È morto a 85 anni Massimo Fagioli, uno degli ultimi guru della psicoanalisi.
Non se ne vedono molti altri all’orizzonte. Chi è emerso è presto decaduto, almeno in Italia. Questo è forse uno degli ultimi necrologi per un big della psicoanalisi.
Come altri big, Massimo Fagioli, è passato per eretico, esorcizzato da pochi, osannato da molti. Non fu colpa sua. La colpa è della psicoanalisi, che è organizzata mentalmente come dottrina ortodossa, non come scienza. Nella scienza non esistono né ortodossie né eresie. Nella psicanalisi, che non è ancora scienza, ci stanno entrambe. Conformisti ed eretici nell’ortodossia convivono da separati in casa in odioamoroso connubio. Io ho avuto come maestro un dottore di psicoanalisi del genere Fagioli, dichiarato eretico nel 1964. Non mi sono mai rammaricato di essere stato suo discepolo, pur avendo dovuto riconoscere che mi ha insegnato molte sciocchezze insieme a profonde intuizioni. Ma si sa, le sciocchezze sono il prezzo che noi che non siamo geniali dobbiamo pagare ai geni. Dopo tutto, sul medio periodo, è un prezzo conveniente.
Perché ricordo Fagioli in questa rubrica dedicata al soggetto collettivo? Per chi ha plagiato? (Non ne faccio l’elenco. Sappiamo che alcuni cominciano con la lettera B.) Per la sua contestazione della società ufficiale di psicoanalisi? (Ne valeva la pena?) Per aver agitato le acque della paludosa psicoanalisi italiana? (Idem come sopra.) Non condivido la sua teoria della Marionetta e il burattino, ma non mi prendo la briga di contestare il suo antifreudismo un po’ di maniera, un po’ populista (Freud un imbecille?). È facile contestare una dottrina con un’altra dottrina, rimanendo dottrinari.
No, qui ricordo Fagioli come l’uomo di coraggio che ha osato aprire un luogo di psicoanalisi collettiva, capace di accogliere quel fenomeno per eccellenza collettivo che è la follia. Fagioli fu uno dei rari dell’establishment psicoanalitico che recepì la lezione di Basaglia. La quale fu crudelmente e crudamente semplice: della follia ci si può prendere pubblicamente cura perché è un fatto pubblico quotidiano come il lavoro, come l’influenza. Non si trova solo nelle case di cura ma anche in Parlamento e adiacenze. Circola per le strade prima di entrare nelle nostre case; abita in noi prima che nel nostro io. Forse la psicoanalisi può ancora dirne qualcosa; prendersene cura, non dico curarla.
Grazie Massimo, ci ricorderemo della tua lezione. Speriamo di migliorarla e approfondirla. Ti perdoniamo di essere stato un guru, perché sei stato un soggetto collettivo prima che individuale.
Rip.
Non posso condividere la
Non posso condividere la riflessione del Collega Sciacchitano in almeno tre punti qualificanti: il primo riguarda il concetto di “guru” in psicoanalisi che rimanda a una condizione che ha più a che fare con la suggestione e l’imbonimento di massa piuttosto che con il carisma e la caratura intellettuale dei grandi maestri e dei pionieri, a cominciare da Freud, per passare a Ferenczi, a Balint, a Klein, a Bion, al grande Bowlby, a Winnicott, e si potrebbe pure continuare. Nessuno dei suddetti può essere definito un “guru”, appellativo che a essi sarebbe parso incomprensibile e che avrebbero certamente aborrito.
Il secondo aspetto che non mi sento di apprezzare è la cosiddetta “analisi collettiva”, per ragioni di cui non mi pare neppure valga la pena di discutere; e in tal senso non vedo che cosa essa c’entri con il lavoro di Basaglia.
Il terzo aspetto riguarda il problema della critica alla psicoanalisi (sempre ammesso che esista una “cosa” in tal modo definibile).
Secondo Sciacchitano, della qualità delle critiche rivolte alla psicoanalisi (ma io preferisco, sulla scia di Wallenstein, dire “alle” psicoanalisi) sarebbe responsabile, o meglio colpevole, la psicoanalisi stessa.
Ora, il fatto che insegnamento dogmatico, affiliazioni iniziatiche, fidelizzazioni “politiche” (nel senso di politica societaria), compressione della creatività dei candidati (come denunciato da Kernberg in un celebre articolo), anatemi, scomuniche, ortodossia, patologizzazione del dissenso (come bene raccontano le vicende biografiche di Tausk, Rank e Ferenczi) siano realtà pesantissime e tutt’ora presenti nel dna della psicoanalisi mainstream e non soltanto di essa, non autorizza chiunque a dire qualsiasi sciocchezza in libertà, senza alcun senso né criterio di metodo.
A volte agli errori della Scienza o delle discipline (la psicoanalisi non appartiene di certo al novero delle scienze esatte, ma certamente a quello delle scienze umane, e pazienza se non sarà validabile attraverso l’ebm), si aggiunge l’”imbecillità” dei suoi critici; il che non aiuta molto.
Il dramma del movimento psicoanalitico è stato ed è in parte tutt’ora quello di non prestare orecchio allo studio della propria storia, studio che dovrebbe essere considerato un elemento fondante di qualsiasi formazione di tirocinio e permanente di qualsiasi psicoanalista.
Scriveva Winnicott che ogni analisi è in fondo una lunga anamnesi: e forse interminabile. Agli analisti è richiesto di continuare la propria autoanalisi per tutta la vita, e lo stesso dovrebbe essere per la famiglia, in senso allargato oltreché ristretto, di cui essi fanno parte. Soltanto studiando l’evoluzione delle idee, si eviterà di sceglierne alcune (probabilmente quelle che piacciono ai propri maestri) e farle diventare dogmi religiosi.
Invece stiamo ancora scontando il pesantissimo lascito censorio di cui sono stati responsabili Ernest Jones in primis, seguito da Anna Freud, e da Kurt Eissler; e da molti altri. E’ per questo che la mia personale speranza di vita non mi consente di sperare di leggere, un giorno, documenti storicamente rilevanti che ancora giacciono sigillati nella Libreria del Congresso di Washington. Il fatto che io non possa soddisfare la mia personale curiosità è di certo poca cosa e riguarda soltanto me; ma conoscere la propria non trascurabile (nel male come nell’ottimo) Storia è un’esigenza che alla Psicoanalisi non dovrebbe essere sottratta.
Ok sull’equazione guru =
Ok sull’equazione guru = imbonitore. Anch’io l’intendo in questo senso. Freud, Ferenczi, Jung ecc. non furono imbonitori.
Quanto alla psicoanalisi collettiva, non esiste dalle origini. La sociologia freudiana è strettamente individualistica (con il plauso di Kelsen), essendo basata sull’identificazione di tutti al Führer. Tocca a qualcuno di noi inventare il correlato collettivo della psicoanalisi individuale. Secondo me, se tale correlato esiste, precede la pratica individuale. Ma su questo punto non chiedo consensi.
Sulla critica all’assetto teorico dato da Freud alla psicoanalisi dovremmo finalmente intenderci e la rivista di Bollorino offre buone chance di intesa. Partirei da una considerazione in negativo: che la psicoanalisi non sia una scienza esatta, non esclude la possibilità che sia una scienza confutabile, non solo predisposta alla conferma, come qualunque altra dottrina, per esempio religiosa o giuridica.
Come omaggio a un trapassato,
Come omaggio a un trapassato, è leggero e per questo mi piace, anche perché è sincero.
C’è un punto però che mi torna in mente:
“Ma si sa, le sciocchezze sono il prezzo che noi che non siamo geniali dobbiamo pagare ai geni. Dopo tutto, sul medio periodo, è un prezzo conveniente.”
Posso capirlo, ma sono curiosa, anche del medio periodo.
Sul lungo periodo, prima di
Sul lungo periodo, prima di morire, si spera che le sciocchezze siano state superate. Altrimenti a cosa servono?
Mi è piaciuto il saluto di
Mi è piaciuto il saluto di Sciacchitano a Fagioli, c’è ironia e ci sono pure delle idee, così come mi hanno preso le considerazioni di Guasto. Sì, i Grandi della psicoanalisi non furono imbonitori, piuttosto furono maestri (e qui bisognerebbe indagare quanto e quando furono veri o falsi maestri). Così come è vero che il movimento psicoanalitico sta ancora oggi scontando una serie di scelte, inaugurate da Freud, i cui risultati Guasto elenca lucidamente. Domanda: ma quello psicoanalitico è ancora un movimento, e se non lo è più quando ha cessato di esserlo ? A queste mie domande vedo che oggi (20 febbraio) delinea una risposta il successivo post di Sciacchitano. Ad un certo punto, con le espulsioni di Jung e Adler, il movimento cessò di esistere. Per Freud non dovevano più esserci interazioni orizzontali tra i soggetti, niente interrogazioni teoriche, niente sviluppi. E un uomo solo al comando, anche se poi in pochi anni il comando gli fu sfilato di sotto i piedi. Così tutto si sedimenta e fossilizza con l’universalizzazione dell’Edipo e della roccia della castrazione. Inoltre il concetto di controtransfert dopo il 1915 viene abbandonato da Freud. Abbiamo così due punti inespugnabili (Edipo e Castrazione) e un tabù, con relativa rimozione ( il Controtransfert) che emergono nella loro evidenza se si prestano orecchie e domande alla storia del movimento (?) psicoanalitico. Certo interrogarsi sulla propria storia è un dovere per ogni psicoanalista – e non solo – e un’esigenza che non deve né può essere sottratta. Detto questo credo che solo alla fine della sua vita Freud torni ad essere “vero” maestro, con due testi fondamentali e coevi : Costruzioni in analisi e Analisi finita e infinita del 1937. Sono i testi della tardiva guarigione di Freud dall’ideologia medicale. In Costruzioni per la prima volta Freud afferma che non basta l’anamnesi, non è sufficiente lo sguardo rivolto al passato, la ricostruzione finitista rivolta al reperimento della causa, del trauma che innesca la nevrosi. Qui Freud finalmente non è più medico. Insomma l’analisi finisce -temporaneamente- quando ha finito – l’analista con l’analizzante, insieme – di costruire una certa costruzione mentale (ovvero una NUOVA teoria). Relativamente alle teorie oggi circolanti nella varie scuole psicoanalitiche mi vien da dire che non sono teorie che si confrontano con il loro ambiente, ma che sono dottrine, dogmi. Guasto giustamente ci ricorda che “studiando l’evoluzione delle idee, si eviterà di sceglierne alcune (probabilmente quelle che piacciono ai propri maestri) e farle diventare dogmi religiosi”. Bello, giusto, ragionevole, ma purtroppo ho dei forti dubbi sull’assunto di base, ovvero che le idee della psicoanalisi si siano ultimamente evolute. Per evolversi una idea, una teoria, un concetto, un organismo, un sistema, ha bisogno di confrontarsi con il proprio ambiente, questo confronto, questa sollecitazione esterna comporta un riassetto autopoietico interno, una autocorrezione, un cambiamento che preserva l’identità nella selezione ed eventuale assunzione delle differenze. Bene, questo non mi pare sia il caso delle dottrine delle scuole psicoanalitiche. Ogni scuola fa vita a se……..Va benissimo lo sguardo alla storia, al passato, ma ben venga uno sguardo rivolto al futuro, all’innovazione, alla critica, a patto che tutto ciò non diventi uno sciocchezzaio in libertà.