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Sulla psicopatologia in rete – Appunti

27 Mar 17

A cura di antonello.sciacchi16

 

Per analizzare il funzionamento delle masse telematiche, in particolare di quelle ospitate dai e attive nei social network, può esser utile riprendere la nota distinzione tra enunciato ed enunciazione. La ripropongo nei termini della teoria sociale di Niklas Luhmann.

 

Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione non comporta un semplice aumento quantitativo della comunicazione, ma ne modifica anche le modalità. Il punto su cui una tale modificazione fa leva può essere colto tenendo conto del fatto che la comunicazione presuppone che venga recepita la differenza tra atto del comunicare [l’enunciazione] e informazione [l’enunciato]. […] L’avvento della scrittura impone una chiara differenza fra l’atto del comunicare [comunicazione] e l’informazione [comunicata]. La stampa tipografica rafforza ulteriormente il sospetto, suggerito dalla peculiare qualità del comunicare, che l’atto con cui si comunica segua motivazioni proprie e non sia semplicemente a servizio dell’informazione. Solo il diffondersi della scrittura e della stampa tipografica suggerisce di connettere tra loro dei processi di comunicazione che non reagiscono all’unità fra atto del comunicare e informazione ma piuttosto alla differenza che li divide: processi di controllo della verità, processi di manifestazione di un sospetto con la successiva generalizzazione del sospetto in direzione psicoanalitica e/o ideologica.

 

In seguito adotterò un presupposto ancora tratto da Luhmann: “La comunicazione [l’enunciazione] non può essere osservata direttamente, ma soltanto intuita.” Per addentrarmi nella sua psicopatologia l’intuizione che propongo alla discussione è che in rete la comunicazione patologica avvenga tra due soggetti che eserciterebbero l’attività comunicativa in forma paranoica, il primo selezionando informazioni, il secondo comprensioni, secondo schemi di conferma prestabiliti. Preciso subito che in questi appunti prescindo dalla “fisiologia” della comunicazione e che per “patologia” intendo “paranoia” in senso più largo dell’usuale; la intendo alla Lacan come fattore costitutivo della personalità (sia individuale sia collettiva), a sua volta intesa come sistema sociale visto dall’ambiente in cui essa vive. In concreto, definisco paranoia ogni “pensiero forte”, più o meno sistematico e auto-corroborante, che l’esperienza può solo confermare e mai confutare. Si chiama delirio ed è la contropartita psicopatologica della congettura scientifica, che invece è confutabile. Nella paranoia così definita rientrano automaticamente, in quanto verificabili ma non falsificabili, cioè in quanto incontrovertibili, tutte le ideologie, tutte le dottrine del “vieni e vedi” e tutte le mitologie, dalle religiose, alle politiche fino alle psicologiche, tra cui spiccano per rigidezza dottrinaria quelle alla base delle associazioni psicoanalitiche, a prescindere da orientamenti e contenuti. Ai due estremi del canale informativo, all’ingresso l’informazione è data per confermare l’ideologia, all’uscita la comprensione funziona per convalidarla collettivamente, nelll’ambito delle aspettative che hanno dato origine alla comunicazione.

Tuttavia, prima di manifestarsi come patologia, la paranoia ha un’origine fisiologica; la sua funzione sociale è di blindare le certezze della vita quotidiana e professionale, che non può prendere decisioni nell’incertezza. Il grado zero di paranoia è strutturale: garantisce il controllo dell’insicurezza e dell’aleatorietà esistenziali (riduzione dell’entropia e conservazione dell’ordine). Nell’esercitare questa funzione di conservazione – diciamo di destra –, la paranoia della conferma si contrappone alla pratica scientifica del “pensiero debole”, che non conosce incontrovertibilità e opera con dubbi e incertezze congetturali. (La scienza può prendersi il lusso di non decidere nell’immediato e aspettare le confutazioni a venire, a prescindere da urgenze pratiche.) La radice della diffusa, a vario titolo, resistenza alla scienza (anche tra scienziati!) affonda nel terreno paranoico delle certezze acquisite e della scala dei valori riconosciuti, che la scienza potrebbe destabilizzare.

Il Web è un terreno di coltura favorevole alla paranoia della conferma e sfavorevole alla promozione della scientificità. Di fatto la rete è invasa da informazioni pseudoscientifiche sempre più consolidate. Come racconta Quattrociocchi, tentare di smentire una bufala in rete la rinforza al punto che, passando di conferma in conferma, diventa virale; è il contagio paranoico che si autoalimenta grazie a una sorta di principio forte di ragion sufficiente, che a ogni effetto attribuisce una sola causa – quella riconosciuta giusta tra i temi archiviati nella riserva semantica dell’ideologia adottata. Valga per tutte la campagna anti-vaccinazioni.

Come si sa, la psicopatologia prevede due assetti paranoici, contrapposti ma sostanzialmente equivalenti: il delirio di grandezza (o di inferiorità) e il delirio di persecuzione. Entrambi si radicano nel narcisismo. Nel delirio di grandezza (di inferiorità) l’io è tutto a sé stesso (affermato o negato); nel delirio persecutorio l’io è l’oggetto (masochista) della persecuzione dell’altro (sadico). In entrambi i casi non esiste vero oggetto. Detto alla Luhmann nei termini dell’interazione probabilistica (o “doppia contingenza”) della coppia sistema sociale/ambiente, nel delirio di grandezza il sistema individuale prevale sull’ambiente; viceversa, in quello di persecuzione l’ambiente prevale sul sistema individuale.

Nei social sono egualmente rappresentati entrambi i deliri in versione allargata dall’individuale al collettivo. Non dispongo di statistiche precise. Forse in rete il delirio contro l’altro è meno frequente di quello per cui l’altro è l’universale recettore delle mie esternazioni, chiamato a testimoniare la validità sociale della mia comunicazione (io comunico, perché comunico), non tanto a confermare l’informazione trasmessa, che non ha bisogno di conferme, se esiste. In rete i due deliri hanno apparentemente la struttura dell’atto comunicativo: digito perché l’altro mi intenda. È una figura di transfert: io suppongo che l’altro cui mi rivolgo, l’altro singolare o l’altro universale, cioè l’altro generalizzato secondo G. Herbert Mead, recepisca e convalidi il mio messaggio (se esiste). Il punto critico della comunicazione in rete è la supposizione originaria che il messaggio da me digitato sia recepito da tutti; infatti tale supposizione è semplicemente falsa.

Partire dal falso potrebbe essere un buon inizio, quasi scientifico. Il guaio è che nella paranoia il falso non ha luogo, perché è impensabile dal delirio, che pensa di pensare il vero e di confermarlo sempre e comunque. “Non sembra possibile opinare (doxazein, immaginare, congetturare, credere) il falso”, dice Socrate a Teeteto, perché è impossibile pensare ciò che non è, essendo l’essere la precondizione del vero. Quindi in rete il delirio si autoalimenta a spese di una “verità oggettuale” inesistente, giustamente detta virtuale. La sua caratteristica è diffondersi in estensione tanto più quanto più si indebolisce in intensione.

Le paranoie complottiste, così frequenti in rete, forse più frequenti che nella vita reale (non ho statistiche in proposito), unificano nell’inconsistenza i deliri di grandezza e di persecuzione. I deliri collettivi sono una sorta di produzione stereotipa di senso, che si attiva in modo automatico alla frontiera tra sistema sociale e ambiente, quando il sistema si impoverisce di funzioni autopoietiche; allora il sistema cessa di accrescere la propria complessità, evolvendo e differenziandosi, e rischia di deperire fino a collassare in qualche automatismo di ripetizione e sparire dal proprio ambiente come soggetto.

Nel falso presupposto che tutti i nodi della rete siano disponibili ad accogliere la mia comunicazione si formano i canali ambientali per la diffusione di informazioni false ma credute vere da chi le mette in circolazione. Nel loro libro Misinformation. Guida alla società dell’informazione e della credulità Walter Quattrociocchi e Antonella Vicini evidenziano bene la funzione psichica della “volontà di credere”, già proposta da William James come asse portante della psicologia umana, innervata da una robusta componente di volontà di ignoranza (o di resistenza al sapere). Ditemi se non c’è una certa paranoica volontà di credere anche in me, qui e ora; è proprio lei che mi porta a pubblicare in rete esattamente in questo momento, perché tutti leggano e recepiscano la mia ideuzza sulla paranoia dei social, in cui credo fermamente. Non scriverei quello che scrivo se non ci credessi. Non si scappa alla sentenza freudiana: “I paranoici amano il loro delirio più di sé stessi”, scriveva Freud a Fliess il 24 gennaio del 1895 (Minuta H), quando i computer erano ancora da inventare. Con Freud il discorso sulla psicopatologia collettiva si ridurrebbe all’individuale.

Del tutto? Io credo che la riduzione del collettivo all’individuale, tipica della Massenpsychologie freudiana, sia nel caso particolare della paranoia quantitativamente vera, anche se emergono differenze qualitative. La volontà di credere il falso, proprio perché impossibile, ha la stessa forza di convinzione e di assoggettamento sia a livello individuale sia collettivo. Nei due soggetti vige la stessa psicologia con la stessa energia psichica, la stessa libido, secondo Freud. Il problema è che per Freud la libido è un’energia sessuale. Ma qual è il sesso collettivo? Quello distribuito dai media soprattutto in termini esibizionisti e voyeuristici? O bisogna pensare alla Jung che la libido sia un’energia psichica indifferenziata, capace di dar vita ai simboli della trasformazione?

Problema aperto.

Per affrontarlo partirei dalla definizione negativa di “oggetto rete”, data da Billy Gates e qui ricordata da Francesco Bollorino (http://www.psychiatryonline.it/node/6652): la rete è un oggetto senza resistenza. Cosa si intende? Forse non è un oggetto, ma è uno spazio cavo predisposto ad accogliere qualunque mia proiezione narcisistica, da quelle persecutorie alle megalomaniche? Forse si intende oggetto immateriale, cioè infinitamente penetrabile. Fosse semplicemente così non ci sarebbe da inventare una nuova psicopatologia di rete. Invece in rete si assiste a una patologia non nuova ma rinnovata nelle modalità di diffusione, una variante collettiva della paranoia individuale: il complottismo.

Chiaramente, per spiegare il complottismo, la classica teoria freudiana della paranoia come effetto di ritorno dell’omosessualità rimossa, rovesciata dall’amore nell’odio, non regge, perché è dubbio che esista l’omosessualità collettiva, addirittura rimossa (anche se è facile pensarla come banale semplificazione, per esempio nel mito freudiano dell’orda primordiale). Tuttavia forse proprio Freud ci ha già involontariamente consegnato un modello ante litteram della patologia di rete, un modello interno alla stessa rete, almeno nel suo utilizzo compulsivo. Mi riferisco al gioco nella sua versione coatta.

In rete esiste il gioco patologico: la ludopatia. I videogiochi che portano tanti alla rovina sono un dato di realtà che, tuttavia, non deve oscurare che la rete stessa è il tavolo da gioco per un gioco coatto. Tu rischi tranquillamente il divorzio pur di continuare a digitare sullo smartphone anche a letto con tua moglie. Qual è il modello della coazione digitale? Chiaro, la masturbazione. Digit, dito (3/4 di pollice), onanismo. La cifra è questa ed è questo che conta. Freud stesso segnalerebbe questa sequenza interpretativa, se dovesse oggi riscrivere Dostojewski e il parricidio (1928) sul suo sito Web. L’onnipotenza del significante si regge su nient’altro che sul peu de réalité. “Il ‘vizio’ dell’onanismo è sostituito da quello del gioco; rivela la pertinenza di questa deduzione l’importanza dell’appassionata attività delle mani. In realtà la febbre del gioco è l’equivalente dell’antica coazione alla masturbazione; nella stanza dei bambini si dice ‘giocare’ per dire l’attività delle mani con il genitale”. Ma la masturbazione è un gioco sessuale senza un oggetto che resista o lo freni.

La comunicazione paranoica senza oggetto si fonde in rete con il gioco onanistico, pratica sessuale senza oggetto. Chissà quale può essere il punto di commutazione tra i due giochi? Sembra inevitabile pensare alla madre e all’accudimento del figlio. La rete come grande madre uroborica spiega forse troppo; di certo spiega bene la facilità dell’accesso autoerotico alla sessualità, addirittura collettiva, come avatar della “cura” dei figli. Le carezze della madre diventano toccamenti del figlio; i figli ora toccano il “topolino” … ma del computer o lo schermo del cellulare (con liberazione di dopamina ed endorfine?). Il senso di colpa per la masturbazione collettiva si traduce allora nell’innocua paranoia complottista all’insegna del motto: “Noi ci masturbiamo, voi ci spiate”. Il complotto degli hacker è la novità dei nostri giorni.

Sì, forse la sessualità collettiva in rete è in generale e per lo più masturbatoria. A livello collettivo sarebbero attenuate le interdizioni castranti e sarebbe addirittura incentivato l’onanismo di massa. Il singolo godrebbe diluendo il proprio senso di colpa su tutti e su nessuno. È un’app che funziona egregiamente. La rete non offre resistenze; non dice mai di no; è penetrabile come la prostituzione, che da millenni esercita un’equilibrante funzione sociale nel controllo delle pulsioni, regolandone la ripartizione tra dimensione individuale e collettiva. La conferma è sempre a portata di mano; è alla mano, appunto. Nella teoria freudiana delle masse l’onanismo collettivo sembra addirittura un esito scontato; in mancanza di interazioni dirette tra singoli – non esiste rapporto sessuale, direbbe Lacan – sussistono solo interferenze indirette, mediate dall’identificazione all’ideale comune. Come si sa, la masturbazione pratica l’ideale e, viceversa, l’idealismo è un pensiero onanistico.

Qui torno alla teoria sociale sistemica per proporre una prima conclusione al discorso della conferma paranoica nel caso della comunicazione senza oggetto. La conferma a vuoto è ancora una conferma valida? Pare di sì. Si comunica in rete, ma la patologia della rete non comunica alcun messaggio. La patologia è l’autoriferimento della comunicazione che comunica sé stessa. Il messaggio resta in mano come nell’onanismo ma la comunicazione vuota regge in quanto comunicazione.

Se è vero, come afferma Luhmann, che “un sistema sociale si costituisce come sistema d’azione usando la comunicazione quale processo di fondo e ricorrendo ai suoi strumenti operativi”, la rete vira alla patologia quando si configura come sistema sociale vuoto che comunica sé stesso senza comunicare informazioni: enuncia nessun enunciato. Si dice virtuale, cioè senza (r)esistenza, ma si intende allucinatorio. La rete avrebbe, allora, come esito patologico specifico della paranoia della conferma l’allucinazione collettiva, cioè una percezione senza oggetto; costruisce un “oggetto” non resistente e penetrabile (sostituto sintomatico della penetrazione) non comunicando altro che sé stessa autoreferenzialmente, quindi auto-confermandosi automaticamente. Ancora con Luhmann si potrebbe dire che in rete si realizza una patologia quando vien meno l’interpenetrazione (Interpénétration) dei sistemi psichici e dei sistemi sociali; nella comunicazione vuota i sistemi non si offrono reciproci elementi di complessità da elaborare ulteriormente ciascuno per sé e per tutti.

Le tesi qui appuntate sono un primo abbozzo da sviluppare collettivamente. Propongono una sola certezza negativa: non sono un argomento per chiudere una pagina fb o per non aprirne una nuova.

 

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2 Commenti

  1. admin

    una precisazione
    una precisazione indispensabile: la mancanza di resistenza evocata da Bill Gaters si riferisce agli “oggetti” virtuali e questa “mancanza” che è uan copnnotazione indispensabile per la definizione di oggetto nel “reale” costituisce un dato su cui meditare a fondo.
    Io sono convinto che affrontare il tema della psicopatologia del virtuale e nel vituale sia importante e come dice Antnello da non esaurire con uan battuta o un drammatico “mi piace” apposto sotto un titolo in un post su Facebook

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  2. antonello.sciacchi16

    Segnalo il trattato di
    Segnalo il trattato di Gilbert Simondon, definito pensatore atipico dall’accademia, su “L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e di informazione” (1964, a c. G. Carrozzini, Mimesis, Milano-Udine 2011, pag. 789) che sviluppa e anticipa in parallelo a Luhmann le nozioni di interazione tra sistema e ambiente in termini di preindividuale e transindividuale. Di Simondon è utile consultare anche “Du mode d’existence des objets techniques” (Aubier, Paris 1958, pag. 250), che analizza la nozione di cultura dal punto di vista della produzione tecnica. Insomma, Homo ergaster ha preceduto Homo sapiens. Il succo dell’argomentazione di Simondon è che nella produzione tecnologica la causalità è ricorsiva; la causa avviene nel futuro, nel senso che l’effetto produce la propria causa; non preesiste nel passato; nel presente è anticipazione, puramente virtuale. La nozione di virtuale getta luce sull’operare della rete.

    Getterebbe ulteriore luce la teoria matematica dei grafi random, inaugurata dal grande matematico ungherese Paul Erdös, dove valgono teoremi semplici da enunciare ma difficili da dimostrare come questo: in un insieme infinito di grafi esistono sempre almeno due grafi, uno minore dell’altro. Per dimostrarlo Robertson e Seymour hanno scitto un libro di 500 pagine.

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