani, ma anche i bambini ormai usano costantemente le nuove tecnologie con estrema facilità e molta più velocità e creatività degli adulti. Non è una novità. Lo smartphone, per esempio, non è più status-symbol ma un oggetto di uso comune che già i piccoli della scuola primaria maneggiano con naturalezza. E questo perché i nativi digitali nascono, crescono e si muovono nel mondo tecnologico. Rapidamente, pur non sapendo nulla di come funziona un cellulare o un tablet, lo sanno usare «d’istinto».
Segue:
http://www.ladigetto.it/permalink/58931.html
I giovani, ma anche i bambini ormai usano costantemente le nuove tecnologie con estrema facilità e molta più velocità e creatività degli adulti. Non è una novità. Lo smartphone, per esempio, non è più status-symbol ma un oggetto di uso comune che già i piccoli della scuola primaria maneggiano con naturalezza. E questo perché i nativi digitali nascono, crescono e si muovono nel mondo tecnologico. Rapidamente, pur non sapendo nulla di come funziona un cellulare o un tablet, lo sanno usare «d’istinto».
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PRENDERLI AL VOLO PRIMA CHE PRECIPITINO
di Pietro Barbetta, doppiozero.com, 22 Ottobre 2016
Il giovane Holden ha un momento di tenerezza davanti alla domanda della sorellina. Phoebe, questo il nome della piccola, gli chiede che cosa vuol fare da grande. Holden risponde che ci sono tanti ragazzi: “e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere nel dirupo… io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli”. È la parte più tenera del romanzo, quella che gli dà il titolo in lingua inglese il suo cuore: The Catcher in the Rye (l’intraducibile: Acchiappatore nella segale). Holden Caulfield prosegue: “Non dovrei far altro tutto il giorno. Sarei solo l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia” (Salinger, Il giovane Holden).
Una delle ultime opere di Cristopher Bollas s’intitola Catch Them Before They Fall, prendili prima che precipitino. Prima che cadano nel dirupo. Ciò che Il giovane Holden racconta alla sorellina Phoebe, sembra rispecchiare la missione di Bollas nel suo lavoro con gli schizofrenici. Cristopher Bollas nasce il 21 Dicembre del 1943 a Washington. Negli Stati Uniti riceve formazione umanistica e letteraria, con predilezione verso gli studi storici. Bollas conosce l’opera di Sigmund Freud come pochi e sviluppa, nel corso della sua vita, una pratica clinica intensa. È il più noto esempio vivente di umanista che, fin da giovane, è immerso nel flusso della clinica, ricevendo – nel tempo, col suo trasferimento a Londra – la formazione psicoanalitica. È un’epoca in cui, nel Regno Unito, non si fanno distinzioni tra medici e laici, conta la passione clinica.
La sua vita si svolge tra gli Stati Uniti e Londra. Nell’ultimo libro Se il sole esplode. L’enigma della schizofrenia, uscito per Raffaello Cortina, Bollas racconta il suo lavoro con persone schizofreniche e la sua formazione clinica, come se le due cose andassero in parallelo. Bollas sembra sostenere che per lavorare con la psicosi, in particolare con la schizofrenia, l’essere psicoanalisti, o psicoterapeuti di qualunque scuola, non basta. Bisogna riconoscere che questo lavoro è una pazzia. Che il terapeuta ha bisogno di condividere la pazzia, di liberarsi dal terrore di venire contaminato, di essere, anche lui, un po’ schizofrenico, folle, delirante; al punto da considerare il delirio nient’altro che un sistema complesso di libere associazioni. Un esempio di sovra-determinazione freudiana.
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/materiali/prenderli-al-volo-prima-che-precipitino
Il giovane Holden ha un momento di tenerezza davanti alla domanda della sorellina. Phoebe, questo il nome della piccola, gli chiede che cosa vuol fare da grande. Holden risponde che ci sono tanti ragazzi: “e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere nel dirupo… io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli”. È la parte più tenera del romanzo, quella che gli dà il titolo in lingua inglese il suo cuore: The Catcher in the Rye (l’intraducibile: Acchiappatore nella segale). Holden Caulfield prosegue: “Non dovrei far altro tutto il giorno. Sarei solo l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia” (Salinger, Il giovane Holden).
Una delle ultime opere di Cristopher Bollas s’intitola Catch Them Before They Fall, prendili prima che precipitino. Prima che cadano nel dirupo. Ciò che Il giovane Holden racconta alla sorellina Phoebe, sembra rispecchiare la missione di Bollas nel suo lavoro con gli schizofrenici. Cristopher Bollas nasce il 21 Dicembre del 1943 a Washington. Negli Stati Uniti riceve formazione umanistica e letteraria, con predilezione verso gli studi storici. Bollas conosce l’opera di Sigmund Freud come pochi e sviluppa, nel corso della sua vita, una pratica clinica intensa. È il più noto esempio vivente di umanista che, fin da giovane, è immerso nel flusso della clinica, ricevendo – nel tempo, col suo trasferimento a Londra – la formazione psicoanalitica. È un’epoca in cui, nel Regno Unito, non si fanno distinzioni tra medici e laici, conta la passione clinica.
La sua vita si svolge tra gli Stati Uniti e Londra. Nell’ultimo libro Se il sole esplode. L’enigma della schizofrenia, uscito per Raffaello Cortina, Bollas racconta il suo lavoro con persone schizofreniche e la sua formazione clinica, come se le due cose andassero in parallelo. Bollas sembra sostenere che per lavorare con la psicosi, in particolare con la schizofrenia, l’essere psicoanalisti, o psicoterapeuti di qualunque scuola, non basta. Bisogna riconoscere che questo lavoro è una pazzia. Che il terapeuta ha bisogno di condividere la pazzia, di liberarsi dal terrore di venire contaminato, di essere, anche lui, un po’ schizofrenico, folle, delirante; al punto da considerare il delirio nient’altro che un sistema complesso di libere associazioni. Un esempio di sovra-determinazione freudiana.
Segue qui:
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LA FERTILITÀ E LA COSTIPAZIONE
di Sarantis Thanopulos, il manifesto, 22 ottobre 2016
Ogni tanto esplode un contenzioso e per un breve tempo ci si divide in modo, sembrerebbe, appassionato. Poi tutto si assopisce. La divisione resta, ma una contraddizione che attraversa i campi opposti ostacola il reale dispiegamento del loro conflitto. Può emergere allora un senso di estraniazione che, sottostante allo spirito di battaglia, insinua un dubbio esistenziale, più che intellettuale, su ciò che sta accadendo. La polemica sul “fertility day”, la procreazione come valore a sé stante, è divampata sulla connotazione razzista della propaganda ministeriale, per spegnersi subito dopo. È stato giusto tentare di spostare l’attenzione dalla “fertilità” alla“fecondità”: sebbene i due termini siano ampiamente sovrapponibili, l’uso del primo denota esclusivamente la produttività, il fatto quantitativo, mentre il secondo è usato anche per denotare la creatività, il fatto qualitativo. Tuttavia, l’invocazione della creatività nulla può, realmente, contro la domanda di produttività (favorita in partenza nel campo della pubblicità), se quest’ultima si accorda con una tendenza psichica collettiva.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6471
Ogni tanto esplode un contenzioso e per un breve tempo ci si divide in modo, sembrerebbe, appassionato. Poi tutto si assopisce. La divisione resta, ma una contraddizione che attraversa i campi opposti ostacola il reale dispiegamento del loro conflitto. Può emergere allora un senso di estraniazione che, sottostante allo spirito di battaglia, insinua un dubbio esistenziale, più che intellettuale, su ciò che sta accadendo. La polemica sul “fertility day”, la procreazione come valore a sé stante, è divampata sulla connotazione razzista della propaganda ministeriale, per spegnersi subito dopo. È stato giusto tentare di spostare l’attenzione dalla “fertilità” alla“fecondità”: sebbene i due termini siano ampiamente sovrapponibili, l’uso del primo denota esclusivamente la produttività, il fatto quantitativo, mentre il secondo è usato anche per denotare la creatività, il fatto qualitativo. Tuttavia, l’invocazione della creatività nulla può, realmente, contro la domanda di produttività (favorita in partenza nel campo della pubblicità), se quest’ultima si accorda con una tendenza psichica collettiva.
Segue qui:
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LA LINGUA INCONSCIA DELLA TERAPIA
di Giuliano Castigliego, giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com, 23 ottobre 2016
Nel nostro mondo globalizzato e segnato da permanenti, volontarie e involontarie, migrazioni di massa in quale lingua é meglio condurre la psicoterapia? La lingua madre in cui siamo cresciuti e abbiamo costruito il nostro mondo interiore? Quella straniera che abbiamo a fatica appreso in una nazione, divenuta la nostra nuova confortevole casa, senza l’ingombrante e al tempo stesso affascinante solaio dei nostri ricordi? O ancora nella lingua astratta, funzionale della globalizzazione e dell’innovazione? Mi ponevo queste domande, ovviamente impossibili in termini così assoluti e drastici, nel corso di un piacevole scambio con un giovane collega, alla tenace e lodevole ricerca di nuove esperienze professionali e umane in terra straniera ma comprensibilmente un po’ intimorito dallo schweizerdeutsch, il dialetto svizzero, che è, a tutti gli effetti, dagli uffici, ai negozi agli ospedali, la vera lingua della Svizzera tedesca. Mi sovvenivano i miei timidi inizi in terra elvetica quando confondevo ancora in tedesco “affascinante” con “deludente”, suscitando comprensibile imbarazzo nella mia interlocutrice. Che per fortuna, badando più alla mia mimica e ai miei gesti, capiva, a dispetto delle mie parole, i miei complimenti.
Poi, non senza fatiche e delusioni, anche il mio tedesco è migliorato. “Non può che andare sempre meglio”, mi incoraggiava, amabilmente ironico, un mio collega di Berlino. Fino a quando (quando?) anche la psicoterapia vi ha trovato posto, dapprima quasi di soppiatto, poi con maggiore convinzione, ma sempre con la sensazione di star seduto in punta di sedia. Nel tedesco mi sono infatti portato appresso – e come avrebbe potuto essere diversamente? – la mia timidezza e insicurezza, quelle con cui ero cresciuto e che l’italiano nel frattempo mi consentiva un po’ di nascondere, regalandomi, occasionalmente, la sensazione di sedere su un’elegante e comoda poltrona. Con il tedesco ricominciava tutto da capo, sicuramente per me ma un po’ anche per chi mi sedeva di fronte e raccontava nella sua lingua o dialetto la sua storia.
Segue qui:
http://giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com/2016/10/23/la-lingua-inconscia-della-terapia/
Nel nostro mondo globalizzato e segnato da permanenti, volontarie e involontarie, migrazioni di massa in quale lingua é meglio condurre la psicoterapia? La lingua madre in cui siamo cresciuti e abbiamo costruito il nostro mondo interiore? Quella straniera che abbiamo a fatica appreso in una nazione, divenuta la nostra nuova confortevole casa, senza l’ingombrante e al tempo stesso affascinante solaio dei nostri ricordi? O ancora nella lingua astratta, funzionale della globalizzazione e dell’innovazione? Mi ponevo queste domande, ovviamente impossibili in termini così assoluti e drastici, nel corso di un piacevole scambio con un giovane collega, alla tenace e lodevole ricerca di nuove esperienze professionali e umane in terra straniera ma comprensibilmente un po’ intimorito dallo schweizerdeutsch, il dialetto svizzero, che è, a tutti gli effetti, dagli uffici, ai negozi agli ospedali, la vera lingua della Svizzera tedesca. Mi sovvenivano i miei timidi inizi in terra elvetica quando confondevo ancora in tedesco “affascinante” con “deludente”, suscitando comprensibile imbarazzo nella mia interlocutrice. Che per fortuna, badando più alla mia mimica e ai miei gesti, capiva, a dispetto delle mie parole, i miei complimenti.
Poi, non senza fatiche e delusioni, anche il mio tedesco è migliorato. “Non può che andare sempre meglio”, mi incoraggiava, amabilmente ironico, un mio collega di Berlino. Fino a quando (quando?) anche la psicoterapia vi ha trovato posto, dapprima quasi di soppiatto, poi con maggiore convinzione, ma sempre con la sensazione di star seduto in punta di sedia. Nel tedesco mi sono infatti portato appresso – e come avrebbe potuto essere diversamente? – la mia timidezza e insicurezza, quelle con cui ero cresciuto e che l’italiano nel frattempo mi consentiva un po’ di nascondere, regalandomi, occasionalmente, la sensazione di sedere su un’elegante e comoda poltrona. Con il tedesco ricominciava tutto da capo, sicuramente per me ma un po’ anche per chi mi sedeva di fronte e raccontava nella sua lingua o dialetto la sua storia.
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PER SENTIRCI LIBERI SOGNIAMO UNA VITA ANIMALE
di Massimo Recalcati, repubblica.it, 23 ottobre 2016
L’antropocentrismo dell’Occidente ha situato l’animale come un essere vivente inferiore a disposizione dell’uomo. Oggi questa superiorità di una specie (quella umana) su di un’altra (quella animale) viene denominata “specismo”. Nello stesso termine “animale” si accomunano, non a caso, esseri viventi assai diversi tra loro — un gambero non è un cane; un gatto non è un rinoceronte — accomunati dal solo statuto di inferiorità rispetto alla specie umana. La vita dell’animale resta un tabù inaccessibile per quella umana: mentre la vita animale è vita piena, regolata dalla forza infallibile dell’istinto, quella umana appare come una vita ferita, limitata dalle leggi della Cultura, separata irreversibilmente dalla Natura. Diversamente da quello che l’ideologia “specista” ritiene, la vita umana è afflitta da una menomazione più che da un primato. La vita animale è vita senza vergogna, disinibita, priva di Legge e di senso di colpa.
Segue qui:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/10/23/per-sentirci-liberi-sogniamo-una-vita-animale60.html?ref=search
L’antropocentrismo dell’Occidente ha situato l’animale come un essere vivente inferiore a disposizione dell’uomo. Oggi questa superiorità di una specie (quella umana) su di un’altra (quella animale) viene denominata “specismo”. Nello stesso termine “animale” si accomunano, non a caso, esseri viventi assai diversi tra loro — un gambero non è un cane; un gatto non è un rinoceronte — accomunati dal solo statuto di inferiorità rispetto alla specie umana. La vita dell’animale resta un tabù inaccessibile per quella umana: mentre la vita animale è vita piena, regolata dalla forza infallibile dell’istinto, quella umana appare come una vita ferita, limitata dalle leggi della Cultura, separata irreversibilmente dalla Natura. Diversamente da quello che l’ideologia “specista” ritiene, la vita umana è afflitta da una menomazione più che da un primato. La vita animale è vita senza vergogna, disinibita, priva di Legge e di senso di colpa.
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LA SOAVE BESTEMMIA. Niente è più dolce che offendere Dio passando una notte di tormenti chiedendogli perdono
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 26 ottobre 2016
Chi ha bestemmiato al Grande Fratello? Nientemeno che una ragazza! Mediaset ha sguinzagliato torme di detective a caccia della reproba, come ai tempi delle streghe la maggior indiziata è la più bella, il pubblico è in fibrillazione, sulla bocca di un carrettiere la bestemmia fa schifo ma su quella di un’indossatrice fa sesso. Lunga storia quella della bestemmia, gli antichi romani facevano spallucce finché Giustiniano decretò “la più orribile delle morti per il più orribile dei peccati”, e nei secoli molti furono scannati per una bestemmia sfuggita dalle labbra. Il Levitico in tempi lontani precettava: “Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte”, la bestemmia era il più ardito dei martirii. Le punizioni ancora vigono, brutali nei paesi orientali, soft se non nulle in quelli occidentali. Ma cos’è davvero una bestemmia, a chi è rivolta e quale effetto si prefigge? Per il più colto e raffinato tra i cardinali, monsignor Ravasi, la bestemmia è la preghiera dell’ateo.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/10/26/la-soave-bestemmia___1-vr-149910-rubriche_c126.htm
Chi ha bestemmiato al Grande Fratello? Nientemeno che una ragazza! Mediaset ha sguinzagliato torme di detective a caccia della reproba, come ai tempi delle streghe la maggior indiziata è la più bella, il pubblico è in fibrillazione, sulla bocca di un carrettiere la bestemmia fa schifo ma su quella di un’indossatrice fa sesso. Lunga storia quella della bestemmia, gli antichi romani facevano spallucce finché Giustiniano decretò “la più orribile delle morti per il più orribile dei peccati”, e nei secoli molti furono scannati per una bestemmia sfuggita dalle labbra. Il Levitico in tempi lontani precettava: “Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte”, la bestemmia era il più ardito dei martirii. Le punizioni ancora vigono, brutali nei paesi orientali, soft se non nulle in quelli occidentali. Ma cos’è davvero una bestemmia, a chi è rivolta e quale effetto si prefigge? Per il più colto e raffinato tra i cardinali, monsignor Ravasi, la bestemmia è la preghiera dell’ateo.
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TERREMOTO! Quando la terra trema la fragilità umana si manifesta in tutta la sua ampiezza
di Giuseppe Maiolo, ladigetto.it, 28 ottobre 2016
Quando la terra trema la fragilità umana si manifesta in tutta la sua ampiezza. Il terremoto con la sua carica devastante infligge perdite umane e spesso stravolge drammaticamente territori e geografie. Ma non solo. Apre sicuramente ferite individuali e collettive ma contemporaneamente evidenzia ampi scenari di paure ancestrali e terrori che l’uomo da sempre ha cercato di combattere con una sorta di delirio di onnipotenza illudendosi di dominare la natura. Così quella terra che si muove sotto i nostri piedi fa emergere un profondo sentimento di precarietà che nascondiamo nelle profondità della psiche e mette in evidenza in questo mondo globalizzato una società dell’incertezza e una fragile comunità di individui che, come diceva Freud nel «Disagio della civiltà», ha barattato un po’ di felicità con un po’ di sicurezza.
Segue qui:
http://www.ladigetto.it/permalink/59196.html
Quando la terra trema la fragilità umana si manifesta in tutta la sua ampiezza. Il terremoto con la sua carica devastante infligge perdite umane e spesso stravolge drammaticamente territori e geografie. Ma non solo. Apre sicuramente ferite individuali e collettive ma contemporaneamente evidenzia ampi scenari di paure ancestrali e terrori che l’uomo da sempre ha cercato di combattere con una sorta di delirio di onnipotenza illudendosi di dominare la natura. Così quella terra che si muove sotto i nostri piedi fa emergere un profondo sentimento di precarietà che nascondiamo nelle profondità della psiche e mette in evidenza in questo mondo globalizzato una società dell’incertezza e una fragile comunità di individui che, come diceva Freud nel «Disagio della civiltà», ha barattato un po’ di felicità con un po’ di sicurezza.
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LA PSICOANALISI E LA CRISI DELLA QUALITÀ
di Sarantis Thanopulos, il manifesto, 29 ottobre 2016
In un recente convegno sulla crisi del lavoro e le sue ripercussioni nel campo della cura psichica, organizzato dal Centro Napoletano di Psicoanalisi, lo psicoanalista francese Christophe Dejours ha descritto il declino di un ospedale psichiatrico parigino per via del neoliberismo. Il lavoro psicoterapeutico che aveva dato prestigio all’ospedale, è stato sostituito dal trattamento farmacologico, più economico e sbrigativo. La mentalità neoliberista che ha espugnato il luogo di cura, può essere sintetizzata nella risposta di un dirigente alle proteste del personale: “Noi abbiamo a che fare con persone rozze, a cui i farmaci vanno bene, e voi volete offrire sovra-qualità”. Come se la passa la psicoanalisi in questi tempi di grande incertezza lavorativa e di marginalizzazione sociale di vasti strati della popolazione? In realtà la domanda di trattamento analitico resta alta (anche per la crescente difficoltà delle strutture pubbliche di offrire un sostegno adeguato), ma è più generica e meno consapevole. Il lavoro degli psicoanalisti è più faticoso perché si svolge in condizioni lontane da quelle ottimali e controcorrente.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6476
In un recente convegno sulla crisi del lavoro e le sue ripercussioni nel campo della cura psichica, organizzato dal Centro Napoletano di Psicoanalisi, lo psicoanalista francese Christophe Dejours ha descritto il declino di un ospedale psichiatrico parigino per via del neoliberismo. Il lavoro psicoterapeutico che aveva dato prestigio all’ospedale, è stato sostituito dal trattamento farmacologico, più economico e sbrigativo. La mentalità neoliberista che ha espugnato il luogo di cura, può essere sintetizzata nella risposta di un dirigente alle proteste del personale: “Noi abbiamo a che fare con persone rozze, a cui i farmaci vanno bene, e voi volete offrire sovra-qualità”. Come se la passa la psicoanalisi in questi tempi di grande incertezza lavorativa e di marginalizzazione sociale di vasti strati della popolazione? In realtà la domanda di trattamento analitico resta alta (anche per la crescente difficoltà delle strutture pubbliche di offrire un sostegno adeguato), ma è più generica e meno consapevole. Il lavoro degli psicoanalisti è più faticoso perché si svolge in condizioni lontane da quelle ottimali e controcorrente.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6476
ANDARE O RESTARE IL DILEMMA ANTICO DEL FINE VITA
di Massimo Recalcati, repubblica.it, 30 ottobre 2016
In Italia il tema dell’eutanasia è un tabù. Impossibile ragionarci senza che il richiamo all’ideologia ottunda ogni forma di pensiero libero. Eppure l’interrogativo che esso pone è chiaro, impellente e inaggirabile: è giusto che la vita umana decida di porre fine a sofferenze che non è più in grado di sopportare e che non comportano nessuna speranza? Riconoscere questa giustizia — riconoscere il diritto a una morte giusta e degna — cancella fatalmente ogni debito verso coloro o colui — Dio, in una prospettiva religiosa — che ci ha donato la vita? È vero: io non sono padrone della mia vita, né del mio corpo: non ho scelto di vivere, non ho voluto questo corpo, non ho deciso la classe sociale di appartenenza, il colore della mia pelle. La vita viene alla vita — come ci ha spiegato bene l’esistenzialismo filosofico — gettata nel mondo in una condizione di spossessamento: nessuno di noi è un ens causa sui, nessuno di noi è causa della propria vita.
Segue qui:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/10/30/andare-o-restare-il-dilemma-antico-del-fine-vita50.html?ref=search
In Italia il tema dell’eutanasia è un tabù. Impossibile ragionarci senza che il richiamo all’ideologia ottunda ogni forma di pensiero libero. Eppure l’interrogativo che esso pone è chiaro, impellente e inaggirabile: è giusto che la vita umana decida di porre fine a sofferenze che non è più in grado di sopportare e che non comportano nessuna speranza? Riconoscere questa giustizia — riconoscere il diritto a una morte giusta e degna — cancella fatalmente ogni debito verso coloro o colui — Dio, in una prospettiva religiosa — che ci ha donato la vita? È vero: io non sono padrone della mia vita, né del mio corpo: non ho scelto di vivere, non ho voluto questo corpo, non ho deciso la classe sociale di appartenenza, il colore della mia pelle. La vita viene alla vita — come ci ha spiegato bene l’esistenzialismo filosofico — gettata nel mondo in una condizione di spossessamento: nessuno di noi è un ens causa sui, nessuno di noi è causa della propria vita.
Segue qui:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/10/30/andare-o-restare-il-dilemma-antico-del-fine-vita50.html?ref=search
MASSIMO RECALCATI: “I FIGLI ORA CAPISCONO DI AVER BISOGNO DI UN PADRE-TESTIMONE”. L’analista: “La funzione del papà in psicoanalisi è quella di ricordare che la vita umana è attraversata dal limite mentre per il discorso del capitalista tutto è possibile: acquistare, consumare, evitare la morte. In Italia lo sappiamo bene”
di Stefania Parmeggiani, repubblica.it, 30 ottobre 2016
“Ciò che irrompe nelle nuove narrazioni non è il padre, ma la mancanza del padre”. Da tempo lo psicanalista Massimo Recalcati si interroga sulle conseguenze di quello che Jacques Lacan chiamava l’evaporazione del padre: la scomparsa della Legge, il tramonto dell’autorità. Per lui non si tratta di una eclissi temporanea, ma di un fatto ormai avvenuto, strutturale e insuperabile.
Chi è dunque il padre che torna al centro della scena letteraria e cinematografica?
“Di sicuro non è il padre-padrone, il padre-Dio, il padre-bussola che ha l’ultima parola sul senso della vita e guida in modo infallibile i propri figli. In Occidente questa figura si è esaurita dopo il trauma virtuoso del ’68. Solo i fondamentalisti cercano di recuperare quella immagine attraverso il Dio folle che comanda la morte dell’infedele riabilitando una rappresentazione padronale della paternità “.
Segue qui:
http://www.repubblica.it/cultura/2016/10/30/news/_i_figli_ora_capiscono_di_aver_bisogno_di_un_padre-testimone_-150937622/
“Ciò che irrompe nelle nuove narrazioni non è il padre, ma la mancanza del padre”. Da tempo lo psicanalista Massimo Recalcati si interroga sulle conseguenze di quello che Jacques Lacan chiamava l’evaporazione del padre: la scomparsa della Legge, il tramonto dell’autorità. Per lui non si tratta di una eclissi temporanea, ma di un fatto ormai avvenuto, strutturale e insuperabile.
Chi è dunque il padre che torna al centro della scena letteraria e cinematografica?
“Di sicuro non è il padre-padrone, il padre-Dio, il padre-bussola che ha l’ultima parola sul senso della vita e guida in modo infallibile i propri figli. In Occidente questa figura si è esaurita dopo il trauma virtuoso del ’68. Solo i fondamentalisti cercano di recuperare quella immagine attraverso il Dio folle che comanda la morte dell’infedele riabilitando una rappresentazione padronale della paternità “.
Segue qui:
http://www.repubblica.it/cultura/2016/10/30/news/_i_figli_ora_capiscono_di_aver_bisogno_di_un_padre-testimone_-150937622/
MA I “MILLENNIALS” USA NON CREDONO AL VOTO
di Claudio Risè, ilgiornale.it, 31 ottobre 2016
Non è solo Donald Trump a non fidarsi delle elezioni americane. Secondo un sondaggio realizzato dal Prri (Istituto partner della prestigiosa Brookings Institution) solo meno della metà degli americani pensa che il proprio voto verrà contato correttamente. La maggior parte ritiene poi che comunque la cosa non avrà nessuna importanza, perché in ogni caso le decisioni politiche vengono influenzate e decise nel mondo degli affari. Non proprio una visione che ti invoglia a votare, e a credere nei risultati del voto. La cosa più rilevante emersa dal sondaggio, ha dichiarato al New York Times Robert P. Jones, Ceo di Prri, è che «gli americani sono fondamentalmente divisi tra quelli che pensano che il problema più grave siano i brogli, e quelli che pensano che invece sia la revoca del diritto di voto». Per via delle diverse legislazioni nei singoli Stati infatti negli Stati Uniti il voto è spesso negato a persone qualificate a esercitarlo, e questo fatto è ormai ampiamente percepito nell’elettorato come arbitrario.
Segue qui:
http://www.ilgiornale.it/news/politica/i-millennials-usa-non-credono-voto-1325258.html
(Fonte dei pezzi della rubrica: http://rassegnaflp.wordpress.com)
Non è solo Donald Trump a non fidarsi delle elezioni americane. Secondo un sondaggio realizzato dal Prri (Istituto partner della prestigiosa Brookings Institution) solo meno della metà degli americani pensa che il proprio voto verrà contato correttamente. La maggior parte ritiene poi che comunque la cosa non avrà nessuna importanza, perché in ogni caso le decisioni politiche vengono influenzate e decise nel mondo degli affari. Non proprio una visione che ti invoglia a votare, e a credere nei risultati del voto. La cosa più rilevante emersa dal sondaggio, ha dichiarato al New York Times Robert P. Jones, Ceo di Prri, è che «gli americani sono fondamentalmente divisi tra quelli che pensano che il problema più grave siano i brogli, e quelli che pensano che invece sia la revoca del diritto di voto». Per via delle diverse legislazioni nei singoli Stati infatti negli Stati Uniti il voto è spesso negato a persone qualificate a esercitarlo, e questo fatto è ormai ampiamente percepito nell’elettorato come arbitrario.
Segue qui:
http://www.ilgiornale.it/news/politica/i-millennials-usa-non-credono-voto-1325258.html
(Fonte dei pezzi della rubrica: http://rassegnaflp.wordpress.com)