Io chiedo, quando sarà
che l’uomo, potrà imparare
a vivere, senza ammazzare
e il vento, si poserà.
F. Guccini, Auschwitz, 1966
Sono 150 anni che l’ex studente Rodion Raskolnikov ci tiene compagnia con il suo duplice delitto, i suoi dialoghi interiori, gli ambienti poveri e allucinati di una equivoca Pietroburgo. Ma in quest’anno denso di importanti centenari per la letteratura mondiale, dal V della prima edizione dell’Orlando furioso[i] al IV della morte di Cervantes e di Shakespeare, mi pare che sia passata quasi inosservata quest’altra duplice ricorrenza letteraria: un secolo e mezzo dalla pubblicazione appunto da parte di Fëdor Dostoëvskij del primo dei suoi romanzi maggiori, che apre il cosiddetto pentateuco dostoëvskijano, Delitto e castigo; e altrettanto tempo da quella – costretta dalla pressione dell’editore – di un racconto più breve, Il giocatore, anch’esso di straordinaria attualità per la psicologia del gioco d’azzardo[ii].
Circa vent’anni fa ho avuto occasione di occuparmi una prima volta dei possibili moventi psicologici del delitto di Raskolnikov[iii], un fatto letterario su cui ho avuto occasione di ritornare dodici anni dopo con Antonio Maria Ferro e Luigi Ferrannini[iv] e poi ancora – più recentemente – in occasione di un’intervista, pubblicata come video su Pol. it, relativa al superamento dell’OPG[v].
Sempre una ventina d’anni fa Marmeladov, una figura secondaria di Delitto e castigo, mi ha offerto lo spunto per un ragionamento sui meccanismi psicologici dell’etilismo, sul quale non mi soffermerò in questo caso[vi]. Perché in occasione di questo centocinquantenario vorrei integrare le considerazioni svolte sull’evento centrale di Delitto e castigo nel 1995 e nel 2007 per ritornare sui possibili moventi, approfondire la condizione psicologica e la forma di esistenza del protagonista al momento del delitto e provare a studiarne la fenomenologia.
Cinque ipotesi di lettura
Venti anni fa, come accennato, ho avuto occasione di fermarmi sulla figura di Raskolnikov con un contributo apparso sulla Rassegna Italiana di Criminologia, considerando cinque diverse ipotesi per spiegare l’uccisione, da parte sua, della vecchia usuraia. L’ex studente di Pietroburgo diventava così il ribelle ad una situazione di miseria sua e dei familiari; nelle parole con cui Caterina Ivanovna, la vedova tisica dell'alcoolista Marmeladov, accoglie il sacerdote chiamato alla morte del marito, abbiamo la dimostrazione che in fatto di teodicea Dostoëvskij non fa sconti a Dio. Sono parole che assomigliano a quelle che pronuncerà Ivan Karamazov nel dialogo con Alësa che precede l’esposizione de La leggenda del Grande Inquisitore ne I fratelli Karamazov appunto: la sofferenza dei bambini che diventa segno più incisivo della mancanza di giustizia nel mondo. Ribellarsi è giusto, allora, per l’ex studente, per riscattare le donne e bambine della famiglia Marmeladov, come anche sua sorella, dall’ingiustizia, restaurando la giustizia al basso prezzo di eliminare lo “schifoso pidocchio”, l’usuraia che getta nella disperazione le sue vittime. Oppure, diventava l’imperatore, cioè l’uomo che intendeva con il delitto dimostrare la sua eccezionalità e superiorità sugli altri uomini e sulle leggi alle quali sono vincolati, lrasgredendo la legge come i grandi innovatori e condottieri nella storia l’hanno sempre trasgredita. Il suo disinteresse, dopo il delitto, per la refurtiva starebbe a dimostrare che era molto più l’esperienza del crimine, che non lil denaro attraverso il quale risollevare la propria situazione e quella di coloro che gli stavano a cuore, a interessarlo. Ancora, diventava il folle, un’ipotesi sulla quale lui stesso e molti dei personaggi che lo incontrano, Sonia compresa, si soffermano, per lo più per scartarla; e sulla quale in questo secolo e mezzo molti tra i critici sarebbero ritornati. Rifacendomi all’interpretazione psicoanalitica del testo – volta tra l’altro a indagare il perché dopo il delitto Raskolnikov abbia cominciato a dare luogo a quel fenomeno che Theodor Reik avrebbe definito l’impulso a confessare – consideravo poi l’ipotesi che il delitto possa corrispondere all’assassinio simbolico alternativamente di uno dei genitori: Raskonikov diventava così ancora, sul piano simbolico, il parricida e il matricida, ipotesi quest’ultima particolarmente cara a Pier Paolo Pasolini, che ne scrisse nel 1974[vii].
Ciascuna di queste ipotesi non esclude le altre e la spiegazione di questo fatto sta anche nella lunga e complessa elaborazione del romanzo che secondo Leonid Grossman, uno dei più accreditati tra i biografi del romanziere, risale all’incontro con i tipi criminali della Casa di morti, il penitenziario siberiano dove era stato internato, quasi vent’anni prima. Sulla quale poi stratificarono la lettura di Puskin e di Balzac; la vicenda di Pierre Francois Lacenaire (1803-1836), assassino e letterato, dalla quale fu colpito allorché ne scrisse all’inizio degli anni ’60[viii]; le drammatiche vicissitudini finanziare personali del 1864 (forse il peggiore della sua vita) che lo portarono a scontrarsi con il mondo degli usurai di Pietroburgo, rischiando il carcere per insolvenza, e a rivolgersi per denaro a una vecchia e ricca zia; il dilagare tutto intorno dell’alcoolismo, della tubercolosi e della prostituzione come problemi sociali e la drammatica crisi finanziaria russa del 1865; il diffondersi delle idee rivoluzionarie e del nihilismo nella società, sempre in quegli anni[ix]. Nel romanzo, Grossman ha ragione, trova posto una riuscita miscela di tutti questi elementi; ma anche, forse, molto di più, cioè un interrogativo radicale sul possibile contesto psicologico del più grave e irreversibile tra i delitti: l'assassinio.
Del resto nella lettera all’editore Katkov del 10/15 settembre 1865, nella quale traccia il piano dell’opera, Dostoëvskij è perentorio: intende scrivere qualcosa di attuale, penetrando alcune idee non ancora chiare del tutto che avverte diffuse nella nuova generazione. Qualcuno gli ha parlato di uno studente espulso dall’Università che a Mosca ha progettato di uccidere un postiglione, o di un seminarista che ha ucciso, con il suo consenso, una ragazza in una rimessa: sono questi i fatti di cronaca sui quali si interroga[x].
Raskolnikov, il curioso
che l’uomo, potrà imparare
a vivere, senza ammazzare
e il vento, si poserà.
F. Guccini, Auschwitz, 1966
Sono 150 anni che l’ex studente Rodion Raskolnikov ci tiene compagnia con il suo duplice delitto, i suoi dialoghi interiori, gli ambienti poveri e allucinati di una equivoca Pietroburgo. Ma in quest’anno denso di importanti centenari per la letteratura mondiale, dal V della prima edizione dell’Orlando furioso[i] al IV della morte di Cervantes e di Shakespeare, mi pare che sia passata quasi inosservata quest’altra duplice ricorrenza letteraria: un secolo e mezzo dalla pubblicazione appunto da parte di Fëdor Dostoëvskij del primo dei suoi romanzi maggiori, che apre il cosiddetto pentateuco dostoëvskijano, Delitto e castigo; e altrettanto tempo da quella – costretta dalla pressione dell’editore – di un racconto più breve, Il giocatore, anch’esso di straordinaria attualità per la psicologia del gioco d’azzardo[ii].
Circa vent’anni fa ho avuto occasione di occuparmi una prima volta dei possibili moventi psicologici del delitto di Raskolnikov[iii], un fatto letterario su cui ho avuto occasione di ritornare dodici anni dopo con Antonio Maria Ferro e Luigi Ferrannini[iv] e poi ancora – più recentemente – in occasione di un’intervista, pubblicata come video su Pol. it, relativa al superamento dell’OPG[v].
Sempre una ventina d’anni fa Marmeladov, una figura secondaria di Delitto e castigo, mi ha offerto lo spunto per un ragionamento sui meccanismi psicologici dell’etilismo, sul quale non mi soffermerò in questo caso[vi]. Perché in occasione di questo centocinquantenario vorrei integrare le considerazioni svolte sull’evento centrale di Delitto e castigo nel 1995 e nel 2007 per ritornare sui possibili moventi, approfondire la condizione psicologica e la forma di esistenza del protagonista al momento del delitto e provare a studiarne la fenomenologia.
Cinque ipotesi di lettura
Venti anni fa, come accennato, ho avuto occasione di fermarmi sulla figura di Raskolnikov con un contributo apparso sulla Rassegna Italiana di Criminologia, considerando cinque diverse ipotesi per spiegare l’uccisione, da parte sua, della vecchia usuraia. L’ex studente di Pietroburgo diventava così il ribelle ad una situazione di miseria sua e dei familiari; nelle parole con cui Caterina Ivanovna, la vedova tisica dell'alcoolista Marmeladov, accoglie il sacerdote chiamato alla morte del marito, abbiamo la dimostrazione che in fatto di teodicea Dostoëvskij non fa sconti a Dio. Sono parole che assomigliano a quelle che pronuncerà Ivan Karamazov nel dialogo con Alësa che precede l’esposizione de La leggenda del Grande Inquisitore ne I fratelli Karamazov appunto: la sofferenza dei bambini che diventa segno più incisivo della mancanza di giustizia nel mondo. Ribellarsi è giusto, allora, per l’ex studente, per riscattare le donne e bambine della famiglia Marmeladov, come anche sua sorella, dall’ingiustizia, restaurando la giustizia al basso prezzo di eliminare lo “schifoso pidocchio”, l’usuraia che getta nella disperazione le sue vittime. Oppure, diventava l’imperatore, cioè l’uomo che intendeva con il delitto dimostrare la sua eccezionalità e superiorità sugli altri uomini e sulle leggi alle quali sono vincolati, lrasgredendo la legge come i grandi innovatori e condottieri nella storia l’hanno sempre trasgredita. Il suo disinteresse, dopo il delitto, per la refurtiva starebbe a dimostrare che era molto più l’esperienza del crimine, che non lil denaro attraverso il quale risollevare la propria situazione e quella di coloro che gli stavano a cuore, a interessarlo. Ancora, diventava il folle, un’ipotesi sulla quale lui stesso e molti dei personaggi che lo incontrano, Sonia compresa, si soffermano, per lo più per scartarla; e sulla quale in questo secolo e mezzo molti tra i critici sarebbero ritornati. Rifacendomi all’interpretazione psicoanalitica del testo – volta tra l’altro a indagare il perché dopo il delitto Raskolnikov abbia cominciato a dare luogo a quel fenomeno che Theodor Reik avrebbe definito l’impulso a confessare – consideravo poi l’ipotesi che il delitto possa corrispondere all’assassinio simbolico alternativamente di uno dei genitori: Raskonikov diventava così ancora, sul piano simbolico, il parricida e il matricida, ipotesi quest’ultima particolarmente cara a Pier Paolo Pasolini, che ne scrisse nel 1974[vii].
Ciascuna di queste ipotesi non esclude le altre e la spiegazione di questo fatto sta anche nella lunga e complessa elaborazione del romanzo che secondo Leonid Grossman, uno dei più accreditati tra i biografi del romanziere, risale all’incontro con i tipi criminali della Casa di morti, il penitenziario siberiano dove era stato internato, quasi vent’anni prima. Sulla quale poi stratificarono la lettura di Puskin e di Balzac; la vicenda di Pierre Francois Lacenaire (1803-1836), assassino e letterato, dalla quale fu colpito allorché ne scrisse all’inizio degli anni ’60[viii]; le drammatiche vicissitudini finanziare personali del 1864 (forse il peggiore della sua vita) che lo portarono a scontrarsi con il mondo degli usurai di Pietroburgo, rischiando il carcere per insolvenza, e a rivolgersi per denaro a una vecchia e ricca zia; il dilagare tutto intorno dell’alcoolismo, della tubercolosi e della prostituzione come problemi sociali e la drammatica crisi finanziaria russa del 1865; il diffondersi delle idee rivoluzionarie e del nihilismo nella società, sempre in quegli anni[ix]. Nel romanzo, Grossman ha ragione, trova posto una riuscita miscela di tutti questi elementi; ma anche, forse, molto di più, cioè un interrogativo radicale sul possibile contesto psicologico del più grave e irreversibile tra i delitti: l'assassinio.
Del resto nella lettera all’editore Katkov del 10/15 settembre 1865, nella quale traccia il piano dell’opera, Dostoëvskij è perentorio: intende scrivere qualcosa di attuale, penetrando alcune idee non ancora chiare del tutto che avverte diffuse nella nuova generazione. Qualcuno gli ha parlato di uno studente espulso dall’Università che a Mosca ha progettato di uccidere un postiglione, o di un seminarista che ha ucciso, con il suo consenso, una ragazza in una rimessa: sono questi i fatti di cronaca sui quali si interroga[x].
Raskolnikov, il curioso
E così oggi, ritornando sul testo a vent’anni di distanza, avverto la necessità di aggiungere a questi forse già sovrabbondanti possibili moventi per un delitto un’altra ipotesi, quella che chiamerei l’ipotesi zero. Cioè che nessuno di questi possibili moventi presi in considerazione sia del tutto soddisfacente perché, forse, il delitto non ha propriamente un movente se non il superamento di un limite, il trasgredire, il delitto in se stesso cioè.
Jean-Luis Backès fa giustamente notare come, nel corso della confessione, Raskolnikov attribuisca una delle possibili ragioni del gesto al desiderio di porre termine a quegli incessanti tormentosi soliloqui sul delitto, alla curiosità che aveva assunto per lui il valore di un’ossessione; l’esperimento avrebbe finalmente posto termine alle sue elucubrazioni. Per sapere se è capace di commettere un assassinio, per sapere cosa si prova quando il delitto viene commesso, non c’è che un modo: metterlo in atto. Perché: «il crimine sarebbe voluto in quanto tale, per la sua brutalità, per il suo carattere irrimediabile (…). Sarebbe l’atto puro». Uccidere per il desiderio, la curiosità di sapere come si uccide, cosa si prova nell’uccidere e nell’avere ucciso. Uccidere per un inconfessabile gusto di uccidere, insomma[xi].
Un desiderio di esplorare il male, mi pare, analogo a quello di un esploratore di nuove terre o di nuove ipotesi scientifiche che si sente attrarre avanti da una forza sconosciuta e irresistibile: sapere, conoscere, fare diretta e personale esperienza. Obbedendo al comando epistemofilico dell’Ulisse dantesco, ma solo per la parte che impone di inseguire la conoscenza, una conoscenza separata dalla virtù. Esplorare la cattiveria per pura curiosità, indagare quanto al suo interno è possibile spingersi; è il crimine gratuito, il crimine bianco, vuoto che è caratteristico forse di certi adolescenti. Ma, se pensiamo a certi casi di cronaca nei quali la cattiveria sembra esplodere in modo gratuito e afinalistico come possibilità da esplorare dell’esercizio di potere, non è raro neppure nel mondo dell’adulto: dai piccoli soprusi di cui è fatta la quotidianità del lager, del carcere o del manicomio, a certi momenti eccezionali come quello che ha caratterizzato, quindici anni fa, la difesa del G8 genovese[xii]. Senza che ci si spinga necessariamente a uccidere, il più delle volte.
Un gusto della cattiveria come eventualità ignota da esplorare, un sentimento forse di non completa conoscenza della vita senza averne fatto personalmente esperienza. Stavroghin, ne I demoni, avrà molto di cui farci riflettere a proposito di questa gratuità del male, di questo gusto di oltrepassare il limite e andare alla deriva per il male solo per curiosità infondo. Il male come l’altra metà del mondo che sfida all’esplorazione ogni uomo; non solo Napoleone dunque, come Raskolnikov aveva teorizzato nel suo articolo, ma anche l’ultimo soldato della Grande Armée. Ciascuno, nel suo piccolo, di fronte alla possibilità di fare esperienza del male, e non accontentarsi di lambirlo con il pensiero e con la scrittura come Raskolnikov aveva fatto in un primo momento.
Che sia anche questo, forse, quel qualcosa che i due giovani, Rodion e Sonia, vanno cercando l’uno sbalordito dall’altro nella scena drammatica della confessione? E’ solo un’ipotesi certo, ma credo non abbia meno ragioni per essere presa in considerazione delle cinque precedenti.
Jean-Luis Backès fa giustamente notare come, nel corso della confessione, Raskolnikov attribuisca una delle possibili ragioni del gesto al desiderio di porre termine a quegli incessanti tormentosi soliloqui sul delitto, alla curiosità che aveva assunto per lui il valore di un’ossessione; l’esperimento avrebbe finalmente posto termine alle sue elucubrazioni. Per sapere se è capace di commettere un assassinio, per sapere cosa si prova quando il delitto viene commesso, non c’è che un modo: metterlo in atto. Perché: «il crimine sarebbe voluto in quanto tale, per la sua brutalità, per il suo carattere irrimediabile (…). Sarebbe l’atto puro». Uccidere per il desiderio, la curiosità di sapere come si uccide, cosa si prova nell’uccidere e nell’avere ucciso. Uccidere per un inconfessabile gusto di uccidere, insomma[xi].
Un desiderio di esplorare il male, mi pare, analogo a quello di un esploratore di nuove terre o di nuove ipotesi scientifiche che si sente attrarre avanti da una forza sconosciuta e irresistibile: sapere, conoscere, fare diretta e personale esperienza. Obbedendo al comando epistemofilico dell’Ulisse dantesco, ma solo per la parte che impone di inseguire la conoscenza, una conoscenza separata dalla virtù. Esplorare la cattiveria per pura curiosità, indagare quanto al suo interno è possibile spingersi; è il crimine gratuito, il crimine bianco, vuoto che è caratteristico forse di certi adolescenti. Ma, se pensiamo a certi casi di cronaca nei quali la cattiveria sembra esplodere in modo gratuito e afinalistico come possibilità da esplorare dell’esercizio di potere, non è raro neppure nel mondo dell’adulto: dai piccoli soprusi di cui è fatta la quotidianità del lager, del carcere o del manicomio, a certi momenti eccezionali come quello che ha caratterizzato, quindici anni fa, la difesa del G8 genovese[xii]. Senza che ci si spinga necessariamente a uccidere, il più delle volte.
Un gusto della cattiveria come eventualità ignota da esplorare, un sentimento forse di non completa conoscenza della vita senza averne fatto personalmente esperienza. Stavroghin, ne I demoni, avrà molto di cui farci riflettere a proposito di questa gratuità del male, di questo gusto di oltrepassare il limite e andare alla deriva per il male solo per curiosità infondo. Il male come l’altra metà del mondo che sfida all’esplorazione ogni uomo; non solo Napoleone dunque, come Raskolnikov aveva teorizzato nel suo articolo, ma anche l’ultimo soldato della Grande Armée. Ciascuno, nel suo piccolo, di fronte alla possibilità di fare esperienza del male, e non accontentarsi di lambirlo con il pensiero e con la scrittura come Raskolnikov aveva fatto in un primo momento.
Che sia anche questo, forse, quel qualcosa che i due giovani, Rodion e Sonia, vanno cercando l’uno sbalordito dall’altro nella scena drammatica della confessione? E’ solo un’ipotesi certo, ma credo non abbia meno ragioni per essere presa in considerazione delle cinque precedenti.
Raskolnikov, l’esaltato
Ciò detto per quanto riguarda gli aspetti relativi al movente dell’omicidio, oggi, nel ritornare sull’argomento in occasione dei 150 anni dalla pubblicazione del romanzo, mi piacerebbe fermarmi anche sugli aspetti della vicenda relativi allo stato d’animo nel quale Raskolnikov compie il delitto. Che potrebbe corrispondere, nel suo caso come in quello di Don Chisciotte[xiii], all’esaltazione fissata descritta da Ludwig Binswanger nel 1956[xiv].
Nell’esaltazione fissata, scrive Binswanger, l’esistenza «si è isolata e si è preclusa il commercio con gli altri e quindi l’espansione e l’arricchimento che soltanto in questo ambito sono possibili, là dove l’esistenza singola si riduce e si ritira nel mero commercio con se stessa, fintanto che anche questo tipo impoverito di rapporto si consuma e si “vanifica” nella mera contemplazione di un problema, di un ideale di un “nulla dell’angoscia” che si sono trasformati in una testa di medusa, in un’idea delirante»[xv].
Essa sembra inoltre implicare una sorta di blocco, di coartazione dell’esperienza: «sia che si tratti di un'”idea” esaltata o di un'ideologia (le “ideologie” sono in genere forme di esaltazione fissata), di un ideale o di un “sentimento” esaltati, di un desiderio o di un progetto, di un mero “capriccio” o di un'azione esaltata, l'espressione “esaltazione fissata” significa sempre che l'esistenza si è “smarrita”, si è perduta in una determinata “esperienza”, che (…) non è più in grado di “levare le tende”, di progettarsi in un altro futuro»[xvi]. L’esistenza è così sottratta alla communio amoris e alla communicatio amicitiae in un isolamento dal mondo degli affetti, in una impossibilità di relazioni che possano dirsi autentiche, e anche per il nostro studente l'esistenza «non è più in grado di ampliare “l'orizzonte della propria esperienza”, non è più in grado di rivederlo né di verificarlo, e si fissa su un punto di vista “limitato”»[xvii].
In terzo luogo, infine, quanto Binswanger scrive sull’esaltazione fissata rimanda a una perdita di possibilità legata a una deformazione strutturale della proporzione antropologica, cioè una «forma di sproporzione antropologica, come un rapporto «infelice» tra l'altezza e l'ampiezza in senso antropologico»[xviii].
Ora, questi tre aspetti nucleari dell’esaltazione fissata come descritta da Binswanger – un sentimento insieme di isolamento, di coartazione e complessivo impoverirsi nel senso della multidimensionalità e della varietà dell’esistenza – possono prestarsi a descrivere la particolare modalità di essere nel mondo del nostro studente pietroburghese nel momento precedente il delitto come ci siamo adoperati a dimostrare per il cavaliere mancheco prima della partenza per le sue altrettanto sgangherate ma meno tragiche avventure? E’ l’esaltazione fisata, in altri termini, la pressione che lo sospinge a trovarsi in quell’appartamento con la scure in mano, in bilico sul punto di andare irreversibilmente oltre il limite o di rinunciare? Mi pare indubbio.
Appunti per una fenomenologia del gesto omicida in Delitto e Castigo
Nell’esaltazione fissata, scrive Binswanger, l’esistenza «si è isolata e si è preclusa il commercio con gli altri e quindi l’espansione e l’arricchimento che soltanto in questo ambito sono possibili, là dove l’esistenza singola si riduce e si ritira nel mero commercio con se stessa, fintanto che anche questo tipo impoverito di rapporto si consuma e si “vanifica” nella mera contemplazione di un problema, di un ideale di un “nulla dell’angoscia” che si sono trasformati in una testa di medusa, in un’idea delirante»[xv].
Essa sembra inoltre implicare una sorta di blocco, di coartazione dell’esperienza: «sia che si tratti di un'”idea” esaltata o di un'ideologia (le “ideologie” sono in genere forme di esaltazione fissata), di un ideale o di un “sentimento” esaltati, di un desiderio o di un progetto, di un mero “capriccio” o di un'azione esaltata, l'espressione “esaltazione fissata” significa sempre che l'esistenza si è “smarrita”, si è perduta in una determinata “esperienza”, che (…) non è più in grado di “levare le tende”, di progettarsi in un altro futuro»[xvi]. L’esistenza è così sottratta alla communio amoris e alla communicatio amicitiae in un isolamento dal mondo degli affetti, in una impossibilità di relazioni che possano dirsi autentiche, e anche per il nostro studente l'esistenza «non è più in grado di ampliare “l'orizzonte della propria esperienza”, non è più in grado di rivederlo né di verificarlo, e si fissa su un punto di vista “limitato”»[xvii].
In terzo luogo, infine, quanto Binswanger scrive sull’esaltazione fissata rimanda a una perdita di possibilità legata a una deformazione strutturale della proporzione antropologica, cioè una «forma di sproporzione antropologica, come un rapporto «infelice» tra l'altezza e l'ampiezza in senso antropologico»[xviii].
Ora, questi tre aspetti nucleari dell’esaltazione fissata come descritta da Binswanger – un sentimento insieme di isolamento, di coartazione e complessivo impoverirsi nel senso della multidimensionalità e della varietà dell’esistenza – possono prestarsi a descrivere la particolare modalità di essere nel mondo del nostro studente pietroburghese nel momento precedente il delitto come ci siamo adoperati a dimostrare per il cavaliere mancheco prima della partenza per le sue altrettanto sgangherate ma meno tragiche avventure? E’ l’esaltazione fisata, in altri termini, la pressione che lo sospinge a trovarsi in quell’appartamento con la scure in mano, in bilico sul punto di andare irreversibilmente oltre il limite o di rinunciare? Mi pare indubbio.
Appunti per una fenomenologia del gesto omicida in Delitto e Castigo
Vorrei ora richiamare alcune considerazioni esposte in un saggio pubblicato nel 2007 con Antonio Maria Ferro e Luigi Ferrannini e già richiamato, a proposito di un’intuizione di De Vincentiis, Callieri e Castellani[xix] sull’esistenza, nell’uomo, di un sentimento del valore dell’altro come aspetto particolare dei sentimenti etici, che trovano il loro fondamento nella filosofia kantiana, per verificare cosa accada provando a saldare il modello dell’esaltazione fissata di Binswanger e quello del venir meno del sentimento dell’altro proposto dai colleghi romani per una comprensione del particolare stato di coscienza nel quale si svolge, secondo Dostoëvskij, l’assassinio dell’usuraia da parte dell’ex studente.
In quell’occasione, Dostoëvskij ci informa che già nel dialogo con l’usuraia a Raskolnikov le parole escono meccaniche, senza pensarle. Poi, avvicinandosi il momento di colpire si sente pervaso da grande debolezza e ha un capogiro; dopo di che: «Tirò fuori l’accetta, la sollevò con tutte e due le mani, senza pensare più a nulla, e poi, quasi senza sforzo, quasi macchinalmente, la lasciò cadere sulla testa della vecchia dalla parte opposta al taglio. In quel momento tutta la sua forza sembrava sparita. Ma appena ebbe calato l’accetta, la forza gli ritornò subito»[xx].
E’ solo lo spazio di un attimo, un battito di ciglia. Quell’attimo, come quello in cui inizierà la confessione a Sonia, è come l’inizio di un salto nel vuoto: si può spiccare o no. Basta una frazione di secondo. Su quell’attimo tragico, Dostoëvkij ritornerà anni dopo, quando la mite avrà il revolver puntato sulla tempia di un altro usuraio, per dargli una diversa soluzione[xxi]. L’accetta è stata calata, il colpo del revolver non è partito. Sono attimi che decidono del destino della vittima e di quello di chi è sul punto di diventare l’assassino.
Quest’immagine, così minuziosamente descritta farebbe pensare che per uccidere occorra a Raskolnikov in quel momento staccare il pensiero, agire meccanicamente, attraversare perciò una sorta di depersonalizzazione indispensabile a rompere la connessione con l’altro.
Perché se l’altro è presente non è possibile ucciderlo senza, contemporaneamente, vivere il terrore e il dolore della sua morte come propri, e per uccidere sul piano della realtà è necessario quindi avere prima già ucciso l’altro nella sua alterità e somiglianza con sé nel mondo interno. E ciò può accadere solo in due condizioni: la prima è che la rappresentazione interna dell’altro non sia mai possibile, il che rimanda a una sorta di agenesia o di temporanea caduta del sentimento del valore altrui, per esempio nel quadro della grave patologia narcisistica o antisociale che il linguaggio morale definisce cattiveria. Ed è interessante notare che molti anni fa Enrico Ferri[xxii] individuasse tra gli elementi caratteristici dell’omicidio una indifferenza alle sofferenze altrui, concettualmente non molto distante da questo discorso. La seconda è che il sentimento del valore dell’altro, abitualmente presente, sia temporaneamente sospeso dallo stabilirsi di uno stato di epoché del campo di coscienza, il che in psicopatologia può corrispondere a uno stato di depersonalizzazione e rimanda alla fenomenologia dei meccanismi isterici.
Per poter uccidere, in quell’occasione sostenevamo che chi non soffre di una insufficiente rappresentazione del sentimento del valore dell’altro debba trovarsi in uno stato di sospensione della coscienza, debba cioè essere all’ultimo momento, quello decisivo, incosciente. Raskolnikov è ben consapevole di ciò che sta per fare mentre sale le scale, ma cessa di esserlo nel momento in cui cala la scure; chi spara è consapevole mentre prende la mira, ma può avere il bisogno di un attimo di sospensione della coscienza, nel quale la presentificazione dell’altro come soggetto viene meno, nel momento in cui preme il grilletto.
Tale, nota del resto ancora Backès (p. 82), è la tesi che l’investigatore riferisce di aver letto nel saggio che Raskolnikov ha scritto sull’omicidio: che il colpevole, nel momento in cui commette l’atto criminale, è sempre un malato. E ad essa prima ancora delle parole del poliziotto l’ex studente era giunto nel corso di uno dei suoi monologhi interiori: che il criminale è colpito, al momento del crimine, da una diminuzione della volontà e della ragione.
Questo stato di depersonalizzazione accompagna Raskolnikov anche durante il complimento del secondo delitto. Ha sentito un rumore, ha il dubbio che sia arrivato qualcuno; in un balzo è nell’altra stanza, l’immagine di Lizaveta gli si dà innanzi improvvisa. E’ terrorizzata, quasi paralizzata, ammutolita dalla sorpresa e dallo sconcerto. Raskolnikov alza l’accetta anche su di lei, ma poi, come in un infernale meccanismo, da sola «l’accetta piombò sul cranio»[xxiii]. L’accetta dunque è “lasciata cadere” nel caso dell’usuraia, e “piomba” in quello di sua sorella. Parrebbe questo oggetto il vero protagonista in quei due attimi. Lizavëta cade di schianto, la fronte spaccata, e subito l’ex studente “perse quasi la testa”. Adesso è lui terrorizzato e «se in quel momento fosse stato in grado di ragionare e di vedere le cose più chiaramente…», ma non lo era. Il disgusto aumenta di minuto in minuto. Ma ecco che subito dopo «a poco a poco fu preso da una specie di svagatezza, anzi, di fantasticheria: a momenti pareva che si dimenticasse di essere lì, o meglio che dimenticasse l’essenziale e si attaccasse alle minuzie».
Vede un secchio d’acqua, si lava le mani e lava anche l’accetta. Lo prende il timore di impazzire e sbagliare qualcosa. Si dirige alla porta, e con sgomento si accorge che è sempre rimasta aperta. Meccanicamente la chiude col catenaccio. Forse perché fa,in ritardo quello che avrebbe dovuto fare prima. O forse perché all’interno della casa, con i due cadaveri, tutto è come sospeso in un’atmosfera d’irrealtà dalla quale non vuole uscire perché vi trova protezione, un incubo dal quale sarà liberato al risveglio per cadere in uno peggiore. Riapre la porta per uscire, ma qualcuno sta salendo «e a un tratto gli sembrò di essere paralizzato, come nei sogni, quando si sogna che ci inseguono e ormai sono vicini e vogliono ucciderci e noi siamo come inchiodati, non possiamo muovere neanche le mani»[xxiv]. All’ultimo istante si riprende, ritorna a chiudersi nell’appartamento insieme ai due cadaveri. Si muove a istinto, senza ragionare, la mente pare altrove. Di nuovo, come poco prima con la vecchia ancora in vita, solo una porta lo divide dall’altro, ma adesso è lui a essere dentro, e a essere in pericolo. Di nuovo, come subito dopo l’assassinio dell’usuraia, ha la sensazione di (la speranza di?) sentire le sue vittime muoversi.
Lo sconosciuto insiste a suonare, poi scuote la porta; nuovo capogiro e sensazione di svenire per Raskolnikov. Per un attimo il desiderio di essere subito scoperto.
Ma l’altro va a chiedere aiuto, e può approfittarne per uscire. Poi lo sconosciuto sta risalendo insieme ad altri; sembra impossibile evitarli, ma l’ex studente trova un nascondiglio.
Finalmente la strada!
E’ così stravolto che un uomo che incontra lo scambia per ubriaco; ancora: «non era del tutto cosciente». E poi, ancora, «non era perfettamente lucido neanche quando entrò nel portone del suo casamento»[xxv]. E dopo: «Appena entrato in camera sua, si buttò sul divano, così com’era. Non dormiva, ma si era assopito. Se qualcuno fosse entrato nella sua stanza, sarebbe saltato su dal divano e avrebbe cominciato a urlare. Brandelli e frammenti di pensieri gli brulicavano nella testa; ma non riusciva ad afferrarne neanche uno, non riusciva assolutamente a concentrarsi»[xxvi].
Sensazione di svenire, capogiri, momenti di assenza di pensieri, d’incapacità di pensiero, decontestualizzazione, atti di distrazione, gesti automatici, timore di impazzire, illusioni uditive, sensazione di paralisi, ambivalenza tra desiderio di essere scoperto e di riuscire a scappare, incoscienza, spossatezza, confusione, frammentazione dei pensieri. E’ successo davvero di tutto nella mente dell’ex studente in quel brevissimo tempo in cui si è trasformato in duplice omicida; ed è stato più difficile, evidentemente, dare la morte che immaginare di darla.
Intendere, volere: è difficile capire cosa accada nella mente nel momento in cui l’accetta è alzata, e può colpire o non colpire[xxvii]. Ancora più difficile è, probabilmente, in quell’attimo per il soggetto decidere. Il vero delitto è prima. Quando si comincia a dubitare dell’imperativo non uccidere, che fonda la relazione di alterità. Questo dà il via a una sequenza; e non si sa dove si arresti.
Ieri una bambina di otto anni è stata utilizzata come bomba a Damasco: 150 anni fa il delitto di Raskolnikov ha avuto luogo nella fantasia di Dostoëvskij, oggi ciò accade nella nostra realtà.
In quell’occasione, Dostoëvskij ci informa che già nel dialogo con l’usuraia a Raskolnikov le parole escono meccaniche, senza pensarle. Poi, avvicinandosi il momento di colpire si sente pervaso da grande debolezza e ha un capogiro; dopo di che: «Tirò fuori l’accetta, la sollevò con tutte e due le mani, senza pensare più a nulla, e poi, quasi senza sforzo, quasi macchinalmente, la lasciò cadere sulla testa della vecchia dalla parte opposta al taglio. In quel momento tutta la sua forza sembrava sparita. Ma appena ebbe calato l’accetta, la forza gli ritornò subito»[xx].
E’ solo lo spazio di un attimo, un battito di ciglia. Quell’attimo, come quello in cui inizierà la confessione a Sonia, è come l’inizio di un salto nel vuoto: si può spiccare o no. Basta una frazione di secondo. Su quell’attimo tragico, Dostoëvkij ritornerà anni dopo, quando la mite avrà il revolver puntato sulla tempia di un altro usuraio, per dargli una diversa soluzione[xxi]. L’accetta è stata calata, il colpo del revolver non è partito. Sono attimi che decidono del destino della vittima e di quello di chi è sul punto di diventare l’assassino.
Quest’immagine, così minuziosamente descritta farebbe pensare che per uccidere occorra a Raskolnikov in quel momento staccare il pensiero, agire meccanicamente, attraversare perciò una sorta di depersonalizzazione indispensabile a rompere la connessione con l’altro.
Perché se l’altro è presente non è possibile ucciderlo senza, contemporaneamente, vivere il terrore e il dolore della sua morte come propri, e per uccidere sul piano della realtà è necessario quindi avere prima già ucciso l’altro nella sua alterità e somiglianza con sé nel mondo interno. E ciò può accadere solo in due condizioni: la prima è che la rappresentazione interna dell’altro non sia mai possibile, il che rimanda a una sorta di agenesia o di temporanea caduta del sentimento del valore altrui, per esempio nel quadro della grave patologia narcisistica o antisociale che il linguaggio morale definisce cattiveria. Ed è interessante notare che molti anni fa Enrico Ferri[xxii] individuasse tra gli elementi caratteristici dell’omicidio una indifferenza alle sofferenze altrui, concettualmente non molto distante da questo discorso. La seconda è che il sentimento del valore dell’altro, abitualmente presente, sia temporaneamente sospeso dallo stabilirsi di uno stato di epoché del campo di coscienza, il che in psicopatologia può corrispondere a uno stato di depersonalizzazione e rimanda alla fenomenologia dei meccanismi isterici.
Per poter uccidere, in quell’occasione sostenevamo che chi non soffre di una insufficiente rappresentazione del sentimento del valore dell’altro debba trovarsi in uno stato di sospensione della coscienza, debba cioè essere all’ultimo momento, quello decisivo, incosciente. Raskolnikov è ben consapevole di ciò che sta per fare mentre sale le scale, ma cessa di esserlo nel momento in cui cala la scure; chi spara è consapevole mentre prende la mira, ma può avere il bisogno di un attimo di sospensione della coscienza, nel quale la presentificazione dell’altro come soggetto viene meno, nel momento in cui preme il grilletto.
Tale, nota del resto ancora Backès (p. 82), è la tesi che l’investigatore riferisce di aver letto nel saggio che Raskolnikov ha scritto sull’omicidio: che il colpevole, nel momento in cui commette l’atto criminale, è sempre un malato. E ad essa prima ancora delle parole del poliziotto l’ex studente era giunto nel corso di uno dei suoi monologhi interiori: che il criminale è colpito, al momento del crimine, da una diminuzione della volontà e della ragione.
Questo stato di depersonalizzazione accompagna Raskolnikov anche durante il complimento del secondo delitto. Ha sentito un rumore, ha il dubbio che sia arrivato qualcuno; in un balzo è nell’altra stanza, l’immagine di Lizaveta gli si dà innanzi improvvisa. E’ terrorizzata, quasi paralizzata, ammutolita dalla sorpresa e dallo sconcerto. Raskolnikov alza l’accetta anche su di lei, ma poi, come in un infernale meccanismo, da sola «l’accetta piombò sul cranio»[xxiii]. L’accetta dunque è “lasciata cadere” nel caso dell’usuraia, e “piomba” in quello di sua sorella. Parrebbe questo oggetto il vero protagonista in quei due attimi. Lizavëta cade di schianto, la fronte spaccata, e subito l’ex studente “perse quasi la testa”. Adesso è lui terrorizzato e «se in quel momento fosse stato in grado di ragionare e di vedere le cose più chiaramente…», ma non lo era. Il disgusto aumenta di minuto in minuto. Ma ecco che subito dopo «a poco a poco fu preso da una specie di svagatezza, anzi, di fantasticheria: a momenti pareva che si dimenticasse di essere lì, o meglio che dimenticasse l’essenziale e si attaccasse alle minuzie».
Vede un secchio d’acqua, si lava le mani e lava anche l’accetta. Lo prende il timore di impazzire e sbagliare qualcosa. Si dirige alla porta, e con sgomento si accorge che è sempre rimasta aperta. Meccanicamente la chiude col catenaccio. Forse perché fa,in ritardo quello che avrebbe dovuto fare prima. O forse perché all’interno della casa, con i due cadaveri, tutto è come sospeso in un’atmosfera d’irrealtà dalla quale non vuole uscire perché vi trova protezione, un incubo dal quale sarà liberato al risveglio per cadere in uno peggiore. Riapre la porta per uscire, ma qualcuno sta salendo «e a un tratto gli sembrò di essere paralizzato, come nei sogni, quando si sogna che ci inseguono e ormai sono vicini e vogliono ucciderci e noi siamo come inchiodati, non possiamo muovere neanche le mani»[xxiv]. All’ultimo istante si riprende, ritorna a chiudersi nell’appartamento insieme ai due cadaveri. Si muove a istinto, senza ragionare, la mente pare altrove. Di nuovo, come poco prima con la vecchia ancora in vita, solo una porta lo divide dall’altro, ma adesso è lui a essere dentro, e a essere in pericolo. Di nuovo, come subito dopo l’assassinio dell’usuraia, ha la sensazione di (la speranza di?) sentire le sue vittime muoversi.
Lo sconosciuto insiste a suonare, poi scuote la porta; nuovo capogiro e sensazione di svenire per Raskolnikov. Per un attimo il desiderio di essere subito scoperto.
Ma l’altro va a chiedere aiuto, e può approfittarne per uscire. Poi lo sconosciuto sta risalendo insieme ad altri; sembra impossibile evitarli, ma l’ex studente trova un nascondiglio.
Finalmente la strada!
E’ così stravolto che un uomo che incontra lo scambia per ubriaco; ancora: «non era del tutto cosciente». E poi, ancora, «non era perfettamente lucido neanche quando entrò nel portone del suo casamento»[xxv]. E dopo: «Appena entrato in camera sua, si buttò sul divano, così com’era. Non dormiva, ma si era assopito. Se qualcuno fosse entrato nella sua stanza, sarebbe saltato su dal divano e avrebbe cominciato a urlare. Brandelli e frammenti di pensieri gli brulicavano nella testa; ma non riusciva ad afferrarne neanche uno, non riusciva assolutamente a concentrarsi»[xxvi].
Sensazione di svenire, capogiri, momenti di assenza di pensieri, d’incapacità di pensiero, decontestualizzazione, atti di distrazione, gesti automatici, timore di impazzire, illusioni uditive, sensazione di paralisi, ambivalenza tra desiderio di essere scoperto e di riuscire a scappare, incoscienza, spossatezza, confusione, frammentazione dei pensieri. E’ successo davvero di tutto nella mente dell’ex studente in quel brevissimo tempo in cui si è trasformato in duplice omicida; ed è stato più difficile, evidentemente, dare la morte che immaginare di darla.
Intendere, volere: è difficile capire cosa accada nella mente nel momento in cui l’accetta è alzata, e può colpire o non colpire[xxvii]. Ancora più difficile è, probabilmente, in quell’attimo per il soggetto decidere. Il vero delitto è prima. Quando si comincia a dubitare dell’imperativo non uccidere, che fonda la relazione di alterità. Questo dà il via a una sequenza; e non si sa dove si arresti.
Ieri una bambina di otto anni è stata utilizzata come bomba a Damasco: 150 anni fa il delitto di Raskolnikov ha avuto luogo nella fantasia di Dostoëvskij, oggi ciò accade nella nostra realtà.
[i] Cfr. in questa rubrica: ORLANDO: 500 ANNI DI FURIA E DI POESIA.
[ii] P.F. Peloso, Finché rimane un gioco… Considerazioni sul gioco d’azzardo patologico, Il vaso di Pandora. Dialoghi in psichiatria e scienze umane, XIII, 2, 1995, pp. 83-103.
[iii] P.F. Peloso, Cinque ipotesi di lettura per il caso Raskolnikov, Rassegna Italiana di Criminologia, VI, 4, 1995, pp. 547-564.
[iv] A.M. Ferro, P.F. Peloso, L. Ferrannini, Alcune vicissitudini del sentimento del valore altrui, della responsabilità e della colpa nell’omicidio, Psicoterapia e scienze umane, XLI, 2, 2007, pp. 171-190;
[v] L’intervento è disponibile in video cliccando qui.
[vi] P.F. Peloso, Problemi relazionali e sociali correlati all'alcoolismo. Rappresentazione e autopercezione di un bevitore problematico in Delitto e Castigo di F.M. Dostoevskij, Atti dell'Accademia Ligure di Scienze e Lettere, LII, 1995, pp. 171-192.
[vii] P.P. Pasolini Fëdor Dostoëvskij. Delitto e Castigo (1974), in: Descrizioni di descrizioni, Milano, Garzanti, 1996, pp. 323-329.
[viii] Cfr. P.F. Lacenaire, Mémoires et autres écrits, Paris, Corti, 1991.
[ix] L.P. Grossman, Dostoëvskij, Roma, Samonà e Savelli, 1968, pp. 395-424.
[x] «In una parola, sono convinto che il mio soggetto giustifica in parte l’età presente» (F.M. Dostoëvskij, Epistolario, Napoli, Ed. Scientifiche Italiane, 1951, vol. I, pp. 389-394).
[xi] J.-L. Backès, Comment à Crime et chatiment de Fedor Dostoievski, Paris, Gallimard, 1994, pp. 72-74.
[xii] Per il quale rimando in questa rubrica a: Corpo e città. Corporeità e spazialità dei dispositivi disciplinari in occasione del G8 genovese.
[xiii] Si veda in questa stessa rubrica: Omaggio a Miguel de Cervantes nel IV centenario della morte.
[xiv] L. Binswanger, Tre forme di esistenza mancata. Esaltazione fissata, stramberia, manierismo. Tre saggi di analisi esistenziale (1956), Milano, Garzanti, 1978.
[xv] Ibidem, p. 23.
[xvi] Ibidem, p. 18.
[xvii] Ibidem, p. 13.
[xviii] Ibidem, p. 18
[xix] G. De Vincentiis, B. Callieri, A. Castellani, Trattato di psicopatologia e psichiatria forense, Roma, Pensiero Scientifico, 1972, vol. I, pp. 209-216.
[xx] F.M. Dostoëvskij, Delitto e castigo e i taccuini (1866), Firenze, Sansoni, 1963, pp. 99-100.
[xxi] Si veda in questa rubrica: DATA IN PEGNO. IMPRATICABILITA' DELL'AMORE E DELL'ODIO PER "LA MITE" DI DOSTOEVSKIJ.
[xxii] E. Ferri, L’omicida nella psicologia e nella psicopatologia criminale, II ed., Torino, UTET, 1925.
[xxiii] F.M. Dostoëvskij, Delitto e castigo… cit., p. 103.
[xxiv] Ibidem, p. 106.
[xxv] Ibidem, p. 110.
[xxvi] Ibidem, p. 111.
[xxvii] Per il sarcasmo di Dostoëvskij sui tentativi di ricostruzione peritale dei meccanismi psicologici del delitto, cfr. su POL. it: P.F. Peloso, Dostoëvskij e la psichiatria positivista del suo secolo: le tre direzioni dello sguardo di Mitja Karamazov, 1998.
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