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L’integrazione dei giovani migranti nella città e nei luoghi dell’incontro

17 Dic 16

A cura di dinange

[Intervento all’VIII Convegno nazionale dei Centri Interculturali,
Reggio Emilia, 20 \ 21 Ott. 2005,
già apparso su AA.VV. Una generazione in movimento.
Gli adolescenti e i giovani immigrati,
Franco Angeli, 2007, pp. 145 \ 153]

 
 
 

'Tendete la mano ai giovani stranieri che vivono in mezzo a voi.
Sono venuti per ricevere, ma anche per dare''.
Carlo Azelio Ciampi
 
 
Luoghi
 
Quando pensiamo ad un luogo da noi direttamente conosciuto di solito non ci limitiamo ad immaginare le sue coordinate geografiche, ma tendiamo a riempirlo di una pluralità di significati che sono il precipitato di tutto ciò che consciamente o inconsciamente ci riconduce ad esso.
Chiamiamo memoria di quel luogo quel precipitato, frutto dell’esperienza, che rimane dentro di noi e si modifica, più o meno ampiamente a seconda di tutta una serie di coniugazioni fra passato e presente, mano a mano che la nostra esperienza si estende col passare del tempo (Halbwacks).
Lo stesso accade allorché pensiamo ad un luogo che magari non abbiamo mi visto direttamente, ma di cui abbiamo sentito parlare: ciò che ci riconduce ad esso è la memoria, sedimentata in noi in base alla esperienza indiretta, che è sottoposta agli stessi criteri di sedimentazione e di modifica che presiedono allorché riandiamo ai luoghi da noi direttamente conosciuti.
Cosicché, allorché io penserò, ad esempio, al mio paese natale lo farò a partire dalla coniugazione fra l’occasione che ha suscitato il ricordo e tutto ciò che dentro di me si è andato agglutinando nel tempo intorno al luogo delle mie origini.
E, allo stesso modo, se io faccio il paragone fra ciò che pensavo delle Torri Gemelle prima dell’attentato dell’11 Settembre e ciò che associo ad esse dopo quell’evento luttuoso non potrò non notare che i motivi che sono evocati in me da quel luogo oggi (che non per nulla ha cambiato nome: Ground Zero) sono molto diversi da quel che associavo ad esso prima dell’11 Settembre.
E, a pensar bene, anche i famosi “non luoghi” (Augé) di cui si vanno riempiendo le periferie del mondo assumono un significato diverso a seconda che noi li attraversiamo veloci e distratti nelle nostre auto o che, per un qualche accidente, vi capitiamo dentro e vi restiamo intrappolati, in balia dell’aura di anomia e di violenza che da essi promana.
Se poi passiamo dalle associazioni e dalle memorie dei singoli a quelle dei gruppi sociali ciò che accade è lo stesso: cosa sarebbe per noi italiani il Piave se l’Italia avesse aderito al patto di Londra, come voleva Giolitti, e non fosse intervenuta nella I Guerra mondiale? – Un fiume come un altro. Che cosa sarebbe Auschwitz se non ci fosse stato il nazismo? – Una anonima cittadina polacca. Cosa Pearl Harbor se il Giappone non avesse attaccato gli USA in quel fatidico dicembre del ’41? – Al massimo un luogo di vacanze.
Cos’è quindi che fa si che i luoghi acquisiscano quei significati sia all’interno della psicologia dei singoli individui, sia per i gruppi sociali? Molteplici sono gli apparati interpretativi che nell’ambito delle scienze umane ci aiutano a comprendere: a. ciò che fa si che un mero spazio geografico diventi per noi un luogo carico di memoria e pregno di significati simbolici; b. come tali simboli si modificano nel tempo.
 
Io ve ne voglio proporre tre o quattro che – pur partendo da background teorici diversi – presentano una serie di analogie e di convergenze sia a livello statico che dinamico, cioè sia come chiavi interpretative della sincronicità che della diacronia: 1. il concetto sociologico di memoria collettiva di Halbwacks; 2. quelli etnoanalitici di carattere etnico e inconscio etnico di J. Devereux; 3. quello di rappresentazione sociale di derivazione psicosociale; 4. ed infine quello di rappresentazione culturale di Nathan e della Moro.
Le analogie e le confluenze presenti in questi quattro approcci sul piano della interpretazione dei significati che i luoghi assumono sia per i singoli che per i gruppi sociali sono innanzitutto nell’invito che da ognuno di essi proviene a non assolutizzare mai  ciò che un luogo (così come del resto ogni altro aspetto della socialità) rappresenti, a storicizzarlo, a cogliere gli elementi di obsolescenza simbolica che sono presenti anche nella più granitica rappresentazione, e allo stesso modo a guardare con attenzione partecipe ad ogni indizio che possa preludere ad un nuovo modo di concepire un luogo.
Ma ciò che almeno a me pare come l’elemento di maggiore confluenza e sovrapponibilità è nel fatto che in tutti e quattro gli approcci il processo di cambiamento dei significati, così come – si badi bene – i processi di resistenza  a tale cambiamento che ogni corpo sociale pone in atto, anche nelle situazioni in cui il cambiamento è più impellente, sono interpretati in  base a criteri di tipo funzionale e – potremmo dire – sistemico che permettono di comprendere la fondatezza e le ragioni sia di chi patrocina il cambiamento, sia di chi vi si oppone.
Cosicché se una città, un quartiere, una qualsiasi porzione del territorio che fino a ieri aveva un proprio profilo, una propria identità, e che oggi, in base la processo migratorio, tende a modificare tale profilo, attraverso le chiavi interpretative che da questi approcci deriva sarà possibile non solo comprendere le ragioni che sono alla base del cambiamento  e la sua direzione, ma anche i perché e i percome una parte dei cittadini si acconcia ad esso o, addirittura, lo patrocina, mentre un’altra parte vi si oppone e un’altra ancora rimane disorientata.
E nel caso dei problemi della seconda generazione, quella dei bambini dei ragazzi e dei giovani figli dei migranti e degli esuli, sarà possibile comprendere: a. cosa accade dentro di essi allorché si ritrovano da una parte a frequentare i luoghi metropolitani dello studio, del lavoro e del loisir, dall’altra a continuare a sentirsi figli dei loro padri e delle loro madri senza eccessive confusioni e contraddizioni (le contraddizioni fra filiazione e affiliazione, di cui parlano Natan e la Moro); b. cosa succede nei loro pari autoctoni allorché si ritrovano con essi a condividere quei luoghi e a ridefinirli; c. cosa succede infine sul piano intergenerazionale sia fra i migranti sia fra gli autoctoni; come le attese della generazione che declina si sposano – se si sposano – con quelle della generazione che avanza; quali livelli di tolleranza c’è nell’una nei confronti delle aspirazioni, dei progetti, degli stili di vita dell’altra.
E’ per questa via – io penso – che sarà possibile programmare processi di tipo preventivo e azioni sociali volte a governare il cambiamento indotto dai processi migratori, renderlo più soft per tutti gli attori sociali, ridare significato ai luoghi e alle cose in base alle esigenze del presente, alle immanenze, conscie o inconscie, del passato, ai progetti futuri.
 
 
 
Cittadinanza
 
Limitandoci alla storia della borghesia europea il termine cittadino allude all’inizio – e cioè alla fine del Medioevo –  alla condizione di coloro che, a partire dalla rinascita dei borghi e delle città, vengono a trovarsi in una condizione nuova e più libera rispetto agli abitatori della campagna.
I cittadini cioè sono all’inizio coloro che in un luogo specifico – la città – si vengono a trovare in un condizione di emancipazione dal servaggio e di inserimento in una rete di scambi materiali e culturali che fa da substrato alla nascita e allo sviluppo di una nuova classe sociale, la borghesia, e di nuovi strati, di nuove classi, che intorno ad essa ed in rapporto ad essa crescono e si trasformano in itinere in base alle sempre più emergenti esigenze urbane.
Queste nuove comunità che via via si emancipano dai mille vincoli che inibivano, se non impedivano la crescita nella vecchia comunità medioevale, pure hanno bisogno di definire dei confini che le distinguano dal resto. Confini che delimitano dei nuovi luoghi, le città, ma anche un universo in fieri fatto di nuovi mestieri, di competenze nuove, e basato – cosa per noi importantissima – sul restringimento dell’area di coloro che per legge hanno diritto a frequentare quei luoghi, ad accedere a quei mestieri, ad assumere quelle competenze. Per cui si può dire che la città protoborghese non è solo cinta da mura merlate che veglino sulla nuova ricchezza fra di esse accumulata, ma anche difesa da ferrei regolamenti corporativi che delimitino rigorosamente l’ambito della cittadinanza.
 
Con la rivoluzione francese, che apre la strada alla vittoria della borghesia in Europa, il concetto di cittadinanza è come sottoposto ad una improvvisa accelerazione: esso non allude più alla condizione degli abitanti privilegiati dei borghi, ma a tutta la comunità nazionale.
Anzi potremmo dire che il collegamento fra cittadinanza e nazione racchiude in sé molte delle ragioni che furono alla base della rivoluzione: – l’esigenza di definire un’area ampia per il libero scambio, coincidente con i confini nazionali, appunto; – la conseguente delimitazione di un universo interno in cui valesse la stessa legge per tutti; – la determinazione di un insieme di simboli collegati la concetto di nazione, in cui tutti si riconoscessero e in nome dei quali fossero disposti anche a morire.
Si arriva così all’ “Aux armes citoyenne” , a Valmy, alla coscrizione nazionale, alla nuova concezione della guerra come salvaguardia degli interessi nazionali, che ben presto diventano interessi in base ai quali verranno giustificate la guerra di conquista, l’imperialismo, il colonialismo.
Si arriva così celerissimamente alle varie forme di democrazia rappresentativa, ma anche – sulla base della santificazione degli interessi nazionali –  alla nascita delle varie forme del totalitarismo e della prepotenza delle nazioni ricche nei confronti di tutti gli altri (non dico delle nazioni povere perché l’estensione del nostro concetto di nazione agli altri popoli è di per sé già una operazione acculturante).
Si tratta cioè ancor una volta da una parte di un ampliamento del concetto di cittadinanza, dall’altra di una sua ulteriore circoscrizione escludente sia le altre soggettività presenti al di là dei confini nazionali, sia l’universo di coloro che sul piano interno non emergono come soggetti forti: i reclusi, i matti, i disabili, le donne, i bambini. Insomma di tutti coloro che erano lontani dal lavoro –
 
Questo concetto di cittadinanza va in crisi qui in Europa nel secondo dopoguerra allorché di fronte al nazifascismo, che aveva fatto strame degli spazi di cittadinanza e di libertà, si sentì il bisogno di estendere ancora l’area della cittadinanza a tutti i cittadini europei, o meglio a coloro che sottoscrissero i patti dell’Europa comunitaria.
Tale opzione però fin dall’inizio fu contraddistinta da una riduzione di tipo economicistico delle ragioni di questa più vasta appartenenza che si sommò ben presto ad una più netta riduzione esercitata nei confronti di chi, dall’esterno dell’Europa comunitaria, premeva per entrarvi e farvi parte.
 
La cittadinanza europea in questo modo è diventata contemporaneamente l’ultimo confine e l’ultima barriera connessa col concetto di cittadinanza e l’avvento in Europa, da una parte, della società dei consumi, dall’altra della globalizzazione non possono che acuire l’esigenza di chi è fuori di quest’area di pervenirvi: da ciò da una parte le richieste dei governi di estendere l’area dell’Europa comunitaria, dall’altra quella dei singoli di accedervi aggirando le regole poste dai governi e facendo esplodere i flussi migratori.
 
In entrambi i casi si tratta di una richiesta di estensione dell’area della cittadinanza europea, di abbattimento delle barriere o di una loro estensione che vada ben al di là dei fragili confini esistenti ad Est e  Sud. In entrambi i casi il risultato è l’innesco di poderosi processi acculturativi e, conseguentemente, la messa in crisi di un sistema, di una identità collettiva alla quale si può rispondere in vari modi.
O arroccandosi sul piano delle vecchia cittadinanza e perfino sulla linea Maginot delle piccole patrie e degli obsoleti dialetti locali; oppure aprendosi al nuovo ed estendendo non solo l’area della cittadinanza, ma – cosa più importante e prioritaria – andando al di là di ogni barriera e predisponendosi a diventare cittadini del mondo. O attraverso processi acculturativi violenti in cui la cultura egemone tende a comprimere e a cancellare tutto ciò che viene dalle culture vinte (Dupront) oppure attraverso processi acculturativi soft in cui ciascuno – come dice il nostro Presidente – dà e riceve; riceve e dà.
 
Nel frattempo, da una parte lo sviluppo del welfare ha permesso la tutela di quei cittadini di serie B che fino a qualche decennio fa non godevano pienamente dei diritti di cittadinanza (anziani, donne, bambini, etc.), dall’altra le sempre più complesse esigenze produttive hanno comportato all’estensione del tempo per lo studio e per la formazione, che a sua volta ha condotto al procrastinamento del passaggio all’età adulta e all’esplosione dell’adolescenza.
Tutto ciò sul piano della cittadinanza implica la nascita di un terreno nuovo di diritti e di attese che viene ulteriormente sconvolto dall’emergere della seconda generazione e che si complica ulteriormente se prendiamo in considerazione i problemi e le contraddizioni che, sempre sul piano dei diritti e delle attese, nascono allorché cominciamo a coniugare cittadinanza, conflitti intergenerazioniali e genere / cittadinanza, migranti, conflitti intergenerazioniali e genere (Spivak).
Per comprendere la natura dei problemi presenti sul tappeto basti considerare, da una parte, a ciò che sta accadendo nella scuola, nel mercato del lavoro giovanile e nei luoghi del loisir di queste nuove generazioni; dall’altra al tortuoso cammino che le ragazze e le giovani immigrate devono fare per emanciparsi sia dai richiami e dai pesanti ricatti del passato patriarcale sia dalle lusinghe e dalle trappole più sottili della società metropolitana: per disidentificarsi e re-identificarsi sul piano dell’autenticità.
 
 
 
 
Possibilità di scambi e di integrazioni nei luoghi della città, oggi
 
Appurato quindi che ciò che intendiamo per luogo è in effetti la rappresentazione sociale e culturale di quel luogo oggi e che l’area della cittadinanza, nonostante la sua tendenza ad espandersi, non comprende ancora pienamente i migranti e tantomeno i giovani migranti, cerchiamo ora di capire come possa essere possibile incidere oggi a livello delle rappresentazioni sociali della città e della definizione attuale della cittadinanza in modo che e le une e l’altra rendano possibile ed incrementino le possibilità di integrazione, di incontri interculturali e di scambi nelle nostre città.
Il punto di partenza non può che essere la constatazione che si tratta indubbiamente di una scommessa e che questa scommessa può essere persa. Qualcuno ha detto che non sempre io e tu e uguale a noi (B. Brecht). Perché nell’incontro i tanti io e i tanti tu possano confluire in un noi che non mortifichi il profilo di alcune delle soggettività che convivono oggi nelle nostre città occorre che si inneschi un processo di rispecchiamento e di contaminazione capace non solo di rendere obsolete le vecchie rappresentazioni sociali della cittadinanza e dell’”altro da me”, ma anche di determinare una direzione di marcia al cambiamento che, come ha detto di recente il Presidente Ciampi rivolto proprio ai giovani,  vada nel senso dello scambio interculturale.
Tale direzione, che gli etnologi chiamano meticciato sociale, infatti non è  garantita dal mero processo di vicinanza e di mescolanza dei soggetti coinvolti nel processo migratorio, ma richiede il dispiegarsi di un insieme di politiche sociali attive da parte di tutti gli attori presenti sulla scena cittadina, siano essi autoctoni che immigrati, siano essi sovraccaricati del peso delle responsabilità istituzionali che gente comune.
La posta in gioco, come ancora ci ricorda Ciampi, non è la definizione di una linea di frattura con la storia dei singoli e dei gruppi sociali, come vogliono farci credere i passatisti presenti in tutti i campi, ma la confluenza di tutte le storie in una nuova storia che sia il frutto di tutti gli scambi materiali  e culturali e di tutte le contaminazioni che lungo il cammino saremo riusciti a porre in essere.
Franz Fanon criticava il concetto di negritude al fondo del quale egli intravedeva il mito di un impossibile ritorno alle origini pre-coloniali da parte dei popoli coinvolti nel processo di decolonizzazione. Egli intuiva che la nuova cultura di quei popoli sarebbe stata quella che fosse scaturita dal processo di trasformazione in atto, dalla stessa lotta di liberazione nazionale, in una parola dalla commistione fra vecchio e nuovo.
Allo stesso modo oggi per noi europei non è possibile tornare a immaginare la nostra cultura così com’era prima dell’avvento dei processi migratori collegati alla globalizzazione. Così come per ognuna delle soggettività culturali coinvolte nel processo migratorio non è possibile compiere quest’atto senza esporsi alle influenze sociali e culturali che l’Europa ed ogni nostra piccola contrada rovescia loro addosso fina dal momento in cui cominciano a venire fra di noi, fino dal momento in cui cominciano a pensare di venire fra di noi. Che cosa potrà accedere quindi sul piano della ridefinizione delle identità e dei luoghi?
 
Una quindicina di anni fa mi è capitato di passare da Bamberg, una bellissima città tedesca famosa per la sua architettura barocca. Mentre camminavo per le strade di Bamberg a un certo punto – era l’ora di pranzo – notiamo una rosticceria. Si trattava di una rosticceria turca in cui abbiamo potuto gustare per la prima volta nella nostra vita – un panino al kebab.
Un venditore turco di kebab aveva trasferito con sé a Bamberg un’arte antica di cucina mediterranea. Poniamoci ora alcune domande legate e quindici anni fa e qualcuna all’oggi: a. Come vedeva allora  quel venditore di kebab la città che lo stava ospitando? b. come i cittadini di Bamberg vedevano lui e i suoi prodotti? c. come noi – mediterranei, ma ignari dell’esistenza del kebab, e fino  quel momento ignari della bellezza di questa città tedesca, vedevamo sia Bamberg che il venditore turco di kebab? d. e, venendo ad oggi, come vivrà il figlio di quel venditore turco di kebab l’impresa paterna, Bamberg, se stesso e i suoi biondi coetanei tedeschi? Le sue rappresentazioni sociali della città – Bamberg in che rapporto saranno con quelle che oggi avranno i suoi coetanei autoctoni? etc. etc.
Dipende da come quel migrante è stato accolto, da come lui e i suoi si sono disposti di fronte al processo migratorio, da come gli altri elementi della sua cultura visto che il kebab sicuramente lo era stato) avevano potuto coniugarsi con quelli della cultura egemone, da come suo figlio aveva potuto elaborare il conflitto fra filiazione e affiliazione (Moro), da come gli abitanti autoctoni di Bamberg avevano reagito al suo arrivo, etc.- In una parola dalla reale e specifica modalità con cui sono avvenuti lì i processi acculturativi.
 
Sicuramente, di fronte ai mille e mille turchi, italiani, spagnoli, etc. etc. immigrati, quel posto, Bamberg, non è rimasto più quello che era prima del loro arrivo. Se poi ieri a Bamberg ed oggi a Reggio la città, i suoi luoghi, sono diventati o stanno diventando luoghi dell’incontro e dello scambio, e non luoghi della discriminazione e della ghettizzazione dell’altro da me dipende dalla nostra capacità di estendere il concetto di cittadinanza fino a comprenderli e dalla loro disposizione ad affrontare il nuovo con coraggio e senza infingimenti eccessivi.
Le sfide e le scommesse che, in particolare, i giovani devono affrontare lungo questo cammino di trasformazione sono tante. Innanzitutto i luoghi dello studio in questi ultimi decenni (e quindi ancor prima che i migranti arrivassero da noi) sono cambiati: in essi l’atmosfera prevalente non è più quella ossessiva del  rituale pedagogico (Furstenau) volta  instaurare in classe un’atmosfera rarefatta e formale, ma quella isterizzante e ben più carica di passioni, di informalità e di vicinanza fra docenti e discenti di cui i nuovi docenti un po’ si gloriano, un po’ si lamentano oggidì (Angelini, 2003.a). Inutile dire che in questo clima elettrico l’arrivo delle seconde generazioni contribuisce a buttare benzina sul fuoco della teatralità e dell’isterizzazione della scena scolastica.
Nei luoghi del lavoro poi i giovani immigrati a autoctoni per ora sono accomunati da un identico destino di precariato che, però, a fronte di una congiuntura favorevole (almeno a Reggio Emilia), si conclude dopo qualche anno con una assunzione a tempo indeterminato che permette un recupero di progettualità che la condizione precaria impediva. Ma, come ci ricorda Seravalli, se il ciclo dovesse diventare negativo (e le ormai evidenti tendenze alla stagnazione ed alla recessione purtroppo vanno in questa direzione), nei luoghi meno competitivi del mercato globale e negli impieghi più esposti probabilmente si assisterebbe ad una compartimentazione fra i giovani che continuerebbe a vedere da una parte l’uscita, sia pure ‘postuma’, da una condizione di atipicità e di precariato dei più qualificati fra di essi; mentre dall’altra per i meno qualificati, ed in special luogo per gli immigrati, il rischio sarebbe quello di una cronicizzazione della loro condizione di atipicità con conseguente progressiva marginalizzazione e svalutazione della loro forza lavoro. Inutile sottolineare quali conseguenze avrebbe sul piano sociale una compartimentazione di questo genere (Angelini, 2003.b).
 
Interessanti mi paiono poi, sempre sul piano del mercato del lavoro, la considerazioni di Leon e Rebeca Grinberg sulla tendenza della seconde generazioni di accedere ai lavori i cura con motivazioni preconosce o inconsce di tipo riparativo nei confronti degli sforzi e delle sofferenze compiute da parte della prima generazione. Al di là della rilevanza in termini statistici, ora e qui, di questo fenomeno da loro studiato in Argentina, noi sappiamo che una delle scelte più dilaceranti che il giovane immigrato di seconda generazione deve compiere è ancora una volta quella di seguire le esigenze presenti sul piano della filiazione (andare subito a lavorare per aiutare l famiglia ad inserirsi nella realtà metropolitana) oppure di seguire la propria vocazione, che sicuramente è il frutto di una coniugazione interna fra esigenze del passato e influenze del presente.
 
 
 
 I luoghi del loisir ormai da tempo sono luoghi altri, spesso serotini, sicuramente liminari e banditi agli adulti. Sono gli eredi di quei luoghi liminari in cui il giovane delle società semplici tendeva a passare solo il limitato tempo del passaggio, prima di essere riaggregato nella società in quanto neoadulto. In questi luoghi che i giovani sono costretti continuamente a re-inventare perché insidiati dal mondo dei consumi che li invade e li svilisce sul piano dell’autenticità, l’arrivo del giovane immigrato può essere vissuto dal pari autoctono come una promessa di cambiamento e di meticciamento oppure come una minaccia e un’intollerabile intrusione. E, di converso, il giovane migrante può avvicinarsi a questi luoghi del loisir sotto il peso del ricatto della vecchia cultura d’origine dei propri cari e con la sensazione di tradire, oppure facendo ponte fra vecchio e nuovo. E su questo piano l’arte e la musica, così come le modalità del vestire e dell’esibirsi, del parlare e dell’approcciarsi gli uni agli altri mi paiono i terreni di più feconda e creativa contaminazione.
 
L’importante però è essere coscienti che l’estensione del concetto di cittadinanza, nonostante la nostra buone volontà, è un traguardo ancora lontano, che l’incontro è una scommessa, che ciò che diventeranno alla fine le nostre città, la nostra lingua, le nostre abitudini alimentari (etc. etc.) ancora non lo sappiamo.
L’importante inoltre è essere consapevoli che questi traguardi non si raggiungono una volta per tutte, che nella longitudinalità del passaggio intergenerazionale – come ci ha insegnato Marie Rose Moro –  tutto viene rimesso sempre in discussione.
L’importante infine è da questa auspicabile estensione dl concetto di cittadinanza possa scaturire una pratica dell’obiettivo fatta di nuove consuetudini, di nuovi usi e nuovi costumi frutto di rappresentazioni mentali comuni della convivenza e della democrazia, oltre che dei luoghi e della città.
 
 
 
Bibliografia:

 

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