GALASSIA FREUD
Materiali sulla psicoanalisi apparsi sui media
Novembre 2016 I - Coniùgi: da Van Eyck a Cohen
23 novembre, 2016 - 09:40
LA NASCITA DEL QUADRO NELL’ARTE FIAMMINGA. UN SAGGIO DI HANS BELTING. Lo storico dell’arte indaga l’origine del quadro da cavalletto nelle Fiandre nel XV secolo. L’artefice di questa rivoluzione fu Jan van Eyck, il pittore del celebre quadro dei Coniugi Arnolfini
di Maurizio Cecchetti, avvenire.it, 10 novembre 2016
Nel suo ultimo libro tradotto ora in italiano (ma scritto in realtà nel 1994), Hans Belting ci ricorda che a Bruges il fabbricante di specchi e il pittore appartenevano alla stessa corporazione. Siamo circa a metà del XV secolo, e il libro di Belting s’intitola Specchio del mondo. L’invenzione del quadro nell’arte fiamminga (Carocci, pagine 232, euro 23,00). Eppure, il tema di cui Belting si occupa in questo saggio erudito ma senza diventare pedante, non è soltanto di pertinenza fiamminga. Subito dopo lo storico si affretta a ricordare che l’Alberti, grande teorico della visione pittorica moderna, sosteneva che la storia della pittura era iniziata da uno specchio, quello di Narciso. Mi sono sempre chiesto quanta verità ci sia in questo mito. Immaginiamo uno dei primi uomini, un individuo capace di elaborare la domanda su ciò che vede riflesso sullo specchio d’acqua: che cosa vedeva effettivamente quell’uomo? Aveva coscienza di vedere se stesso, oppure, come un animale sorpreso dall’ombra più o meno comprensibile di un proprio simile, fu spinto a compiere un balzo indietro per difendersi dallo sconosciuto che gli era apparso all’improvviso? La coscienza di vedersi riflesso nello specchio quando venne acquisita dall’uomo? La pittura rupestre, che pure ci ha dato cose di una poeticità altissima, nasce dopo l’acquisizione di questa coscienza oppure la precede? Nel libro Belting fa reagire i due poli di un modo di vedere che ha qualche analogia con la celebre questione della schisi che Jacques Lacan aveva messo in luce fra l’occhio e lo sguardo, fra la pulsione del desiderio e la limitazione del vedere che trova nella pittura un diaframma. Lo sguardo viene a patti con l’occhio e cerca di controllarne il desiderio. La pittura vela allo sguardo (del pittore e dello spettatore) una varietà di pulsioni che l’occhio, in quanto organo del corpo, vuole appagare.
Segue qui:
https://www.avvenire.it/agora/pagine/l-invenzione-del-quadro-nell-arte-fiamminga
di Maurizio Cecchetti, avvenire.it, 10 novembre 2016
Nel suo ultimo libro tradotto ora in italiano (ma scritto in realtà nel 1994), Hans Belting ci ricorda che a Bruges il fabbricante di specchi e il pittore appartenevano alla stessa corporazione. Siamo circa a metà del XV secolo, e il libro di Belting s’intitola Specchio del mondo. L’invenzione del quadro nell’arte fiamminga (Carocci, pagine 232, euro 23,00). Eppure, il tema di cui Belting si occupa in questo saggio erudito ma senza diventare pedante, non è soltanto di pertinenza fiamminga. Subito dopo lo storico si affretta a ricordare che l’Alberti, grande teorico della visione pittorica moderna, sosteneva che la storia della pittura era iniziata da uno specchio, quello di Narciso. Mi sono sempre chiesto quanta verità ci sia in questo mito. Immaginiamo uno dei primi uomini, un individuo capace di elaborare la domanda su ciò che vede riflesso sullo specchio d’acqua: che cosa vedeva effettivamente quell’uomo? Aveva coscienza di vedere se stesso, oppure, come un animale sorpreso dall’ombra più o meno comprensibile di un proprio simile, fu spinto a compiere un balzo indietro per difendersi dallo sconosciuto che gli era apparso all’improvviso? La coscienza di vedersi riflesso nello specchio quando venne acquisita dall’uomo? La pittura rupestre, che pure ci ha dato cose di una poeticità altissima, nasce dopo l’acquisizione di questa coscienza oppure la precede? Nel libro Belting fa reagire i due poli di un modo di vedere che ha qualche analogia con la celebre questione della schisi che Jacques Lacan aveva messo in luce fra l’occhio e lo sguardo, fra la pulsione del desiderio e la limitazione del vedere che trova nella pittura un diaframma. Lo sguardo viene a patti con l’occhio e cerca di controllarne il desiderio. La pittura vela allo sguardo (del pittore e dello spettatore) una varietà di pulsioni che l’occhio, in quanto organo del corpo, vuole appagare.
Segue qui:
https://www.avvenire.it/agora/pagine/l-invenzione-del-quadro-nell-arte-fiamminga
SE LA TERRA È CASA TUA LASCIARLA È IMPOSSIBILE
di Claudio Risè, ilgiornale.it, 1 novembre 2016
Vogliono rimanere lì, nelle loro case, anche se le case non ci sono più
Tutti, o quasi, non ne vogliono sapere di altre case, o posti più sicuri. Vogliono rimanere lì, nelle loro case, anche se le case non ci sono più. Loro ci sono ancora, e restano. Come mai? Nell’epoca in cui, giù in città, interi quartieri di pochi decenni vengono abbattuti per fare spazio ad altro, cosa vogliono queste figure rocciose, pronte ad affrontare inverni rigidi senza più nulla delle cose che amavano pur di restare lì, tra le loro pietre rotolate giù, quelle pareti sbrindellate, quei tetti ora a pezzi: tutte parti del loro corpo e della loro anima? Quei materiali sbiancati dalla polvere sono oggi la loro vita: impossibile crearne magicamente un’altra, altrove. Non è retorica localista: è la vita umana, reale. Con i suoi aspetti fisici, molto concreti. È il cervello, coi suoi circuiti neurali che si sono sviluppati lì, nutriti da quelle immagini. È la memoria, sorretta da quei ricordi: quelli, insostituibili, della propria storia. È il cuore che batte assieme al respiro della propria terra, come ben sapeva il preciso astronomo Keplero. Per tutti loro, la casa non è solo un manufatto, sostituibile con un altro, meglio se in altro luogo, più sicuro. È il territorio dove è trascorsa la loro vita, impastata con esso e da lui nutrita. Certo, per chi vive nella metropoli è diverso.
Segue qui:
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/se-terra-casa-tua-lasciarla-impossibile-1325502.html
SCUSE NON RICHIESTE. Le accusatrici di Bill Clinton e Donald Trump hanno sacrificato l’amore sull’altare della vanità
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 2 novembre 2016
Sbagliano Bill Clinton e Donald Trump quando reagiscono alle accuse negando o pentendosi dei propri peccati. Nessun diniego o mea culpa va ostentato al fine di cancellare una volgarità, così la si accentua; se non trovi la parola che riesce a farti risorgere, piuttosto il silenzio, in cui giacere pensieroso. Guai fare il sodomizzato che confessa pubblicamente davanti a un mare di uomini assatanati di sapere se sei peggio di loro, e ridono, ridono che tu sei cascato nella trappola. Una trappolona, a doppio fondo, peraltro. Sultanico insultatore, bersagliato a sua volta d’insulti, se Trump vincerà le elezioni dovrà ringraziare quelle signorine tardive che l’hanno bollato. Santificate da un esercito di moralisti, in un primo momento esse hanno fatto una gran figura, ma giorno dopo giorno la perversione di Trump si è sdentata agli occhi del pubblico, gli scandalizzati scannerizzati si sono spaventati di averle esagerate, le vecchie signorine; e loro stesse forse si sono stufate: che gusto c’è, tanto quello è un bulldozer, sputargli addosso è portare acqua al suo mulino.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/11/02/scuse-non-richieste___1-vr-150322-rubriche_c288.htm
Vogliono rimanere lì, nelle loro case, anche se le case non ci sono più
Tutti, o quasi, non ne vogliono sapere di altre case, o posti più sicuri. Vogliono rimanere lì, nelle loro case, anche se le case non ci sono più. Loro ci sono ancora, e restano. Come mai? Nell’epoca in cui, giù in città, interi quartieri di pochi decenni vengono abbattuti per fare spazio ad altro, cosa vogliono queste figure rocciose, pronte ad affrontare inverni rigidi senza più nulla delle cose che amavano pur di restare lì, tra le loro pietre rotolate giù, quelle pareti sbrindellate, quei tetti ora a pezzi: tutte parti del loro corpo e della loro anima? Quei materiali sbiancati dalla polvere sono oggi la loro vita: impossibile crearne magicamente un’altra, altrove. Non è retorica localista: è la vita umana, reale. Con i suoi aspetti fisici, molto concreti. È il cervello, coi suoi circuiti neurali che si sono sviluppati lì, nutriti da quelle immagini. È la memoria, sorretta da quei ricordi: quelli, insostituibili, della propria storia. È il cuore che batte assieme al respiro della propria terra, come ben sapeva il preciso astronomo Keplero. Per tutti loro, la casa non è solo un manufatto, sostituibile con un altro, meglio se in altro luogo, più sicuro. È il territorio dove è trascorsa la loro vita, impastata con esso e da lui nutrita. Certo, per chi vive nella metropoli è diverso.
Segue qui:
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/se-terra-casa-tua-lasciarla-impossibile-1325502.html
SCUSE NON RICHIESTE. Le accusatrici di Bill Clinton e Donald Trump hanno sacrificato l’amore sull’altare della vanità
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 2 novembre 2016
Sbagliano Bill Clinton e Donald Trump quando reagiscono alle accuse negando o pentendosi dei propri peccati. Nessun diniego o mea culpa va ostentato al fine di cancellare una volgarità, così la si accentua; se non trovi la parola che riesce a farti risorgere, piuttosto il silenzio, in cui giacere pensieroso. Guai fare il sodomizzato che confessa pubblicamente davanti a un mare di uomini assatanati di sapere se sei peggio di loro, e ridono, ridono che tu sei cascato nella trappola. Una trappolona, a doppio fondo, peraltro. Sultanico insultatore, bersagliato a sua volta d’insulti, se Trump vincerà le elezioni dovrà ringraziare quelle signorine tardive che l’hanno bollato. Santificate da un esercito di moralisti, in un primo momento esse hanno fatto una gran figura, ma giorno dopo giorno la perversione di Trump si è sdentata agli occhi del pubblico, gli scandalizzati scannerizzati si sono spaventati di averle esagerate, le vecchie signorine; e loro stesse forse si sono stufate: che gusto c’è, tanto quello è un bulldozer, sputargli addosso è portare acqua al suo mulino.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/11/02/scuse-non-richieste___1-vr-150322-rubriche_c288.htm
IL LAVORO E LA SOFFERENZA
di Sarantis Thanopulos, il manifesto, 5 novembre 2016
Cos’è il lavoro oggi? Fondamento della democrazia, diritto inalienabile, realizzazione della creatività umana? Questi sono pensieri avveniristici, come tutte le grandi idee del passato. Lavorare oggi è, nella grande maggioranza dei casi, un privilegio mal retribuito e precario a cui aggrapparsi con tutte le proprie forze. Espropria gran parte della vita privata e dello spazio degli affetti e ha come suo ideale l’automazione umana. Lasciato nella corsa folle verso la crescente spersonalizzazione dei suoi processi, il lavoro arriverebbe, prima o poi, ad avere come unica sua ragione la produzione di lavoratori-automi e dell’occorrente per tenerli funzionanti, in piedi. Si può ben pensare, e sperare, che questa sia solo una previsione teorica: le risorse affettive e di pensiero di cui l’essere umano dispone impediranno il suo avverarsi. Tuttavia, le tendenze catastrofiche non hanno bisogno di dispiegarsi compiutamente nel loro percorso teoricamente prevedibile, per essere distruttive. Nel campo del lavoro si stanno producendo danni enormi, sul piano del piacere del creare e vivere, che, nella migliore delle ipotesi, occorreranno decenni per ripararli.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6493
Cos’è il lavoro oggi? Fondamento della democrazia, diritto inalienabile, realizzazione della creatività umana? Questi sono pensieri avveniristici, come tutte le grandi idee del passato. Lavorare oggi è, nella grande maggioranza dei casi, un privilegio mal retribuito e precario a cui aggrapparsi con tutte le proprie forze. Espropria gran parte della vita privata e dello spazio degli affetti e ha come suo ideale l’automazione umana. Lasciato nella corsa folle verso la crescente spersonalizzazione dei suoi processi, il lavoro arriverebbe, prima o poi, ad avere come unica sua ragione la produzione di lavoratori-automi e dell’occorrente per tenerli funzionanti, in piedi. Si può ben pensare, e sperare, che questa sia solo una previsione teorica: le risorse affettive e di pensiero di cui l’essere umano dispone impediranno il suo avverarsi. Tuttavia, le tendenze catastrofiche non hanno bisogno di dispiegarsi compiutamente nel loro percorso teoricamente prevedibile, per essere distruttive. Nel campo del lavoro si stanno producendo danni enormi, sul piano del piacere del creare e vivere, che, nella migliore delle ipotesi, occorreranno decenni per ripararli.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6493
COME È DIFFICILE DIRE “GRAZIE” (ANCHE IN AMORE)
di Massimo Recalcati, repubblica.it, 6 novembre 2016
La gratitudine è sempre più un sentimento raro e misconosciuto nel nostro tempo. A prevalere non è la gratitudine ma l’invidia. È questa una coppia concettuale al centro dell’ultimo grande lavoro di Melanie Klein (Invidia e gratitudine), una dei più grandi psicoanalisti dopo Freud. Se la gratitudine è diventata oggi un tabù del quale quasi vergognarsi, l’invidia sembra invece governare l’avidità acefala della pulsione ipermoderna. Molto più facile invidiare che ringraziare. Sapere dire “grazie!” sembra essere diventato un tabù. Lo diceva Voltaire quando ricordava che è più facile condividere i dolori di un amico che i suoi successi. Ma perché la gratitudine è divenuta così rara? Perché si dimenticano sempre più rapidamente i doni ricevuti? Accade tra genitori e figli, come tra allievi e maestri. Sul posto di lavoro, come nei legami di amicizia. A dominare è il fantasma dell’invidia: distruggere l’oggetto che ci soddisfa perché troppo ricco di vita, mordere la mano che ci nutre. È una constatazione amara che faceva anche Alda Merini quando ricordava che l’invidia si scatena sempre di fronte alla felicità della vita piena dell’altro.
Segue qui:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/11/06/come-e-difficile-dire-grazie-anche-in-amore54.html?ref=search
La gratitudine è sempre più un sentimento raro e misconosciuto nel nostro tempo. A prevalere non è la gratitudine ma l’invidia. È questa una coppia concettuale al centro dell’ultimo grande lavoro di Melanie Klein (Invidia e gratitudine), una dei più grandi psicoanalisti dopo Freud. Se la gratitudine è diventata oggi un tabù del quale quasi vergognarsi, l’invidia sembra invece governare l’avidità acefala della pulsione ipermoderna. Molto più facile invidiare che ringraziare. Sapere dire “grazie!” sembra essere diventato un tabù. Lo diceva Voltaire quando ricordava che è più facile condividere i dolori di un amico che i suoi successi. Ma perché la gratitudine è divenuta così rara? Perché si dimenticano sempre più rapidamente i doni ricevuti? Accade tra genitori e figli, come tra allievi e maestri. Sul posto di lavoro, come nei legami di amicizia. A dominare è il fantasma dell’invidia: distruggere l’oggetto che ci soddisfa perché troppo ricco di vita, mordere la mano che ci nutre. È una constatazione amara che faceva anche Alda Merini quando ricordava che l’invidia si scatena sempre di fronte alla felicità della vita piena dell’altro.
Segue qui:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/11/06/come-e-difficile-dire-grazie-anche-in-amore54.html?ref=search
SESSO, BANDO AI SENSI DI COLPA. VIVA I ‘TROMBAMICI’!
di Luciano Casolari, ilfattoquotidiano.it, 7 novembre 2016
Faccio lo psicoterapeuta da 35 anni per cui mi sono sempre interessato della vita sessuale dei pazienti e ho cercato di studiare in modo approfondito questi argomenti. Confesso però che fino a cinque anni fa non conoscevo il termine “trombamico o scopamico”. Mi spiegò una ragazza che si tratta di una relazione in cui i due trovanoun accordo preliminare per cui fra loro ci sarà solo erotismo e sfogo sessuale senza implicazioni emotive o men che meno decisioni di costruire qualche legame. A dir la verità questo tipo di relazione c’era anche in passato ma veniva vissuta in modo estremamente clandestino e, soprattutto, con sensi di colpa. La novità era che, appiccicando una terminologia al tipo di relazione, le si conferiva uno status e una sorta di struttura quasi che si trattasse di una nuova organizzazione sociale. Nel corso degli anni ho avuto la conferma che questo tipo di modalità di stare assieme è divenuta via via sempre più frequente e diffusa. I sensi di colpa paiono essere stati messi in soffitta e molti ragazzi parlano del loro “partner di sesso” con un certo orgoglio.
Segue qui:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/11/07/sesso-bando-ai-sensi-di-colpa-viva-i-trombamici/3174099/
Faccio lo psicoterapeuta da 35 anni per cui mi sono sempre interessato della vita sessuale dei pazienti e ho cercato di studiare in modo approfondito questi argomenti. Confesso però che fino a cinque anni fa non conoscevo il termine “trombamico o scopamico”. Mi spiegò una ragazza che si tratta di una relazione in cui i due trovanoun accordo preliminare per cui fra loro ci sarà solo erotismo e sfogo sessuale senza implicazioni emotive o men che meno decisioni di costruire qualche legame. A dir la verità questo tipo di relazione c’era anche in passato ma veniva vissuta in modo estremamente clandestino e, soprattutto, con sensi di colpa. La novità era che, appiccicando una terminologia al tipo di relazione, le si conferiva uno status e una sorta di struttura quasi che si trattasse di una nuova organizzazione sociale. Nel corso degli anni ho avuto la conferma che questo tipo di modalità di stare assieme è divenuta via via sempre più frequente e diffusa. I sensi di colpa paiono essere stati messi in soffitta e molti ragazzi parlano del loro “partner di sesso” con un certo orgoglio.
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http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/11/07/sesso-bando-ai-sensi-di-colpa-viva-i-trombamici/3174099/
PERCHÉ UN LEADER DEVE ESSERE BUONO
di Claudio Risè, ilgiornale.it, 8 novembre 2016
Ammettiamo che sia vero, che sia «un po’ troppo cattivo». E che, come al solito, anche qui Renzi faccia le cose molto più semplici di quello che sono. Come se «essere cattivi» fosse facile come dire una battuta, e non ci fossero di mezzo codici morali, visioni del mondo, istinti (che sono pur sempre lì, anche se lui non ne sa niente). Lo sapeva invece bene il filosofo francese Alain ammonendo che fare «il buon (…) tiranno non è così facile». In questo campo, dunque, sempre meglio non darsi troppe arie.
Eppoi: si sente il bisogno, oggi, di presidenti del Consiglio «un po’ troppo cattivi»? Quando gli interi Stati Uniti, indipendentemente da come voteranno, sono disgustati dell’incontenibile e inutile cattiveria e aggressività dei rispettivi candidati, che avrebbero anche tratti interessanti se non mancassero così platealmente (quasi provocatoriamente) di qualsiasi tratto di bontà e amore? Quando al di là delle Alpi c’è un presidente che coi giornalisti prende in giro i poveri chiamandoli «i senza denti»? Quando il presidente delle Filippine sta forse riuscendo a risolvere il problema della droga facendo sparare a centinaia di migliaia di drogati che non smettono di farsi? Quando, tra la costernazione di molti, la politica in tutto il mondo è «guidata dalla rabbia, aggressività e disperazione», come ha scritto ieri Mark Lilla della Columbia University?
Segue qui:
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/perch-leader-deve-essere-buono-1328693.html
Ammettiamo che sia vero, che sia «un po’ troppo cattivo». E che, come al solito, anche qui Renzi faccia le cose molto più semplici di quello che sono. Come se «essere cattivi» fosse facile come dire una battuta, e non ci fossero di mezzo codici morali, visioni del mondo, istinti (che sono pur sempre lì, anche se lui non ne sa niente). Lo sapeva invece bene il filosofo francese Alain ammonendo che fare «il buon (…) tiranno non è così facile». In questo campo, dunque, sempre meglio non darsi troppe arie.
Eppoi: si sente il bisogno, oggi, di presidenti del Consiglio «un po’ troppo cattivi»? Quando gli interi Stati Uniti, indipendentemente da come voteranno, sono disgustati dell’incontenibile e inutile cattiveria e aggressività dei rispettivi candidati, che avrebbero anche tratti interessanti se non mancassero così platealmente (quasi provocatoriamente) di qualsiasi tratto di bontà e amore? Quando al di là delle Alpi c’è un presidente che coi giornalisti prende in giro i poveri chiamandoli «i senza denti»? Quando il presidente delle Filippine sta forse riuscendo a risolvere il problema della droga facendo sparare a centinaia di migliaia di drogati che non smettono di farsi? Quando, tra la costernazione di molti, la politica in tutto il mondo è «guidata dalla rabbia, aggressività e disperazione», come ha scritto ieri Mark Lilla della Columbia University?
Segue qui:
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/perch-leader-deve-essere-buono-1328693.html
LEONARD COHEN E IL SIGNIFICATO NASCOSTO DI “FAMOUS BLUE RAINCOAT”. Quella che per molti è una struggente canzone d’amore del grande folksinger statunitense, morto l’11 novembre 2016 all’età di 82 anni, è in realtà il racconto degli abissi della depressione
di Francesco Cancellato, linkiesta.it, 11 novembre 2016
Lui e lei. Arriva l’altro, amico di lui. La seduce e l’abbandona. Lei torna da lui. L’altro scappa nel deserto, solo e triste. Lui gli scrive una lettera – che poi è il testo della canzone, visto che si conclude con “Sincerely, L. Cohen” – gli racconta che lei l’ha abbandonato di nuovo. Lo perdona. E lo ringrazia.
Questa, in estrema sintesi, la trama di “Famous Blue Raincoat”, una delle più celebri canzoni di Leonard Choen, morto oggi, 11 novembre, all’età di ottantadue anni. E per quanto il testo sia più prosa che poesia, fin didascalico nel collocare gli eventi nello spazio e nel tempo, nel dare un nome ai personaggi, nel raccontare cosa sia successo, questa canzone di Cohen è stata per decenni, fin dalla sua pubblicazione nel 1971, un piccolo enigma. Ed è quell’enigma, quel significato nascosto, che fa di una bellissima canzone, un capolavoro.
L’enigma si concentra sul personaggio cui Cohen scrive la sua lettera. Chi è veramente? Un personaggio di fantasia? Un amico con nome e cognome? E la storia è realmente accaduta? Di lui, ad esempio, sappiamo che aveva un “famoso impermeabile blu”. Ma è lo stesso Cohen a raccontare, in un’intervista del 1975, che lui stesso aveva «un bell’impermeabile, una volta. L’ho comprato da Burberry, a Londra, nel 1959. Mi stava addosso molto più eroicamente, quando gli ho tolto la fodera e ha guadagnato ulteriore gloria, quando le maniche sfrangiate sono state riparate con dei rattoppi in pelle». Primo indizio.
Segue qui:
http://www.linkiesta.it/it/article/2016/11/11/leonard-cohen-e-il-significato-nascosto-di-famous-blue-raincoat/32343/
LO STRANIERO
di Giuliano Castigliego, giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com, 12 novembre 2016
Cosa fa di uno straniero un nemico? Si chiede il filosofo Bernhard Waldenfels. Quanto stranieri sentiamo i migranti di cui non comprendiamo la lingua e dei quali forse non riusciamo nemmeno a comprendere le abitudini e la storia di vita? si chiede lo psichiatra e psicanalista svizzero-tedesco Joachim Küchenhoff. Le risposte si trovano nel numero attuale della rivista Archivi svizzeri di neurologia, psichiatria e psicoterapia pressoché interamente dedicato al tema, reso quanto mai attuale dalle odierne migrazioni, dello straniero (e della Svizzera come terra di immigrazione). Sia l’Italia che, prima ancora, la Svizzera sono stati paesi di emigrazione. I bambini più poveri delle valli svizzere erano portati nell’ottocento a Milano a fare, in condizioni di semi-schiavitù, gli spazzacamini. Il flusso migratorio dall’Italia verso la Svizzera e tanti altri paesi, estremo negli anni 60, 70 non si è ancora arrestato. Quanto abbiamo rimosso di quel periodo e di quella condizione in cui eravamo noi gli stranieri, visti come braccia anziché come uomini (Max Frisch), come fastidiosi concorrenti e rivali se non addirittura pericolosi nemici? Vale per lo straniero fuori da noi quello che vale anche per l’estraneo dentro di noi – e che Freud, prendendo spunto dal racconto L’uomo della sabbia di E.T.A. Hoffmann, descrive mirabilmente nel suo breve saggio Il perturbante? Più qualcosa ci fa paura, più la rimuoviamo, respingiamo, allontaniamo fino a non riconoscerla più come propria. Il perturbante, ci dice Freud, è qualcosa di assai noto e familiare (heimlich) che abbiamo rimosso in un luogo inaccessibile della nostra psiche (unheimlich, segreto) e che ritorna. Vale questo meccanismo anche per lo straniero? E che cosa in lui ci fa così paura? Verosimilmente percepiamo la condivisione della sua debolezza, della sua precarietà e del suo bisogno – prima ancora che degli stessi ambienti, strutture e servizi – come estremamente pericolosa, minacciosa, inquietante. Il tangibile ricordo della nostra fragilità (Phillips) e dell’illusione della nostra autonomia, di quanto poco siamo padroni in casa nostra (Freud).
Segue qui:
http://giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com/2016/11/12/lo-straniero/
Lui e lei. Arriva l’altro, amico di lui. La seduce e l’abbandona. Lei torna da lui. L’altro scappa nel deserto, solo e triste. Lui gli scrive una lettera – che poi è il testo della canzone, visto che si conclude con “Sincerely, L. Cohen” – gli racconta che lei l’ha abbandonato di nuovo. Lo perdona. E lo ringrazia.
Questa, in estrema sintesi, la trama di “Famous Blue Raincoat”, una delle più celebri canzoni di Leonard Choen, morto oggi, 11 novembre, all’età di ottantadue anni. E per quanto il testo sia più prosa che poesia, fin didascalico nel collocare gli eventi nello spazio e nel tempo, nel dare un nome ai personaggi, nel raccontare cosa sia successo, questa canzone di Cohen è stata per decenni, fin dalla sua pubblicazione nel 1971, un piccolo enigma. Ed è quell’enigma, quel significato nascosto, che fa di una bellissima canzone, un capolavoro.
L’enigma si concentra sul personaggio cui Cohen scrive la sua lettera. Chi è veramente? Un personaggio di fantasia? Un amico con nome e cognome? E la storia è realmente accaduta? Di lui, ad esempio, sappiamo che aveva un “famoso impermeabile blu”. Ma è lo stesso Cohen a raccontare, in un’intervista del 1975, che lui stesso aveva «un bell’impermeabile, una volta. L’ho comprato da Burberry, a Londra, nel 1959. Mi stava addosso molto più eroicamente, quando gli ho tolto la fodera e ha guadagnato ulteriore gloria, quando le maniche sfrangiate sono state riparate con dei rattoppi in pelle». Primo indizio.
Segue qui:
http://www.linkiesta.it/it/article/2016/11/11/leonard-cohen-e-il-significato-nascosto-di-famous-blue-raincoat/32343/
LO STRANIERO
di Giuliano Castigliego, giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com, 12 novembre 2016
Cosa fa di uno straniero un nemico? Si chiede il filosofo Bernhard Waldenfels. Quanto stranieri sentiamo i migranti di cui non comprendiamo la lingua e dei quali forse non riusciamo nemmeno a comprendere le abitudini e la storia di vita? si chiede lo psichiatra e psicanalista svizzero-tedesco Joachim Küchenhoff. Le risposte si trovano nel numero attuale della rivista Archivi svizzeri di neurologia, psichiatria e psicoterapia pressoché interamente dedicato al tema, reso quanto mai attuale dalle odierne migrazioni, dello straniero (e della Svizzera come terra di immigrazione). Sia l’Italia che, prima ancora, la Svizzera sono stati paesi di emigrazione. I bambini più poveri delle valli svizzere erano portati nell’ottocento a Milano a fare, in condizioni di semi-schiavitù, gli spazzacamini. Il flusso migratorio dall’Italia verso la Svizzera e tanti altri paesi, estremo negli anni 60, 70 non si è ancora arrestato. Quanto abbiamo rimosso di quel periodo e di quella condizione in cui eravamo noi gli stranieri, visti come braccia anziché come uomini (Max Frisch), come fastidiosi concorrenti e rivali se non addirittura pericolosi nemici? Vale per lo straniero fuori da noi quello che vale anche per l’estraneo dentro di noi – e che Freud, prendendo spunto dal racconto L’uomo della sabbia di E.T.A. Hoffmann, descrive mirabilmente nel suo breve saggio Il perturbante? Più qualcosa ci fa paura, più la rimuoviamo, respingiamo, allontaniamo fino a non riconoscerla più come propria. Il perturbante, ci dice Freud, è qualcosa di assai noto e familiare (heimlich) che abbiamo rimosso in un luogo inaccessibile della nostra psiche (unheimlich, segreto) e che ritorna. Vale questo meccanismo anche per lo straniero? E che cosa in lui ci fa così paura? Verosimilmente percepiamo la condivisione della sua debolezza, della sua precarietà e del suo bisogno – prima ancora che degli stessi ambienti, strutture e servizi – come estremamente pericolosa, minacciosa, inquietante. Il tangibile ricordo della nostra fragilità (Phillips) e dell’illusione della nostra autonomia, di quanto poco siamo padroni in casa nostra (Freud).
Segue qui:
http://giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com/2016/11/12/lo-straniero/
IL RICONOSCIMENTO E LA CURA DELLE VULNERABILITÀ UMANE
di Rosalba Miceli, lastampa.it, 12 novembre 2016
«La vita porta spesso a percorrere sentieri stretti e ripidi che attraversano tutte le forme di vulnerabilità genetica, evolutiva, storica e culturale», afferma Boris Cyrulnik, psicoanalista francese, tra i massimi esperti del fenomeno della resilienza (Boris Cyrulnik, Di carne e d’anima. La vulnerabilità come risorsa per crescere felici, saggi Frassinelli, 2007). La vulnerabilità rappresenta un elemento costitutivo della condizione umana. Dal neonato, al bambino, all’adulto, alla persona matura fino alla senescenza, l’individuo è sottoposto alla scoperta progressiva della finitezza, della vulnerabilità, della solitudine esistenziale. Come sottolineava Erich Fromm «la condizione originaria dell’uomo, che residua ancora oggi nelle sfere più profonde della soggettività, è quella di un essere bisognoso, debole, vulnerabile, finito e consapevole di essere destinato a finire».
Non sempre accettiamo tale condizione, anzi possiamo negarla e rifiutarla, o anestesizzarla, nascondendola a noi stessi e agli altri, vedendo solo negli eventi terzi la causa dei nostri insuccessi e fallimenti. Vulnerabilità, passività e dipendenza costituiscono allora dimensioni rimosse fintanto che la nostra vita procede senza crisi evidenti. Tuttavia, di fronte a particolari situazioni, sperimentiamo in noi stessi o in persone a noi molto vicine, il senso di estrema fragilità che abbiamo vissuto fin dalla nascita. La vulnerabilità esistenziale può essere compensata dal legame sociale che stabilisce un’unione di gruppo solidale e cooperativa. «In effetti, solo chi riconosce la propria fragilità, il proprio limite può costruire relazioni fraterne e solidali, nella Chiesa e nella società» (Papa Francesco, udienza con i ciechi e i sordomuti, 29 marzo 2014). In altri termini, il riconoscimento della nostra vulnerabilità può indurci a considerare gli altri, vulnerabili più o quanto noi, come membri di un’unica comunità umana, a non provare paura, rigetto o repulsione davanti alla fragilità dell’altro (in cui vediamo rispecchiata la nostra), a rispondere alla vulnerabilità altrui con l’ascolto e la cura.
Segue qui:
http://www.lastampa.it/2016/11/12/scienza/galassiamente/il-riconoscimento-e-la-cura-delle-vulnerabilit-umane-yU48rSZqZvFLvxx2953U6K/pagina.html
«La vita porta spesso a percorrere sentieri stretti e ripidi che attraversano tutte le forme di vulnerabilità genetica, evolutiva, storica e culturale», afferma Boris Cyrulnik, psicoanalista francese, tra i massimi esperti del fenomeno della resilienza (Boris Cyrulnik, Di carne e d’anima. La vulnerabilità come risorsa per crescere felici, saggi Frassinelli, 2007). La vulnerabilità rappresenta un elemento costitutivo della condizione umana. Dal neonato, al bambino, all’adulto, alla persona matura fino alla senescenza, l’individuo è sottoposto alla scoperta progressiva della finitezza, della vulnerabilità, della solitudine esistenziale. Come sottolineava Erich Fromm «la condizione originaria dell’uomo, che residua ancora oggi nelle sfere più profonde della soggettività, è quella di un essere bisognoso, debole, vulnerabile, finito e consapevole di essere destinato a finire».
Non sempre accettiamo tale condizione, anzi possiamo negarla e rifiutarla, o anestesizzarla, nascondendola a noi stessi e agli altri, vedendo solo negli eventi terzi la causa dei nostri insuccessi e fallimenti. Vulnerabilità, passività e dipendenza costituiscono allora dimensioni rimosse fintanto che la nostra vita procede senza crisi evidenti. Tuttavia, di fronte a particolari situazioni, sperimentiamo in noi stessi o in persone a noi molto vicine, il senso di estrema fragilità che abbiamo vissuto fin dalla nascita. La vulnerabilità esistenziale può essere compensata dal legame sociale che stabilisce un’unione di gruppo solidale e cooperativa. «In effetti, solo chi riconosce la propria fragilità, il proprio limite può costruire relazioni fraterne e solidali, nella Chiesa e nella società» (Papa Francesco, udienza con i ciechi e i sordomuti, 29 marzo 2014). In altri termini, il riconoscimento della nostra vulnerabilità può indurci a considerare gli altri, vulnerabili più o quanto noi, come membri di un’unica comunità umana, a non provare paura, rigetto o repulsione davanti alla fragilità dell’altro (in cui vediamo rispecchiata la nostra), a rispondere alla vulnerabilità altrui con l’ascolto e la cura.
Segue qui:
http://www.lastampa.it/2016/11/12/scienza/galassiamente/il-riconoscimento-e-la-cura-delle-vulnerabilit-umane-yU48rSZqZvFLvxx2953U6K/pagina.html
SE LA PREGHIERA NON È SOLO UNA ILLUSIONE
di Massimo Recalcati, repubblica.it, 13 novembre 2016
Il nostro tempo sembra avere ridotto la preghiera ad una pratica superstiziosa. La cultura dei lumi ha emancipato l’uomo da pratiche rituali irrazionali nel nome del primato della ragione critica. Se la preghiera è divenuta un tabù è perché l’uomo religioso è stato finalmente smascherato come una menzogna. Anche la psicoanalisi ha contribuito a liberare l’umanità dalle illusioni della religione. Paul Ricouer accomunava i nomi di Marx, Nietzsche e Freud sotto il segno della “scuola del sospetto”. Gli Ideali – innanzitutto quelli che animano ogni credenza religiosa – sono idoli di carta che nascondono una radice oscena: la religione serve a drogare gli individui e i popoli alimentando la fede illusoria di un mondo dietro al mondo, per costringerli a subire passivamente le ingiustizie di questo mondo. Le analisi che Freud dedica all’uomo religioso appaiono esemplari: la religione è un delirio dell’umanità che vorrebbe restaurare un padre ideale (Dio) capace di proteggere e consolare la vita umana bisognosa di soccorso. Fromm ha prolungato le ricerche di Freud giungendo a teorizzare la religione come forma maggiore della fuga dell’uomo dalla angoscia della libertà per gettarsi nelle braccia di una autorità salvatrice. Nella preghiera tutti noi torniamo ad essere bambini impauriti che affidano le sorti incerte delle loro vite ad un padre rassicurante. Ma siamo certi che la preghiera sia solo un fenomeno regressivo, superstizioso, irrazionale?
Segue qui:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/11/13/se-la-preghiera-non-e-solo-una-illusione56.html?ref=search
Il nostro tempo sembra avere ridotto la preghiera ad una pratica superstiziosa. La cultura dei lumi ha emancipato l’uomo da pratiche rituali irrazionali nel nome del primato della ragione critica. Se la preghiera è divenuta un tabù è perché l’uomo religioso è stato finalmente smascherato come una menzogna. Anche la psicoanalisi ha contribuito a liberare l’umanità dalle illusioni della religione. Paul Ricouer accomunava i nomi di Marx, Nietzsche e Freud sotto il segno della “scuola del sospetto”. Gli Ideali – innanzitutto quelli che animano ogni credenza religiosa – sono idoli di carta che nascondono una radice oscena: la religione serve a drogare gli individui e i popoli alimentando la fede illusoria di un mondo dietro al mondo, per costringerli a subire passivamente le ingiustizie di questo mondo. Le analisi che Freud dedica all’uomo religioso appaiono esemplari: la religione è un delirio dell’umanità che vorrebbe restaurare un padre ideale (Dio) capace di proteggere e consolare la vita umana bisognosa di soccorso. Fromm ha prolungato le ricerche di Freud giungendo a teorizzare la religione come forma maggiore della fuga dell’uomo dalla angoscia della libertà per gettarsi nelle braccia di una autorità salvatrice. Nella preghiera tutti noi torniamo ad essere bambini impauriti che affidano le sorti incerte delle loro vite ad un padre rassicurante. Ma siamo certi che la preghiera sia solo un fenomeno regressivo, superstizioso, irrazionale?
Segue qui:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/11/13/se-la-preghiera-non-e-solo-una-illusione56.html?ref=search
Recalcati alla Leopolda
CARO RECALCATI, BASTA CON L’INUTILE RETORICA DEL CAMBIAMENTO! In vent’anni abbiamo cambiato quattro leggi elettorali e un sacco di volte la legislazione sul lavoro, sulle pensioni e sulla scuola. E se avessimo di stabilità, anziché di continue e sterili mutazioni?
di Francesco Cancellato, linkiesta.it, 8 novembre 2016
«Matteo Renzi doveva essere ucciso nella culla: ci hanno provato, perché il suo è il nome del cambiamento». Parole e musica di Massimo Recalcati, psicanalista, saggista, editorialista, nella sua prima volta dal palco della Leopolda. Un attacco duro, il suo, alla «sinistra del No», che «non ha fatto niente per trent’anni». Insomma. Possiamo pure perdonare a Recalcati un po’ di memoria selettiva, ma a noi sembra, al contrario, che il problema dell’Italia non sia il cambiamento. O meglio: che il problema della politica italiana – per dirla in una lingua che capisce – sia l’ossessione per il cambiamento continuo. Mutuandola dal lessico calcistico e dal nome del celeberrimo presidente mangia-allenatori del Palermo – dall’Odissea e dai film di Clint Eastwood abbiamo attinto abbastanza, no? – potremmo chiamarla “sindrome di Zamparini”.
Segue qui:
http://www.linkiesta.it/it/article/2016/11/08/caro-recalcati-basta-con-linutile-retorica-del-cambiamento/32307/
«Matteo Renzi doveva essere ucciso nella culla: ci hanno provato, perché il suo è il nome del cambiamento». Parole e musica di Massimo Recalcati, psicanalista, saggista, editorialista, nella sua prima volta dal palco della Leopolda. Un attacco duro, il suo, alla «sinistra del No», che «non ha fatto niente per trent’anni». Insomma. Possiamo pure perdonare a Recalcati un po’ di memoria selettiva, ma a noi sembra, al contrario, che il problema dell’Italia non sia il cambiamento. O meglio: che il problema della politica italiana – per dirla in una lingua che capisce – sia l’ossessione per il cambiamento continuo. Mutuandola dal lessico calcistico e dal nome del celeberrimo presidente mangia-allenatori del Palermo – dall’Odissea e dai film di Clint Eastwood abbiamo attinto abbastanza, no? – potremmo chiamarla “sindrome di Zamparini”.
Segue qui:
http://www.linkiesta.it/it/article/2016/11/08/caro-recalcati-basta-con-linutile-retorica-del-cambiamento/32307/
PADRI E FIGLI. Renzi combatte contro i suoi genitori perché rifiuta l’idea di dire un mortifero “no” alla vita
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 9 novembre 2016
Bell’intervento dello psicanalista Massimo Recalcati, padre spirituale di Repubblica, che alla Leopolda con ardore ha sottolineato il rancore di certi falsi padri che si scagliano contro i figli, che spesso risultano essere i veri padri; figli che non avrebbero dovuto nascere ma restare nell’ombra. Grande anche il gesto di Cuperlo, cognome che evoca Copernico e il mondo della scoperta, alla quale invita i reticenti compagni. Bel volto di giovane combattente quello di Recalcati, aperto all’avventura e al desiderio; volto sapiente quello di Cuperlo, che contando i passi del proprio cammino verso la giovinezza, l’ha abbracciata, altri portando con sé. Finalmente si respira. L’arroganza, dalla vecchia guardia spacciata per educazione, spinge molti aspiranti falsi padri a scendere in piazza contro i loro coetanei al grido di: “No, non vogliamo crescere, vogliamo marcire come sono marciti i nostri padri, con onore, come con onore è marcita la nostra Patria in tanti anni di pasticci e combutte senza senso, anni di nobile paura e quieto vivere”. Il No alla vita cerca d’imporsi ancora una volta, come se la vita fosse la morte e la morte la vita, in una micidiale confusione.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/11/09/padri-e-figli___1-vr-150767-rubriche_c147.htm
Bell’intervento dello psicanalista Massimo Recalcati, padre spirituale di Repubblica, che alla Leopolda con ardore ha sottolineato il rancore di certi falsi padri che si scagliano contro i figli, che spesso risultano essere i veri padri; figli che non avrebbero dovuto nascere ma restare nell’ombra. Grande anche il gesto di Cuperlo, cognome che evoca Copernico e il mondo della scoperta, alla quale invita i reticenti compagni. Bel volto di giovane combattente quello di Recalcati, aperto all’avventura e al desiderio; volto sapiente quello di Cuperlo, che contando i passi del proprio cammino verso la giovinezza, l’ha abbracciata, altri portando con sé. Finalmente si respira. L’arroganza, dalla vecchia guardia spacciata per educazione, spinge molti aspiranti falsi padri a scendere in piazza contro i loro coetanei al grido di: “No, non vogliamo crescere, vogliamo marcire come sono marciti i nostri padri, con onore, come con onore è marcita la nostra Patria in tanti anni di pasticci e combutte senza senso, anni di nobile paura e quieto vivere”. Il No alla vita cerca d’imporsi ancora una volta, come se la vita fosse la morte e la morte la vita, in una micidiale confusione.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/11/09/padri-e-figli___1-vr-150767-rubriche_c147.htm
LA VOCE DEL PADRONE. La psicoanalisi ai tempi della Leopolda. Considerazioni di uno psicoanalista per il no
di Maurizio Montanari, lettera43.it, 14 novembre 2016
Non so se, quando lo psicoanalista J.A. Miller sosteneva la necessità di ‘parlare la lingua dell’altro’, cercando di rendere l’analista una figura attuale, elastica, capace di lasciare sempre più le mura dello studio, si riferisse anche alle kermesse di corrente di partito, come quella tenutasi alla Leopolda. La passerella fiorentina rappresentava invero più un salotto esclusivo, il défilé di una piccola élite, che non le voci della città. La psicoanalisi, piuttosto che accasarsi presso un’avanguardia benpensante e piena, satolla di mezzi e verità, dovrebbe andare laddove la carne della città è viva, in bilico, precaria, disoccupata. Dove c’è il vuoto, dove qualcosa manca, cercando di dare voce a tutti coloro i quali la voce l’hanno persa, al prezzo di volgarizzarsi. Non è populismo dire che là dentro non erano rappresentate che alcune delle voci della società. Non certo quelle dei docenti toccati dalle recenti riforme, né quelle dei giovani vittime del jobs act, manco quelle degli operai della Fiat colpiti dal ‘modello Marchionne’, uomo col quale il leader della Leopolda si dice in piena sintonia. Se la psicoanalisi la si vuole usare in città, dans la rue, si deve cercare di arrivare anche nelle periferie. Pena, il cadere in un gioco di specchi dove il padrone si bea delle sue parole e dei suoi tecnicismi, che si stagliano, ma sfumano in mezzo alla pletora di applausi e voci univoche del coro.
Come uomini possiamo andare ovunque. Entrare in qualsiasi consesso liberamente. Come analisti sappiamo che esistono stanze che ci impongo di lasciare il soprabito fuori dalla porta. La questione dell’‘opacità’ dell’analista, vale a dire la capacità tenace di non lasciare trasparire che poco o nulla dei propri vissuti interiori, è un articolo cardine della costituzione analitica, che permette all’analista di restare tale, occupando quella posizione, indipendentemente dal mutare dei tempi e dei costumi. L’analista, e questo lo sanno davvero tutti coloro che sono addetti ai lavori, affinché il dispositivo funzioni e non si tramuti in qualcosa d’altro, deve saper mantenere questa posizione il più possibile decolorata, quel posto che Lacan definisce dello ‘scarto’. In seduta, certo. Ma non solo. Viceversa, il mostrare pubblicamente le proprie pulsioni, idee, vestendole del lessico clinico, può sfociare in qualcosa che assomiglia ad un ‘giudizio diagnostico’ extra moenia. E in un mondo mediatico dove se ti metti in posa sai che il tuo messaggio verrà replicato all’infinito, è qualcosa che può turbare, scuotere, colpire, pasticciare il lavoro in corso di tanti che si sono sentiti chiamati in causa. Penso al lavoro analitico delle mummie masochiste che voteranno no. Mi chiedo quale sarebbe la reazione dei miei analizzanti, del pd, o quelli di sinistra, o di destra, se mi vedessero non già schierato, quanto ‘arruolato’ imbracciando la doppietta del dsm in uno dei palchi politici ai quali ho partecipato. Apostrofando parte di essi come un ‘corpo unico’, definendoli in base a questa o quella affezione dalla quale sarebbero interessati. Quanto poco ci vorrebbe a pisciare su anni ed anni di faticosa costruzione di rapporti a volte difficili, densi di elementi transferali da tenere sotto controllo. Quanta fatica per raggiungere, con i limiti della mia imperfezione, la meta dell’uno per uno. Come entreranno in seduta tutti questi analizzanti che votano no? Anni ed anni di rettifica personale, con lavori minuziosi e faticosi sulla pelle del proprio inconscio, resisteranno alla diagnosi di massa effettuata dal video? E quelli che son padri e votano no, o che hanno padri che votano no, sono pronti a vivere da mummie, affette dalla patologia del masochismo? Si tramuterà in un allungamento delle sedute per elaborare la diagnosi inaspettata, o basterà non parlarne?
Non so se, quando lo psicoanalista J.A. Miller sosteneva la necessità di ‘parlare la lingua dell’altro’, cercando di rendere l’analista una figura attuale, elastica, capace di lasciare sempre più le mura dello studio, si riferisse anche alle kermesse di corrente di partito, come quella tenutasi alla Leopolda. La passerella fiorentina rappresentava invero più un salotto esclusivo, il défilé di una piccola élite, che non le voci della città. La psicoanalisi, piuttosto che accasarsi presso un’avanguardia benpensante e piena, satolla di mezzi e verità, dovrebbe andare laddove la carne della città è viva, in bilico, precaria, disoccupata. Dove c’è il vuoto, dove qualcosa manca, cercando di dare voce a tutti coloro i quali la voce l’hanno persa, al prezzo di volgarizzarsi. Non è populismo dire che là dentro non erano rappresentate che alcune delle voci della società. Non certo quelle dei docenti toccati dalle recenti riforme, né quelle dei giovani vittime del jobs act, manco quelle degli operai della Fiat colpiti dal ‘modello Marchionne’, uomo col quale il leader della Leopolda si dice in piena sintonia. Se la psicoanalisi la si vuole usare in città, dans la rue, si deve cercare di arrivare anche nelle periferie. Pena, il cadere in un gioco di specchi dove il padrone si bea delle sue parole e dei suoi tecnicismi, che si stagliano, ma sfumano in mezzo alla pletora di applausi e voci univoche del coro.
Come uomini possiamo andare ovunque. Entrare in qualsiasi consesso liberamente. Come analisti sappiamo che esistono stanze che ci impongo di lasciare il soprabito fuori dalla porta. La questione dell’‘opacità’ dell’analista, vale a dire la capacità tenace di non lasciare trasparire che poco o nulla dei propri vissuti interiori, è un articolo cardine della costituzione analitica, che permette all’analista di restare tale, occupando quella posizione, indipendentemente dal mutare dei tempi e dei costumi. L’analista, e questo lo sanno davvero tutti coloro che sono addetti ai lavori, affinché il dispositivo funzioni e non si tramuti in qualcosa d’altro, deve saper mantenere questa posizione il più possibile decolorata, quel posto che Lacan definisce dello ‘scarto’. In seduta, certo. Ma non solo. Viceversa, il mostrare pubblicamente le proprie pulsioni, idee, vestendole del lessico clinico, può sfociare in qualcosa che assomiglia ad un ‘giudizio diagnostico’ extra moenia. E in un mondo mediatico dove se ti metti in posa sai che il tuo messaggio verrà replicato all’infinito, è qualcosa che può turbare, scuotere, colpire, pasticciare il lavoro in corso di tanti che si sono sentiti chiamati in causa. Penso al lavoro analitico delle mummie masochiste che voteranno no. Mi chiedo quale sarebbe la reazione dei miei analizzanti, del pd, o quelli di sinistra, o di destra, se mi vedessero non già schierato, quanto ‘arruolato’ imbracciando la doppietta del dsm in uno dei palchi politici ai quali ho partecipato. Apostrofando parte di essi come un ‘corpo unico’, definendoli in base a questa o quella affezione dalla quale sarebbero interessati. Quanto poco ci vorrebbe a pisciare su anni ed anni di faticosa costruzione di rapporti a volte difficili, densi di elementi transferali da tenere sotto controllo. Quanta fatica per raggiungere, con i limiti della mia imperfezione, la meta dell’uno per uno. Come entreranno in seduta tutti questi analizzanti che votano no? Anni ed anni di rettifica personale, con lavori minuziosi e faticosi sulla pelle del proprio inconscio, resisteranno alla diagnosi di massa effettuata dal video? E quelli che son padri e votano no, o che hanno padri che votano no, sono pronti a vivere da mummie, affette dalla patologia del masochismo? Si tramuterà in un allungamento delle sedute per elaborare la diagnosi inaspettata, o basterà non parlarne?
Fonte dei materiali:
https://rassegnaflp.wordpress.com/