HUMANA MATERIA
Sguardi e prospettive psicoanalitiche sulla disabilità
di Franco Lolli

PRESENTAZIONE di HUMANA MATERIA

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12 marzo, 2017 - 14:47
di Franco Lolli

Humana Materia è una rubrica che raccoglie i contributi di un gruppo di operatori da anni impegnati nel lavoro con persone affette da disabilità prevalentemente intellettiva (psicologi, psicoanalisti, educatori professionali, musico-terapeuti, esperti della riabilitazione, ecc.) accomunati dell’intento di promuovere una prospettiva culturale e clinica capace di affermare, sul piano etico, sociale e riabilitativo, la centralità assoluta della questione soggettiva nella persona disabile. Tale intento ha, nel tempo, dato vita ad un costante lavoro di comunità fatto di incontri tematici, di giornate di studio, di seminari di approfondimento, di produzione di scritti, in sostanza, di progressiva elaborazione e messa in forma di una teoria della prassi terapeutica applicata al campo della disabilità, orientata dall’insegnamento psicoanalitico di Jacques Lacan.
Humana Materia vuole essere il luogo in cui, attraverso la pubblicazione di parte del materiale prodotto dal lavoro di riflessione teorico-clinica, la Rete Nazionale Disabilità Intellettiva intende favorire un dibattito su alcune delle questioni fondamentali che l’attuale compulsione riabilitativa all’esclusivo potenziamento di attitudini (fisiche e intellettive) tende a marginalizzare: prima fra tutte, come già anticipato, la questione della soggettività del disabile. Svincolare il trattamento dalla prospettiva meramente prestazionale (potentemente dominante nel campo della riabilitazione) rappresenta un’urgenza primaria e la presa d’atto della necessità etica di affermare l’irriducibilità della persona disabile all’insieme delle sue performances. Limitare e focalizzare il discorso della cura all’applicazione di tecniche finalizzate all’acquisizione di capacità (cognitive, intellettive, motorie, di autonomia personale, ecc.) comporta, infatti, la scomposizione della complessità della persona disabile in una serie di competenze da sviluppare, in una somma di abilità da promuovere che ignora, di conseguenza, le implicazioni psichiche connesse alle eventuali carenze: che ignora, cioè, le ragioni del deficit (psichico o fisico) che eccedono quelle organiche, in altre parole, l’influenza esercitata dall’unicità e dall’irripetibilità della storia sulla condizione morbosa della persona con disabilità e, dunque, dal ruolo e dal peso che hanno avuto le sue relazioni familiari, la delusione delle aspettative che avevano anticipato la sua nascita, il posto che l’Altro gli ha riservato (spesso segnato da una perturbazione fondamentale del desiderio), le esperienze infantili, l’incontro con la sessualità, gli sguardi angosciati da cui si è vista guardata, il valore traumatico di alcune parole che l’hanno definita, il senso di impotenza con cui il suo corpo ha dovuto confrontarsi, la forza di una pulsione a tratti ingovernabile, i limiti insuperabili della propria condizione.   
Affrontare la questione della disabilità intellettiva orientati da una riflessione psicoanalitica, vuol dire porsi un interrogativo fondamentale  –  generalmente eluso – sull’esistenza dell’inconscio (o, per essere più precisi, sulle forme particolari che esso può assumere) in persone che sono, in maniera più o meno grave, compromesse dal punto di vista intellettivo e cognitivo. Si tratta di un interrogativo di enorme portata: l’esclusione di tale dimensione rischia di giustificare, infatti, una considerazione della persona disabile come ‘diminuita’ sul piano della sua umanità e valutabile esclusivamente dal punto di vista cognitivo-comportamentale – il che determina quello strano fenomeno che spesso capita di osservare in coloro che si prendono cura di disabili intellettivi per i quali ogni manifestazione di quest’ultimi è riconducibile semplicemente allo scarso livello intellettivo. È questo un rischio in cui gli operatori della riabilitazione possono facilmente incorrere; le raffinate tecniche di osservazione, le più avanzate analisi del comportamento, la scrupolosa stesura di piani di trattamento, l’elaborazione di protocolli terapeutici, tutto ciò si fonda, troppo spesso, sulla sola attenzione al piano del 'visibile'. Il dato fenomenicamente riscontrabile (e, in qualche modo, misurabile) sembra essere l’unico a suscitare un vero interesse, determinando, come suo effetto inevitabile, l'instaurarsi di un automatismo pregiudiziale che associa meccanicamente ogni manifestazione del disabile alla sindrome dalla quale è affetto. Ciò che viene a prodursi in tal modo è la sua catalogazione massificante, la sua collocazione artificiosa in una griglia diagnostica predefinita che cancella la particolarità soggettiva a favore dell'inserimento in uno schema seriale basato sulla rilevazione di affinità e somiglianze.
La clinica dell'insufficienza mentale diventa così una clinica del 'raggruppamento', una clinica dell'uniformità e della concentrazione. La diagnosi (medica o psicologica, poco importa), in questa ottica, non necessita di ulteriori ragionamenti o approfondimenti; le problematiche comportamentali, le difficoltà esistenziali, le impasse relazionali trovano una spiegazione sufficiente nella loro attribuzione al quadro morboso nel quale si sviluppano. Così, se la persona è aggressiva è perché è insufficiente mentale, se ha stereotipie è perché è insufficiente mentale, se si spoglia o si masturba in pubblico è perché è insufficiente mentale; la cortina abbagliante del visibile acceca l'osservatore rendendolo incapace di andare al di là di essa. Direi di più: viene negata l'esistenza stessa di un al di là del comportamento, ovvero di un suo possibile legame con una significazione che non sia necessariamente collegata alla patologia. Il senso della vita della persona disabile si consuma, pertanto, tutto sul piano della semplice determinazione diagnostica, svuotando di significato soggettivo ogni suo gesto. In altre parole, non è supposto un soggetto dietro la problematica cognitiva, relazionale, comportamentale, ma solo il deficit organico che ne dirigerebbe e ne condizionerebbe lo svolgimento in maniera predeterminata.
La nostra proposta intende mettere in discussione questo modello. L’esperienza maturata nel quotidiano contatto con persone disabili e l’attenzione ai dettagli che la nostra formazione psicoanalitica ci ha consentito di sviluppare hanno reso possibile una visione diversa, uno sguardo più interessato ai particolari solitamente ignorati, un desiderio di comprendere l’intenzione che si cela, ad esempio, dietro il comportamento definito problematico, il senso nascosto che è racchiuso nei classici  sintomi che si accompagnano alla disabilità (autolesionismi, ritiri sociali, aggressioni eterodirette, stereotipie, fobie, ecc.), l’aspetto difensivo dell’inibizione intellettiva, le ragioni di un rapporto perturbato con il sapere: in sostanza, la volontà di liberare – per quanto possibile – il soggetto disabile dalle proiezioni immaginarie del curante che, angosciato dalla propria impotenza al quale il reale dell’intrattabilità dell’handicap lo espone, spera di ribaltare maniacalmente il proprio vissuto depressivo in una compulsione al fare (ben rappresentata dalla tendenza a ‘terapeutizzare’ qualsiasi attività il disabile svolga, la cura del giardino, la passeggiata a cavallo, il lavoro a uncinetto, il disegno, ecc.) che giustifichi il proprio lavoro.
Nel provocare una discussione intorno a questi temi, il rischio di sconfinare in discorsi ‘politicamente scorretti’ è estremamente alto: una retorica collaudata governa il dibattito nazionale, esorcizzando posizioni e opinioni non conformi al pensiero dominante e manifestando chiaramente la propria irritazione e il proprio disappunto ogni qual volta si trova ad essere oggetto di critica. Il campo dell’handicap è sottomesso ad un’omogeneità culturale (alla quale concorrono tanto la psicologia quanto la sociologia, tanto la politica quanto la medicina, tanto i curanti quanto i familiari) i cui contenuti si fondano su affermazioni demagogiche che, mascherate dalle migliori intenzioni e dai migliori propositi, puntano, in realtà, a rassicurare le coscienze, a enunciare diritti che nella realtà il disabile intellettivo non potrà mai esercitare, a dichiarare principi inattuabili, a sostenere la possibilità di un’emancipazione impossibile. Temi quali l’inclusione, il diritto all’autodeterminazione, la sessualità, l’autonomia e così via, fanno parte di un repertorio ideologico che viene recitato ogni qual volta occorre camuffare l’irriducibile impotenza alla quale ci riduce il confronto con la condizione dell’handicap (tanto maggiore quanto più essa è grave): a questo riguardo, nel Manifesto con il quale abbiamo dato vita al nostro lavoro, abbiamo voluto sottolineare come “per quanto si cerchi spesso di piegare o di orientare il tema dell’handicap all’interno di una logica di tipo meramente funzionale, sforzandosi di ricondurlo a una dimensione di puro e semplice apprendimento, l’handicap grave, psichico o mentale che sia,  non può fare a meno di rivelarsi allo sguardo e alla sensibilità di chi sta intorno come una ferita profonda, insanabile al cuore stesso dell’essere del singolo individuo. La donna, l’uomo che, come si usa dire, sono portatori di un handicap appaiono come schiacciati da quel fardello che finisce per gravare su di loro come un peso troppo faticoso da poter reggere, senza che la soggettività dell’individuo non ne sia fortemente compromessa, invalidata. L’handicap non promuove una sfida, piuttosto mostra una realtà. Quella, cioè, di una personalità soggiogata da un male che non permette al disabile di potersi esprimere, di poter prendere in mano le chiavi della propria vita. E, non tanto,  per essere “normali”, per diventare come gli altri,  ma più semplicemente e radicalmente per essere sé stesso.”
La disabilità intellettiva ci obbliga a fare i conti con una condizione dell’umano che è, assai spesso, ritenuta ai limiti dell’umanità stessa: includere queste esistenze speciali e bizzarre nel registro dell’umano è il nostro compito. Humana materia è il titolo che abbiamo voluto attribuire a questa rubrica proprio per ribadire che, per quanto gravi le condizioni del disabile intellettivo possano essere (o apparire), è di materia umana che egli è fatto, di materia significante, di materia sensibile alla parola, di materia plasmata dal linguaggio, di materia reattiva, anche nei casi più compromessi, al sistema simbolico nel quale è, inevitabilmente, ‘a bagno’.

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