IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale
di Antonello Sciacchitano

C'è ripetizione e ripetizione

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2 febbraio, 2017 - 15:19
di Antonello Sciacchitano

 

Per raggiungere il concreto bisogna passare per le vie traverse dell’astrazione. Niklas Luhmann

 
In questo post l’astrazione richiesta è l’indebolimento della nozione di causa.

Le forme di ripetizione sono molte e molto variegate. Ne segnalo due, secondo me le più semplici ed elementari, perché mettono in questione la nozione di causa. C’è la ripetizione oggettiva, o meccanica; è quando una macchina strettamente deterministica entra in un ciclo ripetitivo, perché accede a uno stato già incontrato in precedenza, dopo il quale ripercorre il cammino già percorso, perché dopo quello stato c’è uno stato già determinato, poi un altro già determinato e così si avvia la ripetizione degli stati. Nella ripetizione meccanica sembra agire una causa locale che fa passare da stato a stato, ma non c’è traccia di una causa che determini globalmente la ripetizione nel suo complesso.

Poi c’è la ripetizione antropica, legata all’abitudine; è quando, applicando l’algoritmo di conferma, il soggetto si comporta come si è comportato in precedenza, perché la prima volta “gli è andata bene” e desidera continuare così. “L’uomo è un animale che vive d’abitudini. Si affeziona ai luoghi, detesta i cambiamenti” (John Steinbeck, Furore, ma prima di lui Blaise Pascal: “L’abitudine costituisce la nostra natura”, Pensieri, 89 Br). Anche qui la causa della ripetizione sembra locale – la prima scelta preferenziale – e non globale.

In entrambi i casi qualcosa si ripete in assenza di causa specifica che abbia tutta la ripetizione come effetto. In un modo o nell’altro, sia la ripetizione antropica sia la meccanica sembrano avere in sé stesse la causa. Il filosofo direbbe che la ripetizione è autopoietica, perciò si ripete identicamente a sé stessa. Così il principio di identità passa dalla logica all’ontologia, nel senso che la concordanza degli stati antecedenti porta alla concordanza degli stati seguenti. L’apparente eziologia della ripetizione si camuffa dietro il teorema: “pari cause, pari effetti”. Certo, le transizioni tra stati sono localmente determinate dal meccanismo o dalla preferenza, ma la ripetizione come fenomeno globale non ha una causa propria come la gravità che fa cadere la mela. L’indebolimento eziologico che propongo all’analisi sta tutto qui, nel passaggio da una causalità globale a una locale (quando c’è).

La ripetizione antropica, a sua volta, si scinde in individuale e collettiva. Tra le possibili e innumerevoli ripetizioni collettive, tra tutte quelle che tessono la cultura, dai tempi e modi di lavoro feriale ai riti festivi, ne segnalo una in particolare solo perché la conosco meglio.

C’è stata nel movimento psicoanalitico una particolare e secondo me paradigmatica ripetizione antropica del soggetto collettivo: la progressiva frantumazione delle scuole di psicoanalisi. Per spiegare il fenomeno storico, in parte paragonabile alla proliferazione delle sette protestanti, dominate dai rispettivi “curatori d’anime”, sfrutto una nozione psichiatrica, proposta da Lacan. La trovo utile perché correla il soggetto individuale al collettivo nell’equazione, avanzata da Lacan nella sua tesi di specialità: personalità = paranoia. Considerata come struttura psichica elementare, la paranoia forma l’asse portante della personalità: è l’Io che si pone in opposizione all’altro. C’è una versione collettiva di questa forma di paranoia: è il complottismo. La versione individuale di paranoia ricorre addirittura nella “cura” psicoanalitica, dove cresce come una pianta nella serra. Intendo la nozione di paranoia post-analitica, che Lacan propose nel seminario sull’Io del 25 maggio 1955. La nozione di paranoia post-analitica fu stranamente poco sviluppata dagli allievi di Lacan, quasi non abbiano voluto affrontare il loro transfert negativo verso il maestro.

Sarà un caso? Certo è che, arrivato grazie alla cura analitica al rinforzo dell’Io, il soggetto, ormai “analizzato” ma non più “analizzante”, è facilmente portato a ritenere l’analista un persecutore, che nel transfert prende il posto di altri persecutori già presenti nella storia del soggetto, e tanto più facilmente quanto più la personalità si è fortificata. Nel caso particolare in cui l’analista sia il fondatore di una scuola, la paranoia post-analitica porta l’analizzato a uscire dalla scuola del proprio analista e a fondarne una nuova, ovviamente ostile a quella d’origine. Succede quasi sempre così: è la disonorevole ripetizione del movimento analitico orientato alla paranoia collettiva, in un certo senso di scuola, dove gli “altri” sono eretici e persecutori. Buona parte dell’“eresia” lacaniana si è sviluppata secondo il modello del conflitto paranoico, messo in scena da un sottile e reversibile gioco delle parti persecutore/perseguitato.

L’etimologia di “ripetizione” è dal latino re, iterativo, e petere, “mirare a raggiungere qualcosa”. L’etimologia evoca il senso di causa finale. È in tal senso che Freud presuppose attiva nell’apparato psichico una particolare “forza” costante, causa della ripetizione; la chiamò pulsione di morte e la mise a sostegno della coazione a ripetere; sarebbe lei che, agendo globalmente sulla ripetizione nel suo complesso, mira a riportare l’apparato psichico allo stato di minima eccitazione, dopo essere stato eccitato dal trauma. La ripetizione di aspetti poco piacevoli del trauma porterebbe a smaltire il trauma. È una teoria teleologica discutibile, perché si può solo confermare, non confutare.

Non usò in senso finalistico la locuzione “automatismi di ripetizione” il maestro di Lacan, de Clérambault, che si propose di individuare il fenomeno elementare della psicosi, il generatore clinico di delirio e allucinazioni. A differenza dello psicoanalista, per lo psichiatra (non necessariamente organicista) l’apparato psichico funziona in modo meccanico. Cosa intendeva?
Clérambault non definì in che senso intendeva il meccanicismo: le sue due lauree in diritto e in medicina gli precludevano l’accesso al discorso scientifico. L’uomo-macchina o l’uomo-orologio di La Mettrie (1747) non era nelle sue corde (e neppure in quelle dell’allievo Lacan). Quella di meccanismo era per Clérambault una nozione primitiva indefinita, che si esprimeva fratturando l’Io e mettendolo in risonanza con l’altro. “La mia lingua regola il passo sul pensiero altrui”, disse un suo paziente. Si vede qui il seme originario della dottrina lacaniana del desiderio dell’altro? Eco del pensiero, ecoprassia, pensiero anticipato, contraddizione sistematica, dialogo di voci interne, furto o divinazione del pensiero, scie verbali, psittacismo, automatismi sensoriali e psicomotori, sono tutti fenomeni elementari in eco, raddoppiamenti simmetrici tra l’io e l’altro, non ulteriormente analizzabili perché senza causa apparente. Emergono da un’echo chamber, o “cassa di risonanza” collettiva, metafora che i moderni sociologi applicano ai fenomeni collettivi di Internet. L’autismo, individuato da Bleuler nella schizofrenia, ha la stessa matrice; altro non è che l’altro simbolico incorporato nell’Io, per cui l’autistico non ha bisogno di interagire con l’altro reale.

C’è forse qualche correlazione tra la psicologia collettiva e psicologia della follia? L’“ingegneria del consenso”, di cui si parlava negli anni Cinquanta, si radica nella follia collettiva? Certo è che il classico scire per causas, modello della cognizione oggettiva per millenni, non fa presa sugli eventi della follia, che sembrano generarsi da sé. Allora Jaspers ebbe tutte le ragioni per dichiarare e ribadire, a fondamento della sua psicopatologia generale (1913-1959), che nella follia emerge l’incomprensibile. Nulla è senza ragione, sostiene il leibniziano principio di ragion sufficiente. La follia sarebbe l’emergenza dell’insufficienza della ragione. O no?

Eppure ci siamo. Siamo in prossimità di una nuova interpretazione dei fenomeni della ripetizione in psicoanalisi. Non c’è solo la ripetizione dell’identico del filosofo; non c’è non solo la coazione a ripetere dello psicoanalista, sorretta dalla pulsione di rovina; nella ripetizione c’è qualcosa di sistematico e di meccanico, a patto di intendersi sul significato di meccanicismo. Cosa vuol dire questa parola – meccanicismo – che tanta repulsione suscita nel giro umanistico? Il meccanicismo porta alla ripetizione, ma non è vero viceversa: la ripetizione non è necessariamente meccanica nel senso di scontata.

Nel discorso scientifico il meccanicismo è frutto di una simmetria locale tra componenti che interagiscono: in meccanica c’è la simmetria tra azione e reazione, per esempio, quella delle ruote dentate dell’orologio, ognuna delle quali produce un moto in senso inverso nella ruota con cui ingrana; in psicoanalisi c’è la simmetria tra l’io e l’altro, quella paranoica, per esempio. Misconoscere l’esistenza di simmetrie, potenziali o attuali, simboliche o immaginarie, locali o globali, ridurre il meccanicismo a determinismo, addirittura a sovradeterminismo, fu l’errore sistematico di Freud, che si dichiarava dominato da un “imperativo bisogno di causalità”. E non ci mancano le prove della sua sottomissione all’imperativo aristotelico.

Tutta la metapsicologia freudiana è sotto il segno della ragion sufficiente psichica; è lei che agisce a titolo di pulsione. C’è la causa efficiente: è la pulsione sessuale, nelle varie declinazioni somatiche a seconda dell’orifizio corporeo in cui si insedia: orale, anale, scopica, dimenticata l’acustica, essendo Freud musicalmente sordo. E c’è la causa finale, la suddetta pulsione di morte alle porte del nulla, senza oggetto e senza energia propria (parassitando l’energia delle pulsioni sessuali). Tutta la metapsicologia freudiana ha questa impostazione eziologica rigida (più  locale nel caso sessuale, più globale nel caso della pulsione di morte), di stampo aristotelico, per non dire ippocratico, cioè prescientifica. Nel rigettarla come poco scientifica e in un certo senso sterilizzante ogni ulteriore analisi, perché la supposta causa globale ­– la Ursache tedesca, cioè la “cosa originaria” – impedisce di approfondire l’analisi locale del fenomeno ripetitivo, non possiamo tuttavia non conservare l’intuizione psicologica ad essa connessa, ancora una volta legata a una simmetria.

Qualunque cosa vogliano dire, ci sono, da una parte, le pulsioni che chiacchierano, addirittura vociferano godendo, soffrendo, desiderando: sono le pulsioni sessuali; e dall’altra c’è la pulsione di morte, muta. “L’Es non può dire ciò che vuole”; così concludeva Freud L’Io e l’Es (1923): Es kann nicht sagen, was es will. Un paio d’anni prima Wittgenstein concludeva il suo Tractatus logico-philosophicus (1921) su un teorema simmetrico: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere” (Wovon man nicht sprechen kann, darüber muss man schweigen). The rest is silence, e Amleto muore.
 
– Insomma, senza ammettere qualche simmetria non si coglie lo spirito del meccanicismo, in particolare di quello indeterministico. E di meccanicismo abbiamo strenuo bisogno in psicoanalisi, per liberarla dal determinismo.
– Cosa stai dicendo?
– Dico che esistono macchine indeterministiche.
– ?
– Dove la stessa causa può produrre effetti diversi.
– Fai un esempio.
– Il dado è una macchina indeterministica. Lo stesso dado produce cadendo sei effetti diversi: le “scoperte” – le chiamava Galilei – delle facce, 1, 2, 3, 4, 5, 6. L’apparato psichico assomiglierebbe a un dado.
– E dove va a finire la tua simmetria, allora?
– Nella probabilità.
– Vuoi dire?
– Voglio dire che, se la probabilità che esca 6 è 1/6, la probabilità che non esca 6 è 5/6. 1/6 e 5/6 sono simmetrici rispetto a ½, perché la somma delle probabilità di un evento e del suo contrario deve dare 6/6, cioè la certezza, non essendoci per definizione eventi intermedi tra 6 e non 6. Nel calcolo delle probabilità torna a valere il principio del terzo escluso e con esso il meccanicismo, benché in forma non deterministica. Allora, banalmente: ½ – p = 1 – p – ½, cioè ½ = ½. Tutta la meccanica quantistica si regge su tale simmetria probabilistica; perciò è meccanica pur essendo indeterministica. Il modulo della funzione di Schrödinger è una probabilità.

La vicenda scientifica della transizione dal modo di pensare deterministico all’indeterministico si svolse sotto gli occhi di Freud, che però li chiuse; non volle vedere in fisica la transizione dal determinismo newtoniano all’indeterminismo quantistico e continuò a parlare di determinismo, per esempio traumatico, dove la causa produce un solo effetto, anche se più cause possono concorrere allo stesso effetto. Quando si dice volontà di ignoranza!

Mi tocca ora spiegare cosa c’entra la simmetria con le due forme di ripetizione: la meccanica, o non antropica, e l’antropica, distinguendo i due casi individuale e collettivo. Comincio dalla prima, dove la simmetria è più evidente, trattando i due casi della macchina deterministica e di quella indeterministica.

Una macchina deterministica, dalla leva di Archimede al calcolatore di Turing, è astrattamente – non è una parolaccia! – definita da un certo insieme di stati meccanici (sono o coppie di posizione/velocità o interruttori aperti/chiusi) e da regole di transizione tra di essi. Il passaggio da uno stato all’altro è un evento che emerge per simmetria tra stato iniziale e stato finale sotto forma di lavoro prodotto, di calore assorbito, di risultato di un calcolo o di sapere che non si sapeva di sapere (in psicoanalisi), perché era rimosso.

La differenza tra macchina deterministica e indeterministica è semplice: nella macchina deterministica da ogni stato meccanico di partenza si passa necessariamente a un unico ben preciso stato meccanico di arrivo, eventualmente coincidente con quello di partenza; nella macchina indeterministica, invece, da ogni stato meccanico si può passare a più di uno stato meccanico, ogni transizione essendo regolata da una specifica probabilità. In entrambi i casi vige una simmetria tra stati di partenza e stati di arrivo, che a loro volta costituiscono nuovi stati di partenza per nuovi stati di arrivo, nell’insieme rappresentando l’evoluzione del sistema meccanico. Nel caso deterministico la simmetria si chiama endomorfismo, che applica l’insieme degli stati in sé stesso (iniezione); nel caso indeterministico la simmetria si inscrive nella matrice di probabilità, la quale per ogni stato di partenza porge la (densità di) probabilità degli stati di arrivo. In ogni caso si stabilisce un processo che evolve in modo meccanico, cioè regolato da simmetrie.

La differenza tra i due tipi di macchine si riflette sui due tipi di osservazioni che su di esse si possono fare. La macchina deterministica consente osservazioni certe e predizioni sicure, ma sul lungo periodo caotiche, nel senso che piccole variazioni nelle condizioni iniziali portano a grandi variazioni nei risultati finali. Con dati di partenza precisi fino alla sesta cifra decimale non sappiamo predire con certezza quale sarà tra dieci milioni di anni la configurazione del nostro sistema planetario, regolato dalla meccanica deterministica di Newton. Esiste il caos deterministico, frutto di simmetrie locali ma non globali. Per contro la macchina indeterministica consente solo previsioni incerte sul breve periodo, ma paradossalmente meno caotiche sul lungo, quando diventano certe in media. Traggo la differenza tra predizione e previsione dal lavoro di De Finetti in teoria delle probabilità. (In tedesco la differenza è rispettivamente tra Vorhersage e Voraussage).

Nel caso di un sistema meccanico deterministico a numero finito di stati, coordinati da un endomorfismo, la ripetizione si spiega immediatamente come ho già detto. Appena il sistema entra in uno stato cui aveva già avuto accesso, da allora la sua storia evolutiva ripercorre necessariamente un tratto di storia già percorso; si crea così un ciclo, da cui la macchina non esce più, che il filosofo chiama poeticamente “eterno ritorno dell’identico”. Poincaré generalizzò il teorema a sistemi dinamici deterministici con infiniti stati, affermando che, magari dopo un tempo lunghissimo, tendono a tornare vicini quanto si vuole allo stato di partenza. La ripetizione deterministica, pur essendo determinata localmente, è comunque senza causa globale come il moto inerziale in assenza di forze. Se proprio si vuol scomodare l’eziologia, si può dire che la ripetizione deterministica è causa di sé stessa, cioè è autopoietica.

Dobbiamo la teoria dei sistemi meccanici indeterministici e delle loro evoluzioni, che ora si chiamano processi stocastici, ai matematici russi Kolmogorov e Markov. Non ne dico molto, limitandomi a riferire alcune definizioni, che possono illuminare la questione della ripetizione, che ora si chiama ricorrenza.

Come sempre in questioni di meccanica, il presupposto è aver chiara la nozione di variabile. Un processo stocastico è un insieme di variabili aleatorie, parametrizzate dal tempo, ognuna delle quali ha una distribuzione di probabilità, che per ciascuna di esse fissa la tendenza centrale e la varianza, misurata come scostamento dalla tendenza centrale. Il sistema stocastico è definito da certe probabilità di transizione che correlano il valore di una variabile al valore di un’altra, nel caso più semplice dei processi markoviani da una variabile alla successiva in senso temporale.

Chiamiamo evento il valore di una variabile aleatoria. Per ogni evento si può stabilire la probabilità della prima ricorrenza dopo n transizioni del sistema. Paradossalmente si tratta del primo ritorno dell’identico, che non è ancora ritornato ma ritornerà (forse). Sommando su n, si ottiene la probabilità della prima comparsa dell’evento: è la probabilità della prima ricorrenza di un certo valore; se essa è inferiore a uno, si dice che l’evento è transitorio; se è uguale a uno si dice che è ricorrente, cioè il suo ritorno è certo (prima o poi, anche se non si sa quando). Un evento è periodico se si verifica solo ai tempi t, 2t, 3t… Se t = 1, l’evento è aperiodico. Un evento è nullo, se è ricorrente ma ha tempo di ricorrenza è infinito; è ergodico se è ricorrente, aperiodico e ha tempo di ricorrenza finito. Un processo stocastico è ergodico se converge verso una distribuzione di probabilità limite, cioè verso un equilibrio indipendente dalla distribuzione di partenza. Per un teorema di Markov tutti i processi con un numero finito di variabili, aperiodici e irriducibili (cioè tali che tutti suoi stati formano un sistema chiuso da cui il sistema non esce) sono ergodici.

Forse nell’ergodicità – un concetto desunto dalla meccanica statistica secondo Gibbs – lo psicoanalista scorge qualche lontana analogia con lo stato di Nirvana di cui parlava Freud, quando introdusse la nozione di pulsione di morte come causa globale della ripetizione, che avvicina il soggetto allo stato invariabile di quiete finale. (“La nostra natura è nel movimento, il riposo completo è la morte”, Pascal, Pensieri, 544). Come si vede, la matematica fa a meno della nozione di causa globale, soprattutto esclude la finale, basandosi solo su considerazioni strutturali, codificate localmente dalla matrice di transizione. Il teorema di Markov segnala la rilevanza della nozione di finitezza, importante per lo psicoanalista perché correlata all’esistenza (effimera) del soggetto come macchina finita (e per Freud deterministica).

In ogni caso, avere qualche nozione di probabilità (oggettiva o soggettiva, ontologica o epistemica) è un buon viatico per affrontare quel problematico “accrescimento della probabilità dell’improbabile” della comunicazione umana, tipicamente nella passione amorosa, in generale in tutti quei fenomeni concernenti il cosiddetto “sapere nel reale”, che stanno all’intersezione della teoria del soggetto collettivo, della sua evoluzione, dei mezzi di comunicazione. (v. N. Luhmann, Amore come passione. Per la codifica dell’intimità (sic, 1982), trad. M. Sinatra, Laterza, Bari 1985, p. VI).
Aperta la questione del soggetto (individuale e collettivo) devo affrontare la seconda forma di ripetizione: quella antropica. Qui l’obbiettività scientifica è più problematica da cogliere, essendo la simmetria del meccanicismo più riposta. Occorrono opzioni in gran parte arbitrarie, cioè bisogna costruire un modello e i modi per farlo sono molti. Non dovrebbe stupire che per trattare l’indeterminismo soggettivo occorra affrontare un certo indeterminismo.

Supponiamo che la particella che percorre il processo stocastico abbia un certo grado di libertà: per lo meno una specie di libertà negativa, cioè la libertà di non cambiare il proprio stato. La particella crede di essere quello che è e non vuole cambiare. In altri termini, la particella antropica è originariamente folle. La follia si basa sulla volontà di credere alla propria ontologia: è folle il re che crede di essere re. “Lo Stato sono io” è la formula di struttura della follia, dove il soggetto individuale fa cortocircuito con il soggetto collettivo, di cui eredita la disconnessione (v. il post “Il terzo escluso” http://www.psychiatryonline.it/node/6460 ).

Luigi XIV e Robespierre furono due facce della stessa “follia”: individuale-collettivo il primo e collettivo-individuale il secondo. Certe simmetrie non perdonano: una volta instaurate, avviano un processo meccanico che non si arresta finché non arriva alla ghigliottina, che retroattivamente sembra determinarlo nella sua globalità. Faccio notare che la moneta “meccanica” non circolava in epoca prescientifica, quando non esisteva la scienza moderna e la follia era solo o furia o melanconia, che non avanzavano pretese intellettuali ma solo affettive. Pericle (soggetto individuale) non fu mai Atene (soggetto collettivo), ma Atene giustiziò Socrate (soggetto individuale). Esistono simmetrie storiche tuttora da portare alla luce e analizzare meglio.

In generale, l’essere è folle in quanto disconnesso. A servizio della propria consistenza ontologica, la follia ha uno strumento formidabile che blinda il proprio essere e ricostituisce uno stato di connessione in un certo senso artificiale: è il pregiudizio della conferma, il confirmation bias degli informatici. Tutto ciò che succede intorno a lei conferma quel che la follia crede di essere. Se si sente perseguitata, tutto conferma la persecuzione. Si chiama delirio, che non significa “uscire dal solco”, come l’etimologia vorrebbe farci credere; delirare significa rimanere rigorosamente nel solco prescelto, perseguendolo fino alla fine.

Se sono tante le particelle che convergono in un collettivo, il delirio di persecuzione diventa complottismo, cioè delirio collettivizzato di quell’“altro generalizzato” di cui parla G.H. Mead: tutto coopera alla distruzione generale, tutto parla del signoraggio di un potere ostile, di un Ordine del Mondo che domina il mondo. Nella camera di risonanza del collettivo non si parla d’altro. Per confermare un’opzione politica, per pilotare l’esito delle inchieste o delle consultazioni elettorali, addirittura per decidere una guerra, il delirio collettivo, sapientemente orchestrato dal potere, non esita a mettere in circolazione notizie false (fake news), addirittura inventate – madre di tutte le bufale fu il dossier costruito per dimostrare la presenza di armi chimiche e batteriologiche nell'Irak di  Saddam Hussein, che scatenò la seconda guerra in Irak, la prima guerra del villaggio globale. Il meccanismo è regolarmente quello del pervertimento del buon senso in senso comune, descritto da Alessandro Manzoni in riferimento alla credenza che gli untori propagassero la peste a Milano. C’è l’effetto peste? Ci deve essere una causa pestifera, no? Commenta il grande romanziere: “Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune” (A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XXXII).

Logicamente parlando, il pregiudizio di conferma è una degenerazione del principio di ragion sufficiente; è del genere: “Se piove è bagnato per terra, quindi se è bagnato per terra vuol dire che ha piovuto”. Tutto conferma l’idea delirante precostituita; più la notizia è falsa, meglio se è inventata di sana pianta, più è credibile. La volontà di credere il falso in quanto infalsificabile supera la volontà di credere alla propria ipotesi di lavoro (falsificabile) dello scienziato, tanto che ogni tentativo di confutare la tesi falsa (debunking) provoca maggior attaccamento ad essa. Di conseguenza fermare una notizia infondata – arrestare la sua conferma infinita – diventa praticamente impossibile. Allora si estende la favola che la politica va a rotoli, perché un complotto universale ci vuole affondare per guadagnare potere. Il nemico comune assume spesso il volto sfuggente del neoliberismo. Si stravolge anche Marx per sostenere questa ideologia paranoica. Sembra che l’attaccamento a questi miti sia superiore a quello degli antichi ai loro dei olimpici. Sono gli idola tribus individuati da Francis Bacon.

Sto forse delirando anch’io? Allora anch’io userei il principio di conferma. I social network sono organizzati secondo il modello qui presentato e lo confermano? Sono solo pettegolezzi quelli circolano? Pare di no. Secondo il World Economic Forum la diffusione massiva di notizie false (massive digital disinformation) costituisce un pericolo reale, paragonabile al terrorismo. Certo è che se la campagna di disinformazione contro i vaccini porta al 5% la popolazione che non si vaccina, il rischio di pandemie (di morbillo in particolare) diventa non trascurabile.
Come bloccare la ripetizione antropica del falso? C’è una potenza autonoma – diabolica – del falso? Non si dice perseverare diabolicum?

Queste domande toccano profondamente lo psichiatra che è in me. Come è possibile che la psichiatria affronti le paranoie individuali, più o meno schizofreniche, e trascuri le sociali? Di fatto non esiste una psicopatologia sistematica dei network, dove certe ripetizioni imperversano, mentre un’analisi approfondita sarebbe la base necessaria per l’azione politica di contrasto e di contenimento dei virus informatici. Che differenza passa tra la paranoia o la perversione individuali e quella collettiva? Come si cura la seconda, ammesso di poter curare le prime? Come si contrasta la campagna anti-vaccini, in pratica?

È chiaro che non esistono farmaci antiripetizione. I farmaci sono cause (abbastanza) “buone” che agiscono contro le (cattive) cause morbose. Ma nella ripetizione antropica, ancor meno che in quella meccanica, non esistono cause, quindi non esistono contro-cause per curarla. O meglio, la causa della ripetizione antropica esiste ed è la volontà di credere, individuata da William James. Si vuole credere che le cose siano così come sembrano e si agisce sempre allo stesso modo e necessariamente, in modo mortifero, perché restino così. La vera e ultima simmetria, giustamente evidenziata da Freud, è in generale tra la vita e la morte; è la simmetria tra essere e non essere, direbbe Amleto, che fa essere precariamente il soggetto nell’eterno ritorno dell’identico (“La natura ricomincia sempre le stesse cose”, Pascal, Pensieri, 559). In un certo senso, per vivere veramente e non autoripetersi, bisognerebbe disattivare o almeno attenuare la ripetizione delle conferme, indebolendo la volontà di credere.

Naturalmente, il compito è impossibile, ma si può realizzarlo parzialmente, almeno localmente. Chi ha dato precise indicazioni teoriche in questo senso è stato Niklas Luhmann nella sua teoria dei sistemi basata sulla doppia contingenza (o doppia imprevedibilità) tra coppie di sistemi interagenti. Luhmann chiama interpenetrazione (Interpenetrieren) la simmetria che vige tra collettivi. “Interpenetrazione” significa “una relazione intersistemica tra sistemi che appartengono reciprocamente l’uno all’ambiente dell’altro”, dove uno interagisce con l’altro (N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale (1984), trad. A. Febbrajo e R. Schmidt, Il Mulino, Bologna 1990, p. 354).

Ovviamente, in concreto, quando l’interpenetrazione avviene a livello individuale si realizzano rapporti intimi. In astratto funziona, direbbe il fisico, una simmetria locale, diversa per ogni coppia di sistemi tra loro interagenti, dove ognuno dei due sistemi offre all’altro lo spazio per agire ed esprimersi. Tra la coppia di sistemi interpenetranti si dà lo spazio per l’azione semiotica, che è la tipica interazione umana, dove, direbbe Lacan, “l’emittente riceve dal ricevente il proprio messaggio in forma invertita” (J. Lacan, Ecrits, Seuil, Paris 1966, p. 41). Si tratta, continuerebbe il biologo evoluzionista, della possibilità della coevoluzione (tipicamente tra natura e cultura). È tale simmetria, è tale reciprocità, locale ma non globale, a dare l’impressione dell’esistenza di una forza, che tende a ristabilire anche violentemente la simmetria quando una dissimmetria la rompe, per esempio alla fine di un rapporto amoroso. (In ambito meccanicista la nozione di forza è sempre secondaria a quella di simmetria.)

Ora proprio questo è il punto politicamente rilevante. Compito della politica è modulare l’interazione tra sistemi rispettandone autonomia e complessità interne, promuovendone contemporaneamente le interazioni esterne. Non voglio né posso fare un discorso generale. Mi limito a considerare quei piccoli sistemi che sono i collettivi di psicoanalisi. I quali sono isolati; nessuno si pone come ambiente operativo per l’azione dell’altro. Interagiscono sì, ma negativamente. L’altro collettivo (il collettivo dell’altro) è regolarmente considerato nemico e persecutore del proprio. Vige nei collettivi di psicoanalisi una sorta di paranoia pre-analitica. Per Musatti Verdiglione fu il magliaro della psicoanalisi. Per ogni collettivo di psicoanalisi il modello operativo è la monade di Leibniz, entità che sicuramente non si interpenetra con la monade vicina di casa. Il risultato è che ogni collettivo psicoanalitico, volendo credere e far credere di essere l’unico ortodosso, ripete sé stesso e le proprie idiosincrasie, senza alcuna prospettiva di cambiamento, fatta salva l’eventualità di un’ulteriore scissione, naturalmente in nome della purezza e dell’ortodossia cui gli eretici vogliono credere. Il resto è ripetizione, direbbe di loro Amleto. O follia.

(Secondo un luogo comune freudiano, ricordato anche in questa rivista: la follia sarebbe inanalizzabile perché non produce transfert. È vero e non è vero. A differenza di Paganini, la follia si ripete sempre uguale a sé stessa, quindi non analizza le possibilità di cambiamento a cominciare dall’amare l’altro oltre che il proprio delirio.)

Tra ripetizione antropica e non antropica esiste la ripetizione della catena significante, che ho mancato di citare. Sto forse guarendo dal mio lacanismo di gioventù (che, come il freudismo, non significa automaticamente psicoanalisi)? Ora, dopo questa analisi della ripetizione, posso dire che gli “ismi” sono ricadute di malattie infantili del pensiero, buone per formare allievi senza curiosità e destinati a ripetersi “a prescindere”.

Allora auguro a tutti gli interessati buona e pronta guarigione dalla ripetizione.
 
 

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