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IL SUICIDIO DI LAVAGNA: UN RAGAZZO MUORE NEL VUOTO

26 Feb 17

A cura di Sarantis Thanopulos

Un ragazzo si è gettato nel vuoto a Lavagna durante una perquisizione dei finanzieri nella sua casa. La perquisizione era stata ideata dalla madre, nella speranza di indurlo  a desistere dall’uso di hashish. A distanza di due settimane, sedimentate le emozioni del momento, si può provare a contrastare il fatalismo che come un avvoltoio si è già impadronito della preda.
L’adolescenza è di per sé vulnerabile. Il più delle volte il suicidio arriva inaspettato, per la combinazione di una fragilità psichica (permanente o temporanea) e di un evento pressante. Può agire come detonatore una forte delusione che aggrava una pregressa ferita narcisistica, rendendola incontenibile. Spesso sono  presenti un conflitto complicato con i genitori e una forte aggressività nei loro confronti che si introverte catastroficamente. La rabbia trova uno sbocco autolesionista nell’intenzione ambivalente di assolverli e di punirli al tempo stesso. Più in profondità cova la convinzione di poter esistere per gli altri solo per assenza, attraverso il senso di mancanza e di dolore prodotto in loro.
A Lavagna, l’incontro mortale tra la fragilità e l’evento pressante non è stato casuale.  Che la perquisizione potesse provocare un suicidio non si poteva immaginarlo. Che si trattasse di un’azione molto rischiosa, un’infrazione autoritaria dello spazio dell’adolescenza dalle conseguenze imprevedibili, genitori e finanzieri avrebbero potuto comprenderlo, se il loro assetto mentale fosse stato sgombro da pregiudizi. Sennonché essi, pur agendo intenzionalmente, essendo capaci di volere, non erano in grado di intendere perché guidati da una cattiva fede collettiva.
L’assenza di colpevoli rende evidente il vuoto di responsabilità che una colpa conclamata tende a camuffare. Questo vuoto ci riguarda. Viviamo nella cattiva fede di maggioranze silenziose la cui principale funzione è quella di assicurarci una buona fede, come singoli individui, per tutte le cose irragionevoli che compiamo quando agiamo secondo emozioni e pensieri di massa.
L’uso di droghe leggere non è di per sé propedeutico all’uso di droghe pesanti. Gli adolescenti le usano spinti da motivi contraddittori. Combattono i vissuti depressivi del loro percorso di transizione che si acuiscono con le sue complicazioni. Affermano una loro cultura di complicità conviviale che trasgredisce la morale degli adulti. Realizzano un rito di iniziazione fondato sull’evasione dall’azione repressiva delle regole, che affida a un futuro utopico la speranza di una rifondazione costruttiva. Usano le sostanze come genitori “tascabili”, strumenti di auto-contenimento con cui sostituiscono le figure di accudimento della loro infanzia. Si difendono con l’attivazione di una dimensione autoerotica dall’angoscia correlata alla loro definizione sessuale.
Gli adolescenti hanno bisogno della mediazione del conflitto con i genitori per affrontare le loro paure e contraddizioni e inserirsi nella vita sociale. Far invadere l’area della loro esperienza da forze esterne alle sue ragioni, supposte al di sopra delle parti, significa spersonalizzare e rendere ingestibili i loro vissuti. Nel misurare la loro incoerenza sperimentale con l’auspicata coerenza degli adulti non possono trovarsi all’interno di un campo relazionale molto ampio, che diluisce troppo la loro percezione del mondo. La cultura, accolta passivamente da tutti, di un interventismo sociale che invade le relazioni familiari, sconfinante ben oltre le reali necessità di un “pronto soccorso” e sorretto da un esercito di figure improvvisate, deresponsabilizza i genitori e lascia gli adolescenti in balia degli aventi.

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