IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale
Il soggetto collettivo è una contraddizione in termini?
Giorgio Manzi, La comparsa dei primi uomini
“Storia d’Europa e del Mediterraneo”, vol. I, Salerno Edit., Roma 2006, p. 71.
Questo post è apparentemente un’eccezione. Raccolgo la stimolazione di Trangoni, che su fb mi comunica che il soggetto collettivo è una contradictio in adjecto. Rispondo – credo in modo pertinente e non polemico – a una proposizione che merita di essere sviluppata non solo in polemica ma per sé stessa, potendo addirittura portare elementi a favore della mia tesi. In questo post provo a sviluppare l’idea che tra i due soggetti umani, l’individuale e il collettivo, non c’è contraddizione ma continuità, come le due facce della banda di Möbius che si continuano l’una nell’altra, senza poter mai distinguere categoricamente quale è l’una e quale è l’altra.
Nella transizione antropologica dall’individuale al collettivo (o viceversa dal collettivo all’individuale), che caratterizza l’evoluzione della famiglia degli ominidi, identifico due decisive tappe irreversibili, separate da qualche milione di anni (non voglio essere più preciso, essendo il mio “breve ragionamento” puramente qualitativo). La prima, il bipedismo, è addirittura preumana, cioè emerge prima del genere Homo; la seconda, la scrittura (sic, la scrittura, non il linguaggio!), è fenomeno specificamente umano, proprio di Homo sapiens, verificatosi quando sulla terra non c’erano più altre specie del genere Homo a competere con lui. Sottolineo questo aspetto perché è un caposaldo della teoria darwiniana della continuità dell’evoluzione dal biologico all’antropologico. Si tenga presente che nell’ottica della continuità natura-cultura l’ominazione, o antropogenesi, comincia ben prima dell’uomo, e che il soggetto collettivo, già emerso prima di Homo sapiens, si consolida in forma antropica solo molto dopo la comparsa del linguaggio, proprio con la scrittura umana.
Veniamo ai fatti. Prove di stazione eretta furono effettuate dalle australopitecine. Alcune di loro, scese dagli alberi dove vivevano, si rizzarono in piedi e provarono a muovere i primi passi. Una di loro, la famosa Lucy, morì cadendo dall’albero, essendo in fase di transizione: non più tanto brava ad arrampicarsi, non ancora brava a camminare. L’hanno dimostrato recentemente i radiologi con la tomografia computerizzata dei femori, rivelando le tipiche microfratture da caduta.
Si sa che, liberati gli arti superiori, la mano evolvette in forma prensile. Già le australopitecine sapevano scegliere e usare certe pietre come attrezzi “spontanei” per varie funzioni. Le prime specie di Homo ereditarono da loro le abilità manifatturiere e deambulatorie. Con la transizione da un genere all’altro l’innovazione bipede non si perse ma evolvette. Evidentemente rappresentava una serie di vantaggi selettivi. I manuali di biologia evoluzionista ne danno un certo elenco. Per esempio, la stazione eretta consentiva la visione dall’alto. Nella savana ciò permetteva di avvistare in anticipo i predatori. La liberazione degli arti superiori da impegni ambulatori condizionò tutta l’evoluzione tecnica e civile degli ominidi da 5 milioni a 1,7 milioni di anni fa. Il genere Homo si inserì in questa corrente evolutiva ascensionale che lo precedette; non la generò ex novo ma la prolungò.
Tuttavia l’evoluzione biologica, mancando di finalità prestabilite, procede alla cieca; è un random walk. Quindi i vantaggi non vanno quasi mai senza svantaggi. Ne segnalo uno in particolare per il bipedismo, perché è un mix equilibrato di positivo e negativo. Nel mio discorso funziona da giunto tra soggetto individuale e collettivo, dove il negativo può produrre del positivo.
La stazione eretta pose il cranio in bilico sulla colonna vertebrale, grazie a un complesso equilibrio, più dinamico che statico, che coinvolgeva muscoli, in primis i glutei, e ossa, in primis il valgismo femorale e le complesse curvature della colonna vertebrale. Non occorreva più una potente muscolatura per sorreggere il cranio, il quale poté espandersi. Questo fu sicuramente un vantaggio selettivo. Si passò così nell’arco di qualche milione di anni dai 300 cc delle australopitecine ai 1500 cc dei Neandertal. In parallelo il sistema nervoso aumentò di volume e acquisì nuove capacità funzionali, tecniche e sociali (due funzioni correlate). Le interazioni tra individui si fecero più complesse e articolate. La funzione epistemica diventò preponderante rispetto all’ontologica: gli ominidi impararono a costruire utensili, a usarli e a trasmettere il know how della costruzione e dell’uso alle generazioni successive. La preistoria ha una storia non scritta ma documentata dai reperti fossili.
Già a questo livello doveva essere operante una forma di capacità linguistica, connessa all’abilità tecnica – si pensi all’acquisizione del fuoco risalente a 0,8 milioni di anni fa – anche se molto probabilmente non fu una forma verbale vera e propria. Come e dove trovare le pietre da scheggiare, come estrarne delle amigdale, come usarle, questo sapere dovette realizzarsi per il confluire di abilità tecnica e abilità comunicativa tra più soggetti (governate da aree cerebrali contigue). Qualche forma di abilità linguistica, anche se non si trattava di linguaggi veri e propri, doveva essere presente all’origine delle prime grandi radiazioni fuori dall’Africa, se è vero che troviamo il genere Homo insediato in Europa e in Asia già 1,8 milioni di anni fa. Radiazioni tanto ampie sono possibili solo con sperimentati camminatori tra loro comunicanti. È questo un tratto “civile” acquisito dal bipedismo: non si cammina da soli. Non c’è soggetto collettivo senza bipedismo. Il soggetto individuale dipende dal collettivo, se cammina. Se il soggetto collettivo è collettivo “fuori” e in estensione, l’individuale è collettivo “dentro” e in intensione. La distinzione junghiana tra tipi psicologici introversi ed estroversi ha un fondamento extrapsicologico e un’origine assai remota. Già da queste superficiali considerazioni si capisce la portata collettiva del bipedismo, condizionata inizialmente dal fattore biologico.
Ma veniamo agli svantaggi selettivi del bipedismo e alle sue ricadute sul soggetto individuale. Le quali, curiosamente, vengono a dipendere dalla femminilità. Infatti la stazione eretta e l’andatura bipede impongono un radicale rimaneggiamento della configurazione scheletrica del bacino femminile con la conseguente riduzione del canale del parto. Ecco il conflitto: canale del parto ristretto, cranio aumentato di volume. Come poteva uscire dal ventre materno il piccolo dell’uomo? Con quale compromesso si risolse il conflitto anatomico madre-figlio? La selezione naturale trovò una soluzione di compromesso: l’espulsione precoce del prodotto del concepimento. Il singolo uomo, da allora, nacque immaturo, si dice neotenico, per non dire abortivo. Doveva maturare fisiologicamente fuori dall’utero in un ambiente collettivo, non necessariamente genitoriale.
È allora chiaro che furono evoluzionisticamente favorite le soluzioni che mantenevano coeso a lungo il collettivo genitoriale, garantendo la lenta maturazione individuale. L’Edipo, già personaggio mitico dai piedi gonfi, fu un fattore di coesione. L’attrazione similsessuale del figlio per il genitore di sesso opposto, biologicamente sostenuta dalla maturazione precoce delle gonadi, oltre che funzionale allo sviluppo individuale, fu un trucco coesivo per l’auto-mantenimento del collettivo perinatale (non dico familiare), a patto che la sessualità non fosse agita nel gruppo ma fuori. L’angoscia di castrazione e l’orrore dell’incesto furono epifenomeni che aiutarono lo sviluppo individuale, affinché il soggetto individuale uscisse dal collettivo quando era maturo per entrare in un altro. L’Edipo non ha alcuna causa psicologica alle spalle come immaginava Freud. Fu semplicemente un fenomeno biologico premiato dalla selezione naturale come fattore di evoluzione del soggetto individuale e di stabilità del soggetto collettivo. L’interpretazione psicanalitica dell’Edipo come generatore del desiderio è semplicemente ideologica. Il desiderio, se esiste, si avvale dell’Edipo per esprimersi, ma è generato prima dell’Edipo dall’interazione dei due soggetti. La formula lacaniana, “il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’altro”, mi sembra più “biologica”.
L’interazione, non la contraddizione, tra individuale e collettivo è già evidente in modo paradigmatico a livello del bipedismo. Non si cammina da soli, ho detto. Ci vuole un altro che ti insegni a camminare; ci vuole un altro che ti guardi alle spalle da possibili attacchi di predatori, quando cammini nella savana per passare da un’isola di foresta all’altra. Una forma di idealismo ingenuo attribuisce al linguaggio il fattore prevalente tipicamente umano di socializzazione. L’idealismo dimentica che prima del linguaggio emerse il bipedismo, un fattore che precedette di milioni di anni la comparsa di Homo sapiens, avvenuta intorno a 190.000 anni fa nella Rift Valley. Anche la capacità linguistica preverbale, come ho già detto, fu un evento sostanzialmente pre-umano. Nei crani di specie pre-sapiens si riscontrano impronte dell’area cerebrale di Broca, oggi linguistica motoria, forse allora collegata ad attività tecniche. Il fenomeno linguistico nella forma verbale oggi nota si produsse molto più tardi, forse all’epoca dell’ultima radiazione dall’Africa, circa 60.000 anni fa, quella che portò Homo sapiens a colonizzare in 50.000 anni l’intero pianeta, cancellando tutte le altre specie di Homo e imponendo le proprie forme di vita associativa in tutto il mondo. Prima di parlare gli esseri umani comunicavano in forma non verbale, quasi certamente con la mimica, ma sicuramente con l’intuizione. Chi intuiva in modo sbagliato l’intenzione degli altri veniva sicuramente punito dal gruppo.
Si pensi alla caccia collettiva, che richiede una cooperazione ignota anche agli scimpanzé, da cui gli ominidi si separarono 7 milioni di anni fa, mantenendo ben il 98,5% di DNA in comune con Homo sapiens. Qui gioca una volta di più il bipedismo. Le specie Homo non furono dotate di armi naturali: non avevano zanne né artigli, non erano veloci nella corsa, ma sapevano usare i piedi in modo molto proficuo: erano corridori di fondo. Potevano correre in gruppo per chilometri dietro alla gazzella fino a sfiancarla e poi ucciderla con armi da lancio. Oggi rivediamo la stessa scena con 23 uomini che per ben 90 minuti corrono dietro a un pallone su e giù per un campo da calcio. Comunicano non verbalmente, e vince chi comunica meglio, di certo non a parole. Chi può dire che c’è contraddizione tra l’individualità tecnica nel prendere a pedate un pallone e lo spirito di squadra?
Quale fu, allora, l’acquisizione culturale specificamente “moderna”, oltre al linguaggio verbale? Oso dire che furono due e relativamente tardive. Emersero a breve distanza di tempo: qualche millennio, non milioni di anni, praticamente sincrone su scala paleoantropologica. La prima fu probabilmente merito delle donne: l’agricoltura. Inizialmente gli uomini furono raccoglitori-cacciatori. Le donne o rimanevano al campo base ad allattare la prole o seguivano gli uomini con il neonato sulle spalle. Ma furono loro che scoprirono, di certo casualmente, che i semi lasciati cadere per terra al campo base producevano pianticelle che si potevano coltivare, raccogliendo altri semi senza spostarsi troppo. Poi i maschi cooperarono con le femmine domesticando gli animali, prima il cane, che cooperava già con l’uomo nelle battute di caccia, poi pollame, ovini e bovini, infine equini, da ultimi in epoca storica i felini, inutili all’economia domestica ma preferiti dalle donne (ultimissimi i tacchini in America).
L’invenzione dell’agricoltura fu il primo passo verso il capitalismo, istituendo l’accumulazione originaria della ricchezza: i granai. E vengo alla seconda acquisizione specificamente sapiens: la scrittura. Per gestire la ricchezza negli scambi commerciali occorre scrivere i numeri. Pare accertato che le prime forme di scrittura, nella Mezzaluna fertile (di nuovo la connessione con l’agricoltura), riguardarono i numerali, 5000 anni a.C., in funzione della contabilità. La scrittura nacque essenzialmente come possibilità di memoria collettiva. Prima della scrittura la comunicazione era un fatto interindividuale, non ancora collettivo; era fatta a voce lungo il canale auditivo e non lasciava tracce a disposizione di tutti. Con la scrittura la comunicazione diventò stabile con tracce archiviabili su tavolette d’argilla o papiri, essenzialmente visive, cui tutti potevano avere accesso – anche noi dopo millenni.
Il collettivo modernamente inteso nacque quando le tracce scritte diventarono leggi sociali, prima monarchiche, poi oligarchiche, poi repubblicane. Imparando a scrivere il soggetto individuale si inserì irreversibilmente nel collettivo e il collettivo penetrò ontologicamente nell’individuale. Il risultato tuttora evidente è un processo non solo singolare – di un solo individuo – e non solo plurale – di un insieme di individui. La metafora per dirlo è molto di moda: i due soggetti abitano nella rete. In rete i due soggetti interagiscono in modi che non sono sempre prevedibili e classificabili. Il modo freudo-lacaniano per dirlo è che tra individuale e collettivo abita il soggetto dell’inconscio, evanescente ma topologicamente collocato alla frontiera tra i due con la funzione di impedirne il collasso in un’incompatibilità che sarebbe la fine per entrambi.