LO SPIRITO E L'OSSO
Scritti a futura memoria
di Fabio Milazzo

L’uomo alla fine della storia.

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2 dicembre, 2016 - 18:47
di Fabio Milazzo

Review of: Antonio Lucci, Umano Post Umano. Immagini dalla fine della storia, InSchibboleth, Roma 2016, pagg. 198.
 

 

La vita consiste in rari momenti singoli di altissimo significato
e in innumerevoli intervalli
in cui nel miglior caso ci si aggirano intorno le ombre di quei momenti.
Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano
 
 

L’umanità postuma
 
Cosa significa per l’uomo abitare l’epoca della post-umanità? Da questo interrogativo muove il saggio di Antonio Lucci, ricercatore presso l’Università di Berlino e redattore, tra l’altro, della rivista di filosofia “LoSguardo”. Il suo risulta essere un percorso originale e interdisciplinare tra filosofia, cultural studies, letteratura e studi critici, che non teme di interrogare la categoria di “postumano” attraverso l’ibridazione di generi e discorsi diversi. Alla fine ne vien fuori una ricostruzione caleidoscopica che ben si presta a rendere conto delle diverse declinazioni che il significante ha assunto nell’immaginario collettivo. Di questa commistione di discorsi Lucci fa il suo punto di forza, mostrando abilità e competenza nel reggere i fili di ordini narrativi eterogenei. Proprio la strategia di ibridazione, adottata per affrontare la tematica, non riduce l’opera ad un’analisi concettuale del “postumano”, neanche nella variante genealogica che pur si presterebbe ad evidenziare l’emergenza e gli usi (oltre agli abusi) di una categoria sfuggente, a tratti ambigua. Lo studio è infatti una rigorosa analisi teorica, ma anche una passeggiata per boschi narrativi che ben si prestano alla commistione tra letteratura e filosofia. Il fine è quello di portare alla luce le peculiarità del postumano evitando le secche delle narrazioni apocalittiche e la palude dei tanti post-discorsi. Il termine postumano, infatti, «da quando Jean-Francois Lyotard, nel 1979, ha suonato la campana a morto della modernità, con il suo manifesto La condizione postmoderna» [p.11], si è diffuso esponenzialmente, facendo del prefisso «post» una delle chiavi più utilizzate dalle ermeneutiche contemporanee. Si chiede Lucci nel suo studio:

 
«Si è parlato di poststoria, di postcolonialismo, di poststrutturalismo, e anche, ovviamente, di postumano. […] Sorge allora una questione epistemologica cardinale: come parlare da dopo l’umano, permanendo umani? E ancora, quali categorie distinguono l’umano e il postumano, come rinvenirle, come elencarle? E non sono forse la categoria e l’elenco a loro volta umani, troppo umani per essere postumani?» [p. 13]
 
 
La risposta che offre è per molti versi nietzschiana e consiste nel farsi carico fino in fondo della questione senza rifuggirne le aporie, le contraddizioni e, soprattutto, le questioni epistemologiche. Proprio in riferimento a questo ultimo aspetto si deve situare a nostro avviso la scelta, felice, fatta dall’Autore, di proporre una galleria di immagini che attraverso la giustapposizione e la sovrapposizione di temi diversi, superano proprio l’effetto sistematico delle grandi narrazioni tipiche della modernità. Infatti, se il suffisso “post” indica il superamento di una certa soglia, di un limite, che è quello del categorizzare, ogni tentativo di sviluppare una teoria ricade entro quei confini che per principio si ritiene aver oltrepassato. In altre parole ogni post-discorso è pur sempre un discorso che, nel suo svilupparsi, evidenzia una dimensione inoltrepassabile, vale a dire quel sostrato metafisico che nei termini di «condizione di possibilità […] è destinato a ritornare» [p.13] nella forma oscena, e patologica, di ogni rimosso. L’Autore lo chiarisce senza giri di parole quando afferma: «nella poststoria è sempre la storia a fare capolino, così come nel poststrutturalismo lo strutturalismo, e così via. Anche l’umano nel postumano non fa eccezione» [p.13]. Ma come affrontare l’impasse senza scadere nelle soluzioni banali e pre-confezionate offerte da qualche ismo? La lingua tedesca può essere d’aiuto, dato che non prevede «il prefisso latino “post”»[p.13], se non come eccezione. Ciò consente all’Autore una sponda per immettere nel discorso il celebre termine «Aufhebung», che significa «comprensione e superamento» [p.14], ancor meglio, hegelianamente: «conservare, ritenere, e nello stesso tempo far cessare, mettere fine»[1]. Hegel, dunque, può essere d’aiuto per incominciare a pensare questo tempo che è «post» rispetto a un qualche ambito che, però, immancabilmente finisce per contenerlo. In questa dialettica paradossale, accanto a Hegel, un altro pensatore viene convocato da Lucci per mettere sotto la lente d’ingrandimento questo tempo successivo al tempo. E’ Peter Sloterdijk che, attraverso il concetto di «Posthumien», postumiano,  prova a rendere conto della zona di ambiguità discorsiva che si viene a creare facendo interagire i termini postumano e postumo. Quale il fine e quale l’utilità che ne deriva? Come afferma Lucci, da una parte c’è «il rimando all’essere postumi», dall’altra  «il deradicamento del post dalla parola “umano”, che viene deformata tramite l’aggiunta di quella “i” disturbante» [p. 16]. Se il pensatore di Karlsruhe non trae fino in fondo le implicazioni rese possibili dal nuovo conio, certamente la sua resta una sollecitazione importante che va nella direzione di un’ibridazione tra piani discorsivi e stimoli semantici in grado di proiettare «automaticamente in una dimensione altra rispetto a quella che abbiamo fin’ora vissuto» [p.17].  Ma qual è questa dimensione che deve essere oltrepassata e ripensata? E’ quella dell’essere umano, quell’animale «che ancora vive e subisce l’influsso categoriale e percettivo delle macro-rivoluzioni […] avute con la Rivoluzione Neolitica,  vale a dire col passaggio preistorico dell’umanità da una fase in cui i gruppi erano piccoli e nomadi» [p. 18] e basavano la propria organizzazione e sopravvivenza sulla caccia e la raccolta, ad una fase basata sulla stabilizzazione e su un diverso rapporto con l’ambiente incentrato sull’allevamento e l’agricoltura. Da qui una cesura netta tra un prima e un dopo, caratterizzato – quest’ultimo – in particolare dall’invenzione della scrittura e dalla rimodulazione cognitiva che ne è derivata. La stessa intelligenza greca, basata sull’esercizio del logos, senza questa cesura probabilmente non si sarebbe mai sviluppata. In questo senso, come rimarca l’autore commentando le teorie che dividono in fasi la storia dell’umanità, «l’essere umano non è mai uscito dalla sua fase neolitica» [p.19]. Eppure sembra che adesso qualcosa stia avvenendo e che una cesura ben più marcata rispetto a quelle tematizzate in passato si stia palesando. Non è soltanto l’uso – e l’abuso – del prefisso «post» ad indicarla, quanto un più generale mutamento di vita e abitudini che sembrano interessare la collettività nel suo insieme. Il fenomeno, che ha tra le sue declinazioni semantiche quello di «globalizzazione», non soltanto comporta una rinnovata, e per molti versi inedita, condizione nomadica – si vive sempre più spesso lontano dai luoghi in cui si è cresciuti –, ma una più generale riorganizzazione delle forme e dei modi di vita, in particolare per ciò che riguarda l’organizzazione e l’integrazione con il gruppo parentale. A ciò si deve aggiungere la rottura costituita dalla tecnologia informatica, che ha modificato non soltanto la prassi di scrittura – da quella manuale a quella mediata dalla tastiera  – ma più profondamente le forme stesse della comunicazione e il modo di relazionarsi tra i soggetti. Posto ciò ha ragione l’Autore quando sostiene che a fronte di una rottura decisa «con il mondo neolitico dei nostri progenitori» [p.24], segnato da una rapida trasformazione delle abitudini e delle determinanti culturali, non si registra alcun mutamento significativo nelle forme di comportamento «che ancora si strutturano secondo modelli neolitici» [p.24]. Ciò comporta una inevitabile e generalizzata condizione depressiva, che è la cifra costitutiva della fatica di essere se stessi[2], per usare la significativa espressione di  Alain Ehrenberg. Fatica propria di un’epoca che non riesce a «trovare la propria posizione in un mondo» [p.24] per tanti versi già postumiano, per altri ancora saldamente ancorato al neolitico. Un cortocircuito tra modelli socio-culturali diversi sarebbero così all’origine «delle depressioni e delle malattie dell’anima dell’uomo contemporaneo» [p.25]. Per molti versi è una situazione simile a quanto accaduto con il primo grande trauma del Novecento, quella Grande Guerra che, per la prima volta su scala industriale, ha prodotto non soltanto morti e feriti ma anche inedite forme di nevrosi belliche, quali lo Shell shock che, ancor prima di rappresentare una patologia ben precisa, indica una configurazione effetto del logoramento psichico della guerra industriale.
 

Farsi carico della condizione postumana
 
Tra le più importanti conseguenze del superamento del neolitico, Lucci indica «la presa in carico da parte dell’uomo […] del destino della sua e delle altre specie, la scrittura delle regole di convivenza e il riconoscimento della comunità inclusiva» [p.25] costituita da uomini, animali, piante, «i rituali, gli oggetti, le immagini, le reti, gli ambienti, i morti e i non ancora nati» [p.25], insomma quella multiforme e variegata platea di enti che costituiscono la realtà. «Solo prendendo fino in fondo in carico la nostra condizione di uomini inseriti in un contesto fatto di attori non-umani – sostiene Lucci – posti tra […] il Neolitico e il Postumiano, avremo una chance per non restare schiacciati nel mezzo» [p.25]. Ma cosa significa farsi fino in fondo carico di questa condizione? Innanzitutto essere «coscientemente […] postumiani» [p.26], cioè accettare «in maniera consapevole le forme di vita che la coabitazione con i nostri media – e con gli attori non-umani […] ci propone, e in un certo qual senso, impone» [p.26]. Questa ibridazione necessaria, senza cui si verificherà l’emergere di quello che Lucci definisce un “apartheid ontologico”, viene sviluppata nel testo all’insegna di una feconda commistione epistemica che consente di poter parlare di “postumano” senza scivolare nelle aporie degli ordini discorsivi disciplinari. Questo non significa negare le potenzialità della teoria – che abbiamo visto esplicitarsi intorno alla definizione di postumiano – ma farla interagire con un punto di vista più personale, che compendia una serie di ritratti di autori - Ph. K. Dick, A. Kojève, H. Ph. Lovecraft, M. Houellebecq – che hanno preso la parola incarnando quel registro discorsivo postumiano che significa, soprattutto, delineare una nuova era dell’umano. L’uso e la commistione di generi discorsivi diversi, quali quelli utilizzati dagli scrittori indicati, consentono all’Autore di delineare la propria proposta teorico-esperienziale che considera innanzitutto insufficiente ogni riduzionismo che, in questo caso, equivale a considerare l’uomo come un ente biologicamente e definitivamente autosufficiente. Ma cosa significa ciò? Che «le categorie percettive e psichiche […] attraverso cui leggiamo la realtà […] sono frutto di processi biologici-adattivi spiegabili in termini evoluzionistici [p.30]. Da ciò ne consegue che le forme e le modalità dell’esperienza umana «non si possono stabilire come assunti una volta per tutte» [p.30], poiché sono mutevoli. In un passo molto significativo Lucci sostiene che «i colori visti, i suoni uditi e persino le emozioni provate in epoche dell’umanità precedenti alla nostra potevano sottostare a categorie percettive che sono irrimediabilmente andate perdute, o inesorabilmente cambiate» [p.31]. Questa radicale storicità delle strutture a priori della coscienza ha - braudelianamente – «i tempi della longue durée» [p.32] e reca con sé il connotato emotivo della malinconia per ciò che è irrimediabilmente andato perduto.
L’attestazione di orizzonte sensoriali potenzialmente scomparsi, poiché radicalmente storici, implica una ulteriore definizione dell’umano come risultante di un’interazione sempre in atto tra il dato biologico, quello individuale e quello mediato tecnicamente. Ciò vuol dire che la tecnica non è estranea all’uomo, ma ne definisce il portato ontologico epocale. Dunque, l’essere umano si evolve «in virtù di un’evoluzione tecnologica, che affianca e modifica quella biologica, rendendolo un essere del tutto unico nel regno naturale» [p.36]. La tecnica non è però soltanto un a-priori, ma anche un fattore retroattivo di costituzione della percezione che l’uomo ha di se stesso e della realtà che lo circonda: «la tecnica è il tempo» [p.38], si può dire con Stiegler. Ne consegue che ogni autopercezione identitaria altro non è che una configurazione senso-tecnica, un gioco dialettico «in una struttura infinitamente rimandante a se stessa» [p.39]. Le stesse tecniche di solitudine - «il rapporto con se stesso dell’uomo solitario» [p.50] - , così celebrate oggi, rappresentano soltanto «il primo livello di una relazione che si instaura con una molteplicità di soggetti, ciascuno diviso tra il Sé della vita quotidiana e il Sé della vita nella comunità» [p.54]. Ciò che viene continuamente costruito e ridefinito è il volto dell’altro e, quindi, l’autopercezione del Sé nell’elemento umano comunitario.
Posto ciò, come essere postumiani evitando di negare nei fatti l’impossibilità di uscire dalla radicale storicità degli a-priori che ci costituiscono? Secondo Lucci lasciando la parola ad alcuni autori – quelli già citati – che, in virtù della loro inattualità, sono riusciti a evocare quello scarto che scivola via da ogni epoca – quindi anche dalla nostra – , nei termini del lacaniano osso indigeribile. Far parlare questa tracce, evocarle, significa portare alla luce l’estraneità radicale, ciò che ordinariamente non può essere catturato perché condizione ed effetto delle strutture trascendentali che ci costituiscono. Nel testo vediamo così delinearsi la cosmologia fantastica dello scrittore americano H. Ph. Lovecraft, la «fine della storia» contenuta nella rilettura hegeliana di Alexandre Kojève e l’autobiografica scrittura fantascientifica di Ph. K. Dick, fatta di allucinazioni e visioni. Ad essi Lucci aggiunge l’esperienza letteraria di Houellebecq, irta di contraddizioni stranianti e di atmosfere soffocanti che evocano continuamente l’inoltrepassabile. Tutto ciò convoca un’inedita soggettività pronta a prendere commiato dal mondo, così come lo si è conosciuto e, forse, proprio in questa pulsione di morte che è, al contempo, individuale e collettiva che si prefigura «quella parte di umanità che ha avuto il coraggio di guardare al futuro, sapendo che in esso non potrà riconoscersi» [p.157]. Questo «”potere di non”» [p.178]è una delle possibili posture etiche nell’epoca della propria riproducibilità tecnica, una prassi della sottrazione che fa fino in fondo i conti con un’era irraggiungibile e per questo radicalmente inedita. E proprio in ciò si coglie la proposta teorico-esperienziale di Lucci, quella che invita l’umano post-umano a prendere dimora in questa estraneità che lo divora costituendolo. Una sfida inaggirabile che, in fondo, contiene in sé qualcosa di inumano.



[1] Cfr. G.F.W. Hegel, Scienza della logica, trad.it. di l.Lungarini, Laterza, Roma-Bari 2004, p.100.
[2] Cfr. A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, trad.it. di S. Arecco, Einaudi, Torino 2010.

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