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“Lasciatele vivere”. Una recensione per l’8 marzo

8 Mar 18

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Non ci potrebbe essere data più appropriata di questo 8 marzo, che si preannuncia occasione di festa e di lotta nel mondo, per la recensione di un volume che raccoglie punti di vista eterogenei, di donne e di uomini, a partire dal Seminario sulla violenza contro le donne organizzato dal Corso di laurea in Filosofia dell’Università di Bologna negli anni accademici dal 2013-14 al 2015-16. Coordinato dalla storica della filosofia Annarita Angelini e obbligatorio per gli studenti di Filosofia ma aperto alla cittadinanza, è stato un’esperienza – come sottolinea la responsabile scientifica del corso e curatrice del volume Valeria Babini – ad oggi unica in Italia, e speriamo solo la prima[i].
Ad aprire gli interventi, Angelini con l’analisi di due miti fondatori del potere maschile – quelli della creazione di Eva e del ratto delle Sabine – cui segue la ricerca del perdurare dei segni della stessa oppressione, in una storia narrata al maschile, dentro una vicenda molto più recente, quella documentata dalla RAI nel 1979 con il film-documentario Processo per stupro. Come ricorda Angelini, nella legislazione italiana lo stupro è diventato reato contro la persona solo nel 1996; da allora altri provvedimenti legislativi sono seguiti, ma questo non è stato ancora sufficiente.
Lo psicoanalista Massimo Recalcati s’interroga sul perché la violenza dell’uomo paia talvolta ricercata dalla donna e sui modi nei quali l’ideologia patriarcale ha tentato di esorcizzare l’alterità del femminile, rintracciandone tre in particolare: la riduzione della donna a madre, la sua riduzione a oggetto, il rifiuto del mistero, almeno in parte irresolubile, che la semiotica della femminilità rappresenta per l’uomo e insieme la sua incapacità di tollerarne la pluralità e la libertà. L’educazione sessuale – una nuova educazione sessuale come quella che il corso bolognese con la ricchezza dei suoi contenuti senz’altro costituisce – può diventare per Recalcati strumento di contrasto della violenza contro le donne solo se si fa educazione alla rinuncia a fare dell’altro una cosa propria e all’apertura al rischio della sua libertà.
Dei due temi speculari dei quali il testo finisce inevitabilmente per occuparsi – violenza di genere e amore tra i generi – dirò subito che è soprattutto il secondo ad avermi affascinato, per la maggiore complessità.
Sul primo non mi pare difficile prendere, almeno in linea di principio, posizione: credo, forse un po’ grossolanamente, che l’oppressione dell'uomo sulla donna non abbia matrice diversa dall'oppressione di classe e da quella razziale. E' lo scontro tra lo sforzo di possedere e fruire per l’appagamento dei propri bisogni e/o desideri l’altro che è – fisicamente, tecnologicamente o "politicamente"[ii] – più debole da parte del più forte, e quello del più debole di ribellarsi all'oppressione. E' la legge del più forte che mi pare domini, ove la si guardi con sguardo non idealizzante, spesso la natura (questo è peraltro un punto controverso tra gli autori del volume), ma che la cultura può (deve) impegnarsi a contrastare. Il rispetto della donna, dunque, si pone all’interno di un contesto più generale, e lo ricordano molti degli interventi, quello del rispetto per tutti. Ed è quanto, mi piace ricordare, emergeva tra le conclusioni più interessanti della Conferenza sul comunismo tenutasi all’inizio di quest’anno a Roma, che ha visto l’intervento oltre che dei più noti e vivaci esponenti del marxismo italiano e internazionale e di rappresentanti di realtà di base europee (greche e catalane in particolare), della rappresentante comunista delle sex workers francesi Morgane Merteuil: quella che lotta di classe, di razza e di genere rappresentano tre aspetti di un unico processo di emancipazione e di giustizia e non possono andare disgiunti. Il che mi sembra, se non altro sul piano concettuale, saldare un antico debito di non sempre sufficiente attenzione anche della sinistra verso le donne, e i loro movimenti di autovalorizzazione.
Ma la relazione tra i generi, invece, pone problemi più complessi nel cui merito entra, con lucidità e radicalità, il filosofo Remo Bodei, partendo dalla duplice improbabilità che caratterizza l’amore: quella di trovare, tra tanti uomini e donne, la giusta persona; e quella di esserne poi persino ricambiati. Già, perché l’altro può anche non ricambiarci senza perciò esserci necessariamente nemico; Cervantes lo fa spiegare con parole straordinariamente attuali dalla saggia Marcella sul cadavere di Grisostomo, che è protagonista di una reazione violenta a un intollerabile rifiuto, in quel caso diretta contro se stesso ma che può essere in altri casi diretta verso l’altra o anche verso entrambi[iii].
Bodei prosegue con l’osservazione che anche a chi è così fortunato da trovare soluzione al duplice problema, se ne pone un terzo: quello di trovare nella coppia equilibri complessi tra prossimità e autonomia, differenza e identità (e non si potrebbe trovare riferimento più appropriato del suo ai porcospini di Shopenhauer). Ancora, a rendere difficile una cosa nella quale siamo però per fortuna sempre disposti a buttarci con tanta incoscienza, il quarto problema è dare all’amore continuità in entrambe le direzioni il che, ahimè, non è scontato. Scriveva Cesare Pavese ne Il mestiere di vivere – e bisognerebbe sempre tenerlo presente per evitare reazioni troppo violente all’abbandono – che: “Non bisognerebbe mai dire: ti amo. Ma sempre: ti amo adesso”.  Il che mi pare assonante con quanto scrive, come ricorda Lea Melandri al termine del volume, Sibilla Aleramo a proposito del “fastidioso obbligo di vivere per sé” che anche nell’esperienza, aspirante alla fusionalità, dell’amore non ci abbandona; parole piene di buon senso, ma che difficilmente troveremo, le une e le altre, sui bigliettini dei baci Perugina né consiglieremmo di sussurrare all’orecchio dell’amata/o nei momenti più entusiasmanti dell’amplesso.
Il fatto che poi, Bodei ricorda giustamente, oggi sia anche lei a potere abbandonare o a permettersi di non tollerare – spesso solo temporanei, ma magari ricorrenti – abbandoni, sia anche lei cioè a poter prendere decisioni sulla coppia, contribuisce a rendere le cose maledettamente più complicate e, talvolta, pericolose di un tempo.
Ancora prigioniero del duplice stereotipo della donna-madre e dell’erinni, l’uomo sconta – ancora per Bodei – di fronte al femminile un’incompetenza amorosa che può rendergli difficile riconoscere la donna come singolarità e come soggetto, difficile rinunciare a possederla come si possiede un animale o addirittura un bene materiale, difficile riconoscerle insomma un “diritto di recesso”. Difficile comprendere che, anche per lei, in conclusione l’amore non può essere ”per forza”.
Bisogna amare rispettando, dunque. Ma questo lascia inevitabilmente aperta un’aporia alla quale comunque in amore non si sfugge, che poi sarà richiamata da Melandri nel suo intervento. Cioè come questo amore “rispettoso”, questo amore “appreso” in una sorta di educazione amorosa – al quale sì ci si può abbandonare, ma mai infondo del tutto! – possa essere ancora per l’amante esperienza della massima follia comune agli dei e agli uomini, disperazione e non calcolo, passione estrema che non si cura del rifiuto né dell’abbandono. Amore assoluto e eterno, insomma come, in certi momenti, ciascuno lo vorrebbe; al quale, con buona pace di Bodei, si addicono più le parole incandescenti del poeta che quelle del filosofo. E la possibilità dell’esperienza del dolore inconsolabile è, forse, indispensabile. Oppure dobbiamo arrenderci al fatto che all’uomo, che vive nel tempo, nulla di eterno e assoluto è dato; neanche l’amore se non, forse, il primo e antico, quello al quale fatalmente il tempo ci ha strappati e che è inutile (e pericoloso) cercare in altro grembo. Sul che si sofferma ancora Melandri, al cui intervento ritorneremo anche a questo proposito.
Sono temi, questi, su cui ciascuno si è interrogato sbocciando all’amore negli anni dell’adolescenza e non cessa di interrogarsi, più o meno consapevolmente, anche dopo, trovando le proprie (più o meno felici) soluzioni; e certo le parole di Bodei stimolerebbero ben più lunghe digressioni. Ma questo libro che parla dell’amore e delle sue contraddizioni è, come l’amore, geloso e ci richiama prepotentemente ad altre pagine avvincenti con la testimonianza della scrittrice Dacia Maraini, autrice nel 1990 del romanzo La lunga vita di Marianna Ucria che di violenza di genere dice pure qualcosa, la quale approfondisce altri temi complessi, dalla relazione tra uso della forza e fascino maschile, all’evoluzione della figura della donna nella nostra cultura, le possibilità di carriera, la maternità, l’allattamento, l’abbigliamento, l’uso mercenario del corpo. Un infanticidio del XVIII secolo, quello commesso a Bologna dalla ventenne Lucia Cremonini, è al centro della ricostruzione dello storico Adriano Prosperi che illumina sotto il profilo antropologico la condizione della donna, con il suo corpo affascinante e ingombrante, e dell’infante nella storia dal punto di vista delle contraddizioni e i problemi del suo essere insieme femmina e madre. Spetta poi alla giurista Milli Virgilio delineare il percorso della donna nel pensiero giuridico internazionale e comunitario e i suoi riflessi sul piano nazionale, con le significative novità seguite al cambiamento culturale degli anni ’70 e i problemi che permangono, mentre la demografa Maura Misiti ripercorre la storia di Ferite a morte, lo spettacolo teatrale ideato da Serena Dandini che ha contribuito, con la diffusione delle prime indagini sulla frequenza del fenomeno, a imporre il tema della violenza di genere all’attenzione sui palcoscenici italiani e globali.
All’intervista alla storica Paola Govoni sulle difficoltà che la donna incontra ancora nel modo della ricerca scientifica e all’intervento del bioeticista Carlo Flamigni sui temi della maternità e della genitorialità anche in relazione alla Legge 40,  segue quello della giornalista Daniela Minerva la quale affronta il problema della percezione della violenza di genere nella nostra cultura per denunciare come, nonostante la ben tardiva eliminazione del delitto d’onore dal codice penale nel 1981, siano ancora diffuse le tracce della sopravvivenza sotterranea della cultura che lo sosteneva nella rappresentazione mediatica della violenza di genere e nella società italiana, con la quale la prima sta in un rapporto di mutua produzione; forme di discriminazione linguista, che sono spia di quella cultura, sono oggetto anche del successivo intervento della linguista Cecilia Robustelli sulla relazione tra linguaggio e femminicidio.
L’intervento del sociologo Fabrizio Battistelli su sessismo e razzismo parte invece dagli eventi del capodanno tedesco 2015-16, un tema del quale ho avuto occasione di occuparmi all’epoca per questa rivista[iv], per poi rintracciare preziosi riferimenti nel mito cristiano di San Giorgio, la vergine e il drago, in quello greco di Andromeda e Perseo o quello ariostesco di Ruggero, Angelica e l’orca (è però un peccato che di quest’ultimo sia considerata qui solo la prima parte, il cavaliere che libera la vergine nuda dal mostro, e non l’ironia dell’Ariosto nel far sì che Ruggero, una volta liberatala, si senta in diritto a sua volta di possedere – sessualmente anziché oralmente – Angelica, costretta a sfuggirlo con l’anello fatato, uno strumento del quale purtroppo molte altre donne son prive: come a dire, è più facile difendere la donna dalla violenza altrui che dalla propria[v]). Alla relazione tra violenza dell’uomo sulla donna e guerra Battistelli guarda con altri due utili riferimenti: al recente conflitto jugoslavo e agli stupri seguiti alla presa di Cassino da parte delle truppe marocchine durante l’ultimo conflitto mondiale, resi celebri nel romanzo La ciociara, dei quali viene qui ben rappresentata la complessità di rimandi. L’intervento, davvero ricco, non trascura infine il dibattito sulla modernità in atto nel mondo islamico, del quale si sente raramente parlare, e si consente un coraggioso elogio del politically correct, la ricerca di un equilibrio ragionevole nella relazione con l’alterità, oggetto così spesso di stupido dileggio e banalizzazione.
Ancora la relazione tra guerra e violenza di genere è oggetto dell’intervento del giurista Marco Balboni il quale nota come la violenza di genere come forma di disprezzo della popolazione nemica sia di uso frequente anche nei conflitti recenti, ma come nella situazione bellica possa diventare più difficile per la donna anche difendersi dalla violenza perpetrata dagli uomini del proprio gruppo. Prosegue ricostruendo la legislazione internazionale sul tema, sostanzialmente inesistente prima del 1945 e caratterizzata da limiti importanti almeno fino alla recente istituzione dei tribunali per la guerra in ex Jugoslavia e in Ruanda.
Un altro intervento ricco per me di spunti è quello della psicoanalista Marianna Bolko, che parte da un tragico ricordo personale infantile e da una davvero suggestiva citazione da Tolstoj, e come già Bodei sembra cogliere nel problema di un’incapacità di amare l’origine della violenza di genere. Racconta Bolko di avere ritrovato, da adulta, la violenza di genere nelle compatriote stuprate nel corso del conflitto bosniaco, ma anche in episodi di cronaca giudiziaria italiana nei quali lo sguardo della legge su episodi di stupro si ripropone come uno, in qualche misura complice, sguardo maschile. Da persona capace di un’adesione al movimento psicoanalitico che ci è nota per il carattere originale e impertinente, Bolko coglie anche nell’immagine della donna di certa psicoanalisi il rischio di contribuire a generare quella confusione nella quale della violenza di genere si finisce per occultare il carattere, appunto, di violenza in una ben precisa direzione. All’origine, perciò, della violenza di genere, dallo stalking al femminicidio, coglie un problema di “normale” paranoia e di “normale” delirio – due termini che precisa correttamente di utilizzare qui, definendoli “normali”, nel senso di Freud, di una possibilità cioè di funzionamento della mente di tutti senza riferimento alla psicosi come intesa dalla psichiatria – che nascono come reazioni del maschio, reso dall’incapacità di amare l’altro anche nella sua libertà più vulnerabile alla ferita narcisistica del rifiuto o dell’abbandono. E’, del resto, ancora il paradosso con il quale l’amore si fa gioco di noi e al quale non è facile rassegnarci: un amore “per forza” rassicura ma non gratifica, a meno di non fingere con se stessi; ma un amore libero, lo è anche nella possibilità di non essere rassicurante. Perché scommettere sulla libertà dell’altro – della parte irrazionale dell’altro che sfugge alla sua stessa volontà e a ogni impegno e promessa – è un azzardo del quale dobbiamo essere consapevoli. Ha l’ebbrezza di un’avventura nel mondo dell’altro – nel mondo che è l’altro – ma ne ha anche i rischi e le sorprese (e in ciò, infondo, è il suo fascino).
Ma di nuovo il libro ci chiede,  gelosissimo, di non seguire la catena delle idee alla quale anche  il testo di Bolko ci tenterebbe, e procedere con Maria Grazia Ruggerini la quale sempre mantenendo la centralità del problema della violenza di genere che è, quasi sempre, violenza contro le donne si interroga sulla questione maschile – che ritorna poi come relazione tra identità stereotipate del maschile e del femminile e potere dell’uomo al centro del successivo intervento di Stefano Ciccone – e su esperienze originali e non così note, quelle dei centri per uomini maltrattanti che sono sparsi sul territorio e quelle pilota di trattamento dei sex offenders presenti in qualche struttura carceraria, come Bollate.
Ce ne sarebbe già più che abbastanza per fare riflettere a lungo, a questo punto. Ma invece ci pensa la scrittrice Lea Melandri, attenta a questi temi fin dai tempi de L’erba voglio di Elvio Fachinelli, a offrirci, come Bolko, generosamente squarci sulla sua personale esperienza infantile del problema e a rimescolare tutte le carte aggiungendo complessità a complessità, col ricordarci come amore e violenza siano tra loro anche indissolubilmente intrecciati in quell’enigma che è la sessualità e come la complicità del gioco erotico e il rischio dell’unilateralità della violenza stiano tra loro a volte in un delicato equilibrio in quei territori nei quali, come cantava un poeta della mia città, Fabrizio De André: «l’amore non era adulto, e ti lasciavo graffi sui seni». Così come si nutrono spesso reciprocamente, in una complessa interazione, visione maschile e femminile del mondo, sentimenti fastidiosi di dipendenza e bisogno di signoria dell’uomo di fronte alla ricchezza e al mistero del corpo della donna, polarizzazione tra l’identità dell’uno e dell’altra a partire da una zona opportunamente collocata tra natura e cultura e relazione tra la donna e la costruzione della sua identità all’interno di una storia che – dalla letteratura, alla filosofia, alla politica, alle scienze – è stata fino a ieri, salvo rarissime eccezioni, una storia costruita e narrata da uomini.
Conclude – e non conclude (non può concludere…) – questo prezioso volume collettaneo che finisce per trattare, intorno al tema della violenza sulle donne, quello molto più ampio della relazione tra gli uomini e le donne in cui essa si genera e parla quindi a ciascuno di se stesso, una nota con la quale la curatrice Valeria Babini – che abbiamo altrove apprezzato per il generoso impegno nell’offrire alla psichiatria e alla società italiane una migliore consapevolezza della propria storia[vi] – ripercorre in sintesi l’affermarsi, attraverso gli strumenti della letteratura e del lavoro scientifico, nel dibattito pubblico di un punto di vista femminile, divenuto più insistito e consistente solo dagli ultimi anni del XIX secolo, al quale anche questo corso e questo libro contribuiscono a dar voce.
E integra, infine, il volume il DVD Di genere umano con il quale il regista Germano Maccioni rende a chi, come il sottoscritto, non ha avuto l’opportunità di assistervi, il clima di un seminario partecipato e vivace che ha avuto il triplice merito di svolgere un’utile azione di educazione civile, contribuire a mettere a fuoco problemi che sono parte essenziale dell’esperienza di ogni donna e ogni uomo e di fare queste cose dando un esempio concreto di quell’interdisciplinarità che, dello spirito universitario, dovrebbe sempre costituire l’essenza. Buon 8 marzo, allora, e buona lettura!

 



[i] Segnalo con piacere che, mentre ultimavo queste note, un’amica insegnante, Carla Festa, mi raccontava di lavorare a un’iniziativa sullo stesso tema presso la scuola media genovese intitolata a don Milani; sono solo semi, certo, sparsi qua e là, ma se diventano tanti alla fine il raccolto potrà essere fruttuoso.   
[ii] Mi riferisco qui con questo termine alle strategie di organizzazione del potere attraverso le quali può accadere anche che una minoranza possa assoggettare una maggioranza, come avviene tipicamente nella società di classe o nel mondo coloniale.
[iii] Rimando sulla rubrica Pensieri sparsi di questa rivista a: P.F. Peloso, Omaggio a Miguel de Cervantes nel IV centenario della morte. Parte I: Impressioni storico-psichiatriche e antropofenomenologiche dalla I parte del Chisciotte,  postato il 22 aprile 2016 (clicca qui per il link).
[iv] Vedi ancora dalla rubrica Pensieri sparsi l’articolo: P.F. Peloso, Corpi eccedenti, corpi violati. Le donne di Colonia e i (vecchi e nuovi) fantasmi d’Europa (Monologo sull’Europa), postato il 19 gennaio 2016 (clicca qui per il link).
[v] Ancora dalla rubrica Pensieri sparsi rimando all’articolo: P.F. Peloso, Orlando: 500 anni di furia e di poesia. Parte I. Gli amori, postato il 5 ottobre 2016 (clicca qui per il link).
[vi] Ricordo, in particolare, due testi fondamentali per la storia della nostra psichiatria: V.P. Babini, M. Cotti, F. Minuz, A. Tagliavini, Tra sapere e potere. La psichiatria italiana nella seconda metà dell'Ottocento, Bologna, Il Mulino, 1982; V.P. Babini, Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2009.
 

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