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Appunti per una microstoria dei servizi psichiatrici per minori di Reggio Emilia dal 1968 ai giorni nostri

26 Nov 16

A cura di Leonardo Dino Angelini

di Leonardo (Dino) Angelini e Deliana Bertani
 

(apparso in: "Manicomio ultimo atto – bilanci, rischi, prospettive della chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici in Italia" – a cura di P. Tranchina e M.P. Teodori, numero speciale di Fogli di Informazione, Centro di documentazione, Pistoia, giugno-agosto 1996, N.170)
 

Accingersi a fare una storia, così come abbozzare una microstoria, è sempre un atto significativo. Così come è un segno la rinuncia a descriversi, ad autorappresentarsi, ad iscriversi all’interno di una propria mitologia familiare. 
In entrambi i casi si tratta di decidere che atteggiamento prendere non solo nei confronti del passato (del mito), ma anche, e soprattutto di come conciliare e coniugare passato, presente e futuro.
Oggi, in un’epoca di ri\dimensionamento del welfare reggiano ed emiliano-romagnolo – ri\dimensionamento che sta avvenendo secondo linee di ristrutturazione che in buona parte sono solo il riflesso galvanico di ciò che sta avvenendo a livello nazionale (vedi come è stato applicato qui da noi il progetto di riforma De Lorenzo ) – riflettere sul proprio passato in termini non nostalgici diventa prima di tutto un atto di autonomia rispetto alle trame aziendalistiche e toyotistiche che pericolosamente e adialetticamente stanno venendo avanti.
Tenteremo perciò, con questo spirito, di tracciare il canovaccio di una storia, più che una vera e propria storia : il canovaccio di una microstoria locale, che, per l’adialetticità dei processi di trasformazione in atto nel nostro territorio, rischia fra un po’ di non poter essere più raccontata, o di esser trasfigurata dal racconto di nuovi soggetti più o meno interessati a rimanere fedeli alla sua trama originaria, più o meno in grado di attingere alle biografie di prima mano che l’hanno sostanziata.
Prima, però, di abbozzare il nostro canovaccio, è necessario fare una premessa sulla natura del welfare italiano, poiché altrimenti si rischia di non comprendere il significato discriminato che in Italia hanno assunto, nei 30 anni scorsi, concetti quali: servizio psichiatrico territoriale, operatore psichiatrico dell’età evolutiva, etc. –
 
2. I nuovi servizi psichiatrici per l’infanzia dell'Emilia e Romagna, e di Reggio Emilia in particolare, cominciano ad avere una certa consistenza allorché, agli inizi degli anni 70, nella nostra regione nacquero i servizi territoriali. È nell'atmosfera intrisa di sperimentalismo che avvolgeva questi nuovi servizi che gli operatori del pubblico cominciarono ad emettere i loro primi vagiti.
Spesso, nel ricordare a 30 anni di distanza quegli inizi, non si fa sufficiente attenzione al fatto che il modello del welfare italiano non è un modello univoco. Infatti in quel periodo in Italia non tutte le regioni presero la strada dello Stato Sociale, cioè dello stato che eroga servizi, ma, anzi, molte regioni (e non solo quelle meridionali) optarono per una concezione diversa del welfare, e cioè per quello che gli economisti chiamano Stato Assistenziale, che prevede non l’erogazione di servizi, ma la distribuzione più o meno a pioggia delle risorse sotto forma di sussidi.
Cominciò così una divaricazione che prese la sanità, e non solo la sanità, gli operatori psichiatrici, e non solo loro: una divaricazione in base alla quale ancora oggi fare l’operatore psichiatrico nel pubblico in regioni come la nostra è spesso altra cosa che fare apparentemente la stessa cosa in luoghi in cui il welfare si è sviluppato negli anni scorsi in maniera assistenziale.
 
3. L'elemento basilare che differenzia sul piano culturale gli operatori psichiatrici ( e non solo, ripetiamo, questo tipo di operatori) che che sono cresciuti nello stato sociale da quelli che hanno operato in una situazione di stato assistenziale è nel fatto che in zone come la nostra la crescita dei servizi ha potuto innescare una cultura dei servizi, e quindi dei profili professionali che in quella cultura si sono forgiati, mentre gli operatori psichiatrici che hanno operato in zone in cui i servizi sono stati solo una facciata non hanno potuto inventare e diventare nulla di tutto ciò, ed i loro confini professionali sono stati affidati alla dedizione personale dei singoli : non hanno, cioè, prodotto una cultura di servizio.
 
4.Detto questo veniamo ora alla nostra microstoria. In essa, a nostro avviso, sono riscontrabili quattro fasi: a. La prima fase, che potremmo definire della "sperimentazione", che è corrispettiva ai primi anni 70, e che accompagna la nascita del welfare emiliano, e di tutte le nuove e vecchie professioni che nel modello emiliano si forgiano, o si ri\forgiano.  b. La seconda fase, che abbiamo denominato del "tecnicismo", che si sviluppa nella seconda metà degli anni 70 e nella prima metà degli anni 80 e che nasce dalla crisi dello sperimentalismo (e dell'ideologismo) e della fase precedente.  c. La terza fase è quella che, in altro luogo, abbiamo definito "dell' alleanza per.." – Essa nasce da una prima elaborazione in termini di autoconsapevolezza adulta dei limiti e delle possibilità attuali del nostro lavoro. Tale fase è a nostro avviso individuabile già a partire dalla seconda metà degli anni 80. d. Ci pare infine che nell'ultimo periodo si possa parlare dell'emergere di una quarta fase, che potremmo definire "fase dell'aziendalizzazione", susseguente alla legge "De Lorenzo" sulla sanità, che è andata modificando, sotto molti punti di vista le ragioni sociali ed economiche delle UUSSLL, trasformandole in azienda, o meglio in un simulacro di azienda.
Ovviamente la periodizzazione risente dell'esperienza reggiana e quindi, qualora le si voglia dare un senso più generale, andrebbe parametrata alle varie microstorie locali di ciascun gruppo di lavoro operante in situazione si stato sociale.
 
5. LA FASE DELLA SPERIMENTAZIONE: fu quel periodo in cui ciascun tecnico, insieme agli altri tecnici delle nuove istituzioni, o delle vecchie istituzioni rinnovate, cominciò a definire nei collettivi di lavoro, nati sulla spinta antiautoritaria del 68, una sorta di identità gruppale in cui presero a convivere confusamente tutte le professionalità (in un rapporto di confusione, spesso, anche con le istanze di tipo amministrativo), identità gruppale che ebbe, appunto, nel collettivo, nell'équipe il proprio involucro, il proprio luogo principe di tipo fisico, politico, tecnico e finanche psicologico. Luogo di incontro che si reputava esente dai limiti e dai condizionamenti istituzionali, luogo di sperimentazione, appunto, di nuove modalità di cura e di prevenzione. Fu in questo luogo che si andò definendo un nuovo sapere, una nuova cultura, che, molto schematicamente, potremmo riassumere come: a. sapere antidiagnostico, poiché la diagnosi in quel momento era vista come funzionale alla logica segregante delle vecchie istituzioni totali che si volevano demolire e ridefinire in termini totalmente (e, spesso adialetticamente) nuovi; b. sapere trasformativo secondo una logica intuitiva e scarsamente riflessiva che allevò in sè due filoni : uno più schiettamente sperimentale, pratico, o meglio praticistico (che, nonostante l’irriflessività che lo contraddistinse, fu quello destinato a dare i migliori risultati), l'altro ideologico, semplificatorio ("si fa secondo quanto definito dalla classe operaia"), e perciò più sterile.
Nella furia iconoclasta di questi anni tutti gli operatori tendono a definire una critica destruens molto vivace e politica, e una critica construens che ha i connotati dell'esemplarità (con tutti i fastidi che un simile atteggiamento può suscitare nelle vecchie professioni, nei vecchi luoghi di cura), e della provocatorietà, che, insieme all'esuberanza "destruens", pone in luce, potremmo dire, la matrice " adolescenziale" di quel nostro agire di allora.
 
6.LA FASE DEL TECNICISMO: Lo sperimentalismo va in crisi quando, da una parte, vi è un ricambio generazionale fra gli amministratori, dall’altra nei luoghi in cui avvengono i primi inserimenti vien fuori che l'irruenza destruens e le provocazioni non bastano più e che occorre proporsi, più costruttivamente, progetti riabilitativi mirati realistici, dall’altra, infine, emerge la natura istituzionale del proprio mandato, i limiti che in esso sono impliciti, e sui quali, nell’atmosfera di eccitata confusione iniziale, si era sorvolato.
E' a questo punto che l'atmosfera incantata e falsamente paritaria dell'équipe di lavoro si rompe (nonostante le resistenze dei nostalgici) ed, in termini adialettici, le singole professioni cominciano a darsi affannosamente dei confini che le definiscano distintamente, in termini, potremmo dire, compensativi, rispetto al disorientamento derivante dalla rottura di quella membrana gruppale che fino ad allora aveva compreso tutti, come in un nido caldo e un po’ (tanto) claustrale.
Ne derivò la spinta a definire un profilo tecnicistico che si sarebbe voluto adulto, ma che invece era, lo sappiamo oggi, un modo bulimico di giungere all'età adulta, consistente nel fare il pieno delle tecniche per sentirsi grandi, salvo poi nausearsi e rischiare di rigurgitare tutto, per poi ripartire con un nuovo pieno di tecniche non appena qualcuno scopriva una nuova scuola, un nuovo supervisore, etc.
Riemerge in questo periodo nelle équipe di lavoro un sapere diagnostico (test, griglie, misurazioni), volto però non più a segregare (come avveniva nei CMPP, funzionali alle istituzioni totali pre-68), ma a distanziarsi dai pazienti e dai problemi, nei confronti dei quali, finita la spinta sperimentalistica, si comincia a provare sentimenti "controtransferali" vagamente angoscianti, che l'ottimismo della prima fase aveva represso.
Rimane però che la rottura dell'incanto e l'emergere del fatto (che oggi può apparire scontato, ma che allora non lo era affatto!) che anche la propria équipe faceva parte di una istituzione con le sue regole e le sue stratificazioni provocò una salutare ventata di realismo che sfocerà ben presto nella nascita e nel consolidamento delle strutture intermedie (che, nel nostro caso furono i Centri Appoggio per disabili adolescenti gravi, le strutture formative semi-speciali per medio-gravi, e più in generale tutti quei luoghi intermedi fra ricovero ed inserimento che a partire da quegli anni si svilupparono sul nostro territorio).
 
7.LA FASE DELL' "ALLEANZA PER …."- Una delle conseguenze dell'atteggiamento bulimico precedente fu una mancata attenzione ai problemi della complementarietà: fra servizi diversi, fra professioni diverse, ed anche all’interno delle singole professioni. Non c’era più, nella fase del tecnicismo la confusione dello sperimentalismo, ma neanche l’armonia, la complementarietà, appunto, che solo da un ulteriore ri\dimensionamento poteva nascere.
Quando gli operatori psichiatrici dell’età evolutiva cominciano a scoprire i propri limiti e a ri\dimensionarsi secondo le esigenze dell'utenza e dell'istituzione comincia un penoso, ma utilissimo momento di depressione e di autoriparazione che è la premessa della nostra attuale complementarietà fra servizi, settori e professioni, nonché della nostra attuale e conseguente capacità di definirci in termini realmente specialistici nelle istituzioni sanitarie e di fronte all’esterno (prescuola, scuola, medici di base, sociale, etc.)
In questo rinnovato clima il sapere riabilitativo ed il sapere psicoterapeutico, che non dimentichiamolo, sono dei saperi dialogici e non diagnostici, trovano modo di espandersi, di diventare più autoconsapevoli e riflessivi, di raggiungere, come avviene per la psicoterapia, nuove classi sociali che prima non potevano accedere a questo tipo di cura. Sapere riabilitativo e sapere psicoterapeutico che vanno ancora definiti con attenzione, poiché la loro ri\collocazione nel pubblico, che è opera essenzialmente nostra, della nostra generazione di operatori, della nostra cultura istituzionale (specie in età evolutiva), necessitano ancora di un atteggiamento riflessivo per comprenderne fino in fondo novità, limiti, possibilità di espansione e di adattamento al pubblico.
 
8-LA FASE DELL'AZIENDALIZZAZIONE- La spinta all'aziendalizzazione infine, al di là della maniera "da prima repubblica" con cui si è realizzata, rappresenta una soluzione (non la soluzione, si badi bene!) al problema della crisi del welfare italiano.
Senza entrare nel merito di questo evento complesso, va detto che l'aziendalizzazione comporta una ri\collocazione di tutti gli operatori della sanità e dell’infanzia, in particolare.
Ci si chiede da qualche anno: dove? come collocarsi? o meglio, dove e come si verrà collocati, se le ristrutturazioni in atto non potranno, come si teme, essere governate razionalmente col concorso dei rappresentanti degli utenti e delle singole professioni?
Ciò che si intuisce è un duplice rischio:  -rischio, nel breve periodo, di un eccesso di frantumazione, di parcellizzazione in settori sempre più non dialoganti fra di loro e sempre più egemonizzati da una cultura aziendalistica che mira al profitto, cioè a fini eteronomi rispetto alla cura ;  -rischio, nel medio periodo, di perdere ogni memoria del proprio passato e di soccombere, sul piano culturale, rispetto ai nuovi soggetti (privati, profit o no profit) che irrompono sulla scena del welfare leggero dei giorni nostri.
 
Nel dubbio meglio scrivere appunti, perché domani ci sia memoria delle opere che andiamo ancora facendo.
 

RE, Marzo, 1996

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