PENSIERI SPARSI
Tra psichiatria, impegno civile e suggestioni culturali
50 ANNI DI “CORPO E ISTITUZIONE di Franco Basaglia”. Parte II: Il corpo e il serpente
27 marzo, 2017 - 00:03
Segue dalla I parte “Basaglia e Genova”. Clicca qui per andare all’inizio
Ma passando ora a una più puntuale esegesi del testo, riprendiamo dalla questione della distanza tra il “corpo anatomico” che il medico incontra nella relazione di cura e il “corpo vissuto” (o “corpo proprio”), che è reso tale dal legame indissolubile col suo mondo[i], del paziente, che fa sì che l’oggettivazione che ha luogo non sia caratterizzata da reciprocità ma a una sola direzione (il riferimento filosofico che rimane implicito è qui, evidentemente, all’hegeliana dialettica tra servo e padrone, che poi riecheggerà in altri punti del testo). Se questa modalità di incontro nasce nella relazione medica dall’essere articolata intorno al corpo sofferente del paziente, non trova come si è detto invece giustificazione in psichiatria, dove al centro dell’incontro non c’è un corpo malato, a meno che non sia ideologicamente presunto tale.
All’origine di questo bisogno di appiattamento del corpo proprio del malato su quello anatomico, del Lieb sul Körper, Basaglia ipotizza una reazione al sentimento di impotenza dello psichiatra che gli rende sgradevole il malato, involontario testimone del suo scacco. Con l’oggettivazione e medicalizzazione del corpo vissuto dell’altro, lo psichiatra cessa di incontrare un uomo con il quale relazionarsi e misurarsi, ma incontra un oggetto nel quale è più facile collocare la responsabilità dell’essere incomprensibile di una malattia, che ci si sente incapaci di afferrare, e tanto più di guarire.
All’origine di questo bisogno di appiattamento del corpo proprio del malato su quello anatomico, del Lieb sul Körper, Basaglia ipotizza una reazione al sentimento di impotenza dello psichiatra che gli rende sgradevole il malato, involontario testimone del suo scacco. Con l’oggettivazione e medicalizzazione del corpo vissuto dell’altro, lo psichiatra cessa di incontrare un uomo con il quale relazionarsi e misurarsi, ma incontra un oggetto nel quale è più facile collocare la responsabilità dell’essere incomprensibile di una malattia, che ci si sente incapaci di afferrare, e tanto più di guarire.
In questa operazione Basaglia individua il peccato d’origine della psichiatria positivista, e mi pare che tutto l’affannarsi nella ricerca di una causa somatica dimenticando la persona che ha caratterizzato la nostra storia dal momento in cui il paradigma degenerazionistico è andato soppiantando quello alienistico e il suo ottimismo prognostico, renda plausibile questa ipotesi. L’istituzione psichiatrica, nata come istituzione curante sia pure attraverso un intervento del quale era già evidente il carattere pedagogico e autoritario, si è trasformata così nello strumento perverso necessario a fare sì che il malato introietti gradatamente, attraverso un processo di “spersonalizzazione” (il riferimento esplicito è qui a Goffman[ii] e al suo Asylums, del quale i Basaglia avrebbero curato la traduzione per Einaudi l’anno successivo) quel rapporto oggettivante con la malattia come cosa estranea al corpo proprio, del quale la psichiatria ha necessità per costruirsi come scienza medica.
Abbiamo detto dunque delle responsabilità del paradigma degenerazionistico nel fatto che il riduzionismo medico avesse soppiantato l’originale matrice medico-filosofica dalla quale era nato l’alienismo. Ma per quanto riguarda invece l’idea che l’istituzione debba svolgere una funzione plasmante sul malato, da attuarsi ricorrendo se occorre a mezzi autoritari (suggestione, pedagogia, quando non addirittura meccanismi di premio e castigo) la responsabilità è più antica, e già presente all’origine dell’alienismo (o, come altrove ho avuto occasione di documentare, forse anche assai prima[iii]). L’istituzione psichiatrica (da quelle protomanicomiali, al manicomio, alle nostre), svolge infatti la duplice funzione di rinchiudere, separare, ma anche di trasformare e, una volta trasformato il soggetto, restituire guarito. Ed è in questa sua originale natura che Basaglia coglie un problema della psichiatria, nel tipo di rapporto che essa instaura con la libertà del soggetto: potrà farne l’oggetto del proprio intervento, e quindi coartarla per produrre quel soggetto svuotato che il manicomio classico produceva; potrà prenderne atto e lavorare, a lato di essa, per liberarla dalla malattia, come le nostre istituzioni (senza riuscire sempre a evitare di cadere nel primo atteggiamento) idealmente si proporrebbero con un intervento strettamente medico; o potrà promuoverla, incoraggiarla, come Basaglia per lo più sembra ipotizzare per la “nuova” istituzione, perché nella dialettica malattia/guarigione coglie sempre inevitabile un qualche rapporto con la questione della libertà.
Sta di fatto che la questione della relazione tra il corpo, la sua libertà e l’istituzione curante è un nodo che, in psichiatria, non può proprio essere eluso.
Il fatto che la funzione plasmatrice dell’istituzione sul malato e la malattia debba essere smascherata nei suoi effetti anche antiterapeutici non significa però, si premura di precisare Basaglia, che si voglia “negare che il malato di mente sia un malato”[iv], anche prima e a prescindere da essa. Il problema semmai è riportare all’istituzione psichiatrica - anziché alla malattia come in sé si presenterebbe - alcuni dei sintomi nei quali lui stesso si era imbattuto all’arrivo a Gorizia.
Quanto agli psicofarmaci, di recente introduzione allora, Basaglia attribuisce loro all’interno di questa dinamica un ruolo ambiguo, perché se da un lato la loro azione può attenuare i sintomi che anche l’azione istituzionale evoca nel soggetto e favorire così un intervento a carattere riparativo, dall’altra essa può aggravare la condizione di assoggettamento istituzionale, rendendo più passivo il malato e indebolendo la sua possibilità di reagire. E un altro riferimento esplicito di Basaglia è qui a Institutional neurosis, un testo pubblicato dallo psichiatra Russel Barton nel 1959[v] nel quale venivano studiate le caratteristiche della nevrosi istituzionale o, come la definiva Basaglia nel 1964, “istituzionalizzazione”[vi] (questo fenomeno, peraltro, è affrontato nella II appendice della Storia della follia di Foucault, nella quale si allude all’effetto silenziante dei farmaci con questa potente immagine: «negli ospedali la farmacologia ha già trasformato le camerate degli agitati in grandi acquari tiepidi»[vii]).
La cosificazione[viii] del malato nell’istituzionalizzazione, della quale sono state così proposte le possibili ragioni, non è priva di conseguenze anche per lo psichiatra e l’infermiere, i quali nel rapportarsi a un corpo così deanimato si spogliano a loro volta di quanto il loro stesso corpo proprio potrebbe esprimere nell’incontro[ix]. Diverrebbe così loro inaccessibile quella che Ludwig Binswanger, le cui considerazioni sono esplicitamente qui riportate[x], considera la maniera antropologica di approccio alla psicologia. Lo psichiatra rifiuta infatti nell’incontro con il malato le contraddizioni, le incertezze e l’unicità della realtà autentica del suo corpo vissuto, dando invece mandato all’istituzione di trasformare quel corpo vissuto in un corpo seriale, standardizzabile, pronto ad essere incasellato nel luogo previsto di una nosografia, e il riferimento ritorna così a Goffman. Ma, così facendo, lo psichiatra rinuncia anche alla possibilità di mettere in gioco se stesso come corpo proprio nell’istituzione[xi].
All’opposto, l’”incontro” che sarebbe necessario è quello al quale, come Basaglia aveva precisato un precedente contributo apparso sulla Rivista Sperimentale di Freniatria del 1954, Binswanger si riferisce con l’espressione Begegnung, cioè una conoscenza “esistenziale” dell’individuo. E in quell’occasione aggiungeva una citazione dello psichiatra e fenomenologo olandese Jan Hendrik Van Den Berg (1914-2012), per la quale l’incontro poteva essere ulteriormente precisato come “unità preriflessiva che unisce medico e malato”, dove per preriflessivo bisogna intendere: “l’attitudine di lasciar parlare tutto ciò che esiste per se stesso, dando la possibilità di mostrare ciò che è in realtà, vale a dire la sua essenza, il suo senso”. L’incontro, aggiungeva ancora Basaglia nel 1954, può essere considerato perciò: “un rapporto intuitivo nel quale si fonde l’unità del medico e del malato formandone una unica che precede le due singole entità”[xii].
Ora il malato, scrive Basaglia, soffre già di una perdita di libertà perché come tale può essere intesa la malattia (e il riferimento potrebbe essere qui a Henri Ey e al suo concetto della malattia mentale come patologia della libertà).
La malattia mentale, nell’idea che Basaglia qui espone, implica il venir meno dell’intervallo necessario per poter salvaguardare la propria intimità dall’altro che incontriamo[xiii]. E’ un modello che aveva trovato una più esplicita esposizione in un testo del corpus basagliano di molti anni precedente[xiv], e si basa oltre che su Binswanger anche su Husserl e sulla rilettura di quest’ultimo operata da Max Sheler. Secondo il quale, nella citazione che ne fa Basaglia, la percezione dell’altro avverrebbe in uno spazio di precomunicazione nel quale “le sue intenzioni giocano attraverso il mio corpo così come le mie intenzioni giocano attraverso il corpo altrui (…). E’ qui, nel mio costituirmi come “persona” che il mio corpo - aperto e vulnerabile - si staglia in mezzo agli altri e alle cose. E’ ora che è necessario che esso mantenga dall’altro e dalle cose una distanza sufficiente a permettergli di riconoscere nel proprio corpo la presenza dell’altro come alterità”[xv].
Si eviterebbe così quella promiscuità nella quale il soggetto perde la capacità di distinguersi come singolo e avverte di subire l’intenzionalità dell’altro senza essere in grado di intenzionarlo a propria volta. L’istituzionalizzazione, con l’oggettivazione che opera, gioca proprio lo stesso ruolo della malattia impedendo a propria volta al malato di regolare la distanza come avvertirebbe necessario, con l’alternare a sua discrezione la possibilità di offrirsi alla relazione e di ritirarsi, e imponendogli senza dargli tregua l’assillo d’incorporare in modo continuo la propria presenza. Il corpo del malato diventa un oggetto dell’istituzione, privo della possibilità di ripararsi dal suo sguardo in un umiliante panopticon[xvi], ed esposto alla possibilità di essere spostato da mani altrui da un luogo all’altro, di essere collocato, vestito di una divisa, lavato su iniziativa altrui, talvolta legato e slegato persino. E ha così luogo una seconda privazione di libertà, che si aggiunge o si sostituisce a quella originalmente determinata dalla malattia[xvii].
Nell’istituzione, il problema della reciproca incomprensione è risolto a priori a favore dello psichiatra, il quale stabilisce con un atto di prevaricazione qual è il discorso giusto (il suo)[xviii]; e pone il malato nell’alternativa tra adattarsi o essere abbandonato al livellamento e all’ammutolimento. Un po’ come, scrive Basaglia che poche righe oltre parlerà del malato come “colonizzato”, accade a un popolo vinto, il quale deve necessariamente adattarsi alla lingua del vincitore (è vero che le tematiche anticoloniali erano allora molto presenti nel dibattito, mentre infuriava la polemica sulla guerra del Vietnam, ma è possibile forse rintracciare qui anche tracce più specifiche della lettura di Frantz Fanon, che Basaglia citerà nel 1969 in Morire di classe).
Che questo processo di adeguamento all’istituzione sia prescritto, preteso dalla psichiatria Basaglia lo dimostra del resto ricorrendo a uno dei suoi massimi esponenti nei primi decenni del XX secolo, Eugen Bleuler, e a concetti da lui esposti - e che tanti considerano ancora oggi in psichiatria quasi sinonimo di guarigione, e altri all’opposto la risposta compiacente a un insopportabile esercizio di potere che non ha niente a che vedere con qualcosa di “scientifico” – come quelli di “adattamento” o di “coscienza di malattia”[xix]. Segnali invece, entrambi, per Basaglia della riuscita imposizione alla ragione del malato della ragione psichiatrica, e della rinuncia del malato al corpo proprio in favore di un corpo assoggettato e plasmato dall’istituzione.
L’istituzione tende a modellare dunque su di sé il malato, chiedendogli di sottostare passivamente a questa operazione[xx], e per meglio esemplificare questo concetto Basaglia ricorre alla favola orientale utilizzata in altro contesto dal sociologo Jurij Davydov per aprire un testo tradotto l’anno precedente dalla collana “Nuovo politecnico“ dell’editore Einaudi[xxi], la stessa dove sarebbero usciti nel 1968 L’istituzione negata e la traduzione di Asylums. Essa racconta di un uomo nel quale penetrò dalla bocca, mentre dormiva, un serpente che gli si insediò nello stomaco e prese possesso della sua volontà. Tra i due non esisteva reciprocità: l’uomo era intenzionato dal serpente, senza poterlo reciprocamente intenzionare. Un giorno, la favola prosegue, il serpente uscì da lui ma l’uomo, ritornato libero, scoprì di essere divenuto incapace di desiderare, di tendere a qualcosa, di agire intenzionalmente e autonomamente. Aveva perso il “contenuto umano” della propria vita ad opera del dominio del serpente-istituzione che un giorno lo aveva invaso e un altro giorno lo aveva lasciato libero, facendo l’una cosa e l’altra indipendentemente dalla sua volontà.
Oggetto di un potere assoluto, il malato non ha che un modo per cercare di dibattersi e sottrarsi al dominio tirannico dell’istituzione dalla quale è ingoiato e che inversamente gli penetra dentro il corpo, lo possiede da dentro costituendolo nelle sue caratteristiche: sforzarsi di mantenere un’intenzionalità (il riferimento esplicito è questa volta a Husserl[xxii]) opponendosi all’istituzione.
Nell’immagine: l’Ospedale psichiatrico di Gorizia
Segue la III parte “Deistituzionalizzazione” (clicca qui per il link)
Sta di fatto che la questione della relazione tra il corpo, la sua libertà e l’istituzione curante è un nodo che, in psichiatria, non può proprio essere eluso.
Il fatto che la funzione plasmatrice dell’istituzione sul malato e la malattia debba essere smascherata nei suoi effetti anche antiterapeutici non significa però, si premura di precisare Basaglia, che si voglia “negare che il malato di mente sia un malato”[iv], anche prima e a prescindere da essa. Il problema semmai è riportare all’istituzione psichiatrica - anziché alla malattia come in sé si presenterebbe - alcuni dei sintomi nei quali lui stesso si era imbattuto all’arrivo a Gorizia.
Quanto agli psicofarmaci, di recente introduzione allora, Basaglia attribuisce loro all’interno di questa dinamica un ruolo ambiguo, perché se da un lato la loro azione può attenuare i sintomi che anche l’azione istituzionale evoca nel soggetto e favorire così un intervento a carattere riparativo, dall’altra essa può aggravare la condizione di assoggettamento istituzionale, rendendo più passivo il malato e indebolendo la sua possibilità di reagire. E un altro riferimento esplicito di Basaglia è qui a Institutional neurosis, un testo pubblicato dallo psichiatra Russel Barton nel 1959[v] nel quale venivano studiate le caratteristiche della nevrosi istituzionale o, come la definiva Basaglia nel 1964, “istituzionalizzazione”[vi] (questo fenomeno, peraltro, è affrontato nella II appendice della Storia della follia di Foucault, nella quale si allude all’effetto silenziante dei farmaci con questa potente immagine: «negli ospedali la farmacologia ha già trasformato le camerate degli agitati in grandi acquari tiepidi»[vii]).
La cosificazione[viii] del malato nell’istituzionalizzazione, della quale sono state così proposte le possibili ragioni, non è priva di conseguenze anche per lo psichiatra e l’infermiere, i quali nel rapportarsi a un corpo così deanimato si spogliano a loro volta di quanto il loro stesso corpo proprio potrebbe esprimere nell’incontro[ix]. Diverrebbe così loro inaccessibile quella che Ludwig Binswanger, le cui considerazioni sono esplicitamente qui riportate[x], considera la maniera antropologica di approccio alla psicologia. Lo psichiatra rifiuta infatti nell’incontro con il malato le contraddizioni, le incertezze e l’unicità della realtà autentica del suo corpo vissuto, dando invece mandato all’istituzione di trasformare quel corpo vissuto in un corpo seriale, standardizzabile, pronto ad essere incasellato nel luogo previsto di una nosografia, e il riferimento ritorna così a Goffman. Ma, così facendo, lo psichiatra rinuncia anche alla possibilità di mettere in gioco se stesso come corpo proprio nell’istituzione[xi].
All’opposto, l’”incontro” che sarebbe necessario è quello al quale, come Basaglia aveva precisato un precedente contributo apparso sulla Rivista Sperimentale di Freniatria del 1954, Binswanger si riferisce con l’espressione Begegnung, cioè una conoscenza “esistenziale” dell’individuo. E in quell’occasione aggiungeva una citazione dello psichiatra e fenomenologo olandese Jan Hendrik Van Den Berg (1914-2012), per la quale l’incontro poteva essere ulteriormente precisato come “unità preriflessiva che unisce medico e malato”, dove per preriflessivo bisogna intendere: “l’attitudine di lasciar parlare tutto ciò che esiste per se stesso, dando la possibilità di mostrare ciò che è in realtà, vale a dire la sua essenza, il suo senso”. L’incontro, aggiungeva ancora Basaglia nel 1954, può essere considerato perciò: “un rapporto intuitivo nel quale si fonde l’unità del medico e del malato formandone una unica che precede le due singole entità”[xii].
Ora il malato, scrive Basaglia, soffre già di una perdita di libertà perché come tale può essere intesa la malattia (e il riferimento potrebbe essere qui a Henri Ey e al suo concetto della malattia mentale come patologia della libertà).
La malattia mentale, nell’idea che Basaglia qui espone, implica il venir meno dell’intervallo necessario per poter salvaguardare la propria intimità dall’altro che incontriamo[xiii]. E’ un modello che aveva trovato una più esplicita esposizione in un testo del corpus basagliano di molti anni precedente[xiv], e si basa oltre che su Binswanger anche su Husserl e sulla rilettura di quest’ultimo operata da Max Sheler. Secondo il quale, nella citazione che ne fa Basaglia, la percezione dell’altro avverrebbe in uno spazio di precomunicazione nel quale “le sue intenzioni giocano attraverso il mio corpo così come le mie intenzioni giocano attraverso il corpo altrui (…). E’ qui, nel mio costituirmi come “persona” che il mio corpo - aperto e vulnerabile - si staglia in mezzo agli altri e alle cose. E’ ora che è necessario che esso mantenga dall’altro e dalle cose una distanza sufficiente a permettergli di riconoscere nel proprio corpo la presenza dell’altro come alterità”[xv].
Si eviterebbe così quella promiscuità nella quale il soggetto perde la capacità di distinguersi come singolo e avverte di subire l’intenzionalità dell’altro senza essere in grado di intenzionarlo a propria volta. L’istituzionalizzazione, con l’oggettivazione che opera, gioca proprio lo stesso ruolo della malattia impedendo a propria volta al malato di regolare la distanza come avvertirebbe necessario, con l’alternare a sua discrezione la possibilità di offrirsi alla relazione e di ritirarsi, e imponendogli senza dargli tregua l’assillo d’incorporare in modo continuo la propria presenza. Il corpo del malato diventa un oggetto dell’istituzione, privo della possibilità di ripararsi dal suo sguardo in un umiliante panopticon[xvi], ed esposto alla possibilità di essere spostato da mani altrui da un luogo all’altro, di essere collocato, vestito di una divisa, lavato su iniziativa altrui, talvolta legato e slegato persino. E ha così luogo una seconda privazione di libertà, che si aggiunge o si sostituisce a quella originalmente determinata dalla malattia[xvii].
Nell’istituzione, il problema della reciproca incomprensione è risolto a priori a favore dello psichiatra, il quale stabilisce con un atto di prevaricazione qual è il discorso giusto (il suo)[xviii]; e pone il malato nell’alternativa tra adattarsi o essere abbandonato al livellamento e all’ammutolimento. Un po’ come, scrive Basaglia che poche righe oltre parlerà del malato come “colonizzato”, accade a un popolo vinto, il quale deve necessariamente adattarsi alla lingua del vincitore (è vero che le tematiche anticoloniali erano allora molto presenti nel dibattito, mentre infuriava la polemica sulla guerra del Vietnam, ma è possibile forse rintracciare qui anche tracce più specifiche della lettura di Frantz Fanon, che Basaglia citerà nel 1969 in Morire di classe).
Che questo processo di adeguamento all’istituzione sia prescritto, preteso dalla psichiatria Basaglia lo dimostra del resto ricorrendo a uno dei suoi massimi esponenti nei primi decenni del XX secolo, Eugen Bleuler, e a concetti da lui esposti - e che tanti considerano ancora oggi in psichiatria quasi sinonimo di guarigione, e altri all’opposto la risposta compiacente a un insopportabile esercizio di potere che non ha niente a che vedere con qualcosa di “scientifico” – come quelli di “adattamento” o di “coscienza di malattia”[xix]. Segnali invece, entrambi, per Basaglia della riuscita imposizione alla ragione del malato della ragione psichiatrica, e della rinuncia del malato al corpo proprio in favore di un corpo assoggettato e plasmato dall’istituzione.
L’istituzione tende a modellare dunque su di sé il malato, chiedendogli di sottostare passivamente a questa operazione[xx], e per meglio esemplificare questo concetto Basaglia ricorre alla favola orientale utilizzata in altro contesto dal sociologo Jurij Davydov per aprire un testo tradotto l’anno precedente dalla collana “Nuovo politecnico“ dell’editore Einaudi[xxi], la stessa dove sarebbero usciti nel 1968 L’istituzione negata e la traduzione di Asylums. Essa racconta di un uomo nel quale penetrò dalla bocca, mentre dormiva, un serpente che gli si insediò nello stomaco e prese possesso della sua volontà. Tra i due non esisteva reciprocità: l’uomo era intenzionato dal serpente, senza poterlo reciprocamente intenzionare. Un giorno, la favola prosegue, il serpente uscì da lui ma l’uomo, ritornato libero, scoprì di essere divenuto incapace di desiderare, di tendere a qualcosa, di agire intenzionalmente e autonomamente. Aveva perso il “contenuto umano” della propria vita ad opera del dominio del serpente-istituzione che un giorno lo aveva invaso e un altro giorno lo aveva lasciato libero, facendo l’una cosa e l’altra indipendentemente dalla sua volontà.
Oggetto di un potere assoluto, il malato non ha che un modo per cercare di dibattersi e sottrarsi al dominio tirannico dell’istituzione dalla quale è ingoiato e che inversamente gli penetra dentro il corpo, lo possiede da dentro costituendolo nelle sue caratteristiche: sforzarsi di mantenere un’intenzionalità (il riferimento esplicito è questa volta a Husserl[xxii]) opponendosi all’istituzione.
Nell’immagine: l’Ospedale psichiatrico di Gorizia
Segue la III parte “Deistituzionalizzazione” (clicca qui per il link)
[i] Nell’utilizzo di questa espressione, che prevale nel testo, ci pare di dover cogliere un riferimento implicito alla Filosofia della percezione scritta nel 1954 da Maurice Merleau-Ponty.
[ii] F. Basaglia (1967): Corpo e istituzione… cit., p. 431.
[iii] Ho avuto occasione di documentare questo meccanismo già in un’istituzione protoasilare di Costantinopoli, descritta intorno al 1535 da uno schiavo genovese alla corte del sultano: P.F. Peloso, Hospital care of madness in the Turk sixteenth century according to the witness of G.A. Menavino from Genoa, History of Psychiatry, IX, 1998, pp. 35-38.
[iv] F. Basaglia (1967): Corpo e istituzione… cit., p. 431.
[v] Ibidem, p. 431.
[vi] Cfr. F. Basaglia (1964), La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione, in Scritti… cit., vol. I, pp. 249-258 (p. 250).
[vii] M. Foucault (1961), Storia della follia nell’età classica, Milano, Rizzoli, 2011, p. 770.
[viii] Sull’uso di questo termine, sul quale Basaglia è assai preciso, ricordo: F. Basaglia (1965), Corpo, sguardo e silenzio, in Scritti… cit., vol. I, pp. 294-308 (p. 306).
[ix] Il tema era già stato trattato con maggiore diffusione in: F. Basaglia (1965), La “Comunità Terapeutica” come base di un servizio psichiatrico. Realtà e prospettive, in Scritti… cit., vol. I, pp. 259-282 (pp. 266-269).
[x] F. Basaglia (1967): Corpo e istituzione… cit., pp. 432-433.
[xi] Sul punto, cfr. G. Pizza, La questione corporea nell’opera di Franco Basaglia. Note antropologiche, Rivista Sperimentale di Freniatria, CXXXI, 1, 2007, pp. 49-67 (pp. 62-63).
[xii] Basaglia F. (1954), Su alcuni aspetti della moderna psicoterapia: analisi fenomenologica dell’”incontro”, Rivista Sperimentale di Freniatria, LXXVIII, n. 2, ora in: Scritti…. cit., pp. 32-54 (p. 34).
[xiii] Cfr. F. Basaglia (1965), Corpo, sguardo e silenzio… cit., p. 301.
[xiv] Ricordo qui la posizione di Binswanger illustrata, con particolare riferimento all’autismo, in: Basaglia F. (1953): Il mondo dell’”incomprensibile” schizofrenico attraverso la Daseinsanalyse, Giornale di Psichiatria e Neuropatologia, LXXXI, in Scritti… cit., vol. I, pp. 3-31 (p. 15).
[xv] F. Basaglia (1967): Corpo e istituzione… cit., p. 437. Sul punto cfr., per la particolare chiarezza: G. Stanghellini, C. Muscelli, Corpo, Sé, Altro. Note su “Corpo, sguardo, silenzio" di Franco Basaglia, Rivista Sperimentale di Freniatria, CXXXI, 1, 2007, pp. 37-48 (pp. 41-42).
[xvi] Sull’importanza di questo punto anche in riferimento alle teorie di Erwin Straus e, indirettamente, Jean Paul Sartre, cfr. F. Basaglia (1965), Corpo, sguardo e silenzio… cit., p. 299.
[xvii] Basaglia ribadisce così quanto aveva già sostenuto in: F. Basaglia (1964), La distruzione dell’ospedale psichiatrico... cit., p. 250.
[xviii] Appare qui evidentemente implicito un riferimento alla famosa Lettera ai primari dei manicomi, redatta probabilmente da André Breton nel 1925, al quale aveva fatto riferimento in: F. Basaglia (1964), La distruzione dell’ospedale psichiatrico... cit., p. 249. Sul rapporto tra Basaglia e il surrealismo cfr.: S. Mistura (2000): Sei tesi su Franco Basaglia, in: L'eredità dispersa. Saggi e conferenze 1967-2007, Piacenza, Scritture, 2007, pp. 331-350 (pp. 346-350).
[xix] F. Basaglia (1967): Corpo e istituzione… cit., p. 435.
[xx] Basaglia si soffermava in un precedente scritto su questa condizione di passività del malato descrivendolo: «schiacciato dall’ospedale stesso, chiuso (per la sua tutela e quella della società) da grate, sbarre, cancelli, chiavi; costretto in uno spazio limitato perché più sicuro e più controllabile; impedito in ogni movimento, in ogni desiderio, in ogni progetto; indotto alla sottomissione, alla apatia, alla perdita di individualità che lo hanno portato a un graduale rimpicciolimento del proprio Io, già ridotto e ristretto dallo stato morboso di cui soffre» (Basaglia F. [1965], Potere ed istituzionalizzazione. Dalla vita istituzionale alla vita di comunità, in: Scritti… cit., pp. 283-293).
[xxi] Cfr. J. Davydov, Il lavoro e la libertà. Una teoria della società comunista, Torino, Einaudi, 1966, pp. 15-16.
[xxii] F. Basaglia (1967): Corpo e istituzione… cit., p. 437.