Un ristoratore a Lodi ha reagito a un tentativo di furto nel suo locale, sparando ai ladri e uccidendone uno, colpito alle spalle. Dopo una colluttazione, i ladri stavano abbandonando la loro impresa criminale. L’avvocato dell’uccisore, indagato per omicidio volontario, gli ha consigliato, con prudenza che sa di giurisprudenza, di dichiararsi costernato per l’accaduto. Atto propedeutico a definire non intenzionale l’atto omicida, a riferirlo alla particolarità del suo stato emotivo: lo shock per l’aggressione ai suoi beni avrebbe interferito con la sua valutazione della situazione offuscandola.
Il legale ha cercato di circoscrivere la difesa del suo cliente nell’ambito delle possibilità consentite dalla legge: l’omicidio preterintenzionale e l’eccesso di legittima difesa. Ai giudici la responsabilità di stabilire la definizione del reato e la pena giusta. Matteo Salvini, che della legge se ne sbatte allegramente -visto che gli è, altrettanto allegramente, concesso- è di un altro avviso. Per lui la giustizia si amministra in piazza nei suoi comizi. Uccidere un ladro disarmato, che non costituisce un pericolo per la nostra vita, è, secondo il codice penale leghista, “legittima difesa”. Un’impresa encomiabile, non un atto legalmente punibile.
Le affermazioni di Salvini (che si è fatto fotografare trionfante con il ristoratore dopo l’omicidio) non sono un’interpretazione palesemente fallace della legge: si costituiscono come apologia di reato, rappresentano un’istigazione all’omicidio indiscriminato, a una pena di morte amministrata personalmente nei confronti di chi minaccia la nostra proprietà privata. Solo se si tratta di un immigrato, questo va da sé.
Se l’Italia fosse ancora un paese di “diritto”, nel senso nobile del termine, come ci compiacciamo pensare, uno come il capo della Lega non dovrebbe essere a piede libero. Invece, va indisturbato in giro a lanciare provocazioni sempre più gravi, in virtù della “libertà di parola”, che applicata al suo caso diventa un guscio vuoto. Le parole in libertà mirate a creare un stato emotivo di massa che agisce come forza prevaricatrice, creando sopraffazione, nulla hanno in comune con la libertà d’espressione. Sono strumenti di manipolazione che minano l’ordinamento democratico e dovrebbero essere sanzionati con tutto il rigore necessario.
Di tutte le cose che giacciono sotto il cielo, la cosa più pericolosa è la stupidità umana. È di natura emotiva, non si misura con il Q.I. Insegue l’ottundimento del sentimento d’incertezza e abolisce le variazioni dell’esperienza. Il suo obiettivo è la stabilità psichica in se stessa, la semplificazione assoluta del vivere. Il realismo ne è la vittima più illustre. Rivendicare il diritto di difesa personale con le armi, serve solo a affermare il potere del più spregiudicato, che capita essere il più pazzo. Pensare di poter fermare il processo di globalizzazione alle soglie delle proprie case, invece di cercare di governarlo, serve solo a farsi travolgere.
La coltivazione di stupidità non rientra nella libertà d’espressione perché sfocia inevitabilmente nell’attacco ai diritti umani fondamentali (la differenza, la parità e la fraternità). Fa parte della stupidità umana pensare che le consultazioni elettorali e persino i sondaggi d’opinione possano contraddire i diritti fondamentali, come se il traffico su un ponte potesse fare a meno dei pilastri che lo sorreggono. È viltà verso la stupidità umana rifugiarsi nello spirito di tolleranza: un modo sicuro per esserne sommersi. Combatterla –prima che diventi tsunami- è previdenza (meglio della divina provvidenza).
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