Trattare i bisogni primari come diritti inalienabili è un errore.
Essi sono finalizzati al mantenimento del substrato puramente biologico dell’esistenza. I diritti, invece, presumono la costituzione di una comunità politica, l’istituzione della Polis. Sono legati al desiderio e non ai bisogni.
La norma che protegge il “diritto alla vita”, cioè il divieto di uccidere, chiarisce la questione. Quando questa norma è legata ai bisogni, ha un fondamento incerto. Non si uccidono i membri del proprio gruppo (famiglia o tribù), i servi di un padrone, i sudditi di un sovrano. Ciò nuocerebbe alla soddisfazione dei bisogni del gruppo e al potere che lo sorregge, lucrando sulla soddisfazione dei bisogni. Tuttavia, il divieto di uccidere non implica il riconoscimento di un diritto alla vita come valore fondamentale. Il bisogno primario non si traduce di per sé in un diritto. Non c’è nessuna legge che impedisca che le persone muoiano di carestia o di stenti. E nella grande maggioranza dei paesi del mondo, compresi gli Stati Uniti, la democrazia più potente, la pena di morte regna sovrana.
I diritti sono un derivato sociale del desiderio.
Se le loro condizioni materiali sono sufficientemente buone, gli esseri umani non perseguono solo il restare in vita godendo di piaceri semplici, del sollievo prodotto dalla scarica dalle tensioni.
Apprezzano il piacere più complesso, intenso e profondo che viene dal persistere delle tensioni e dal gioco delle trasformazioni ad esso connesso. Imparano a gustare la vita, piuttosto che sfamarsi, e scoprono ciò che era in attesa di essere riconosciuto: i legami tra gli esseri umani in termini di sensualità/eros, emozioni, sentimenti, pensieri, idee sono la fonte di gran lunga più importante del godimento. Proteggere il desiderio dell’altro, portando il contratto con lui ben al di là del rispetto della vita (che convive senza problemi con lo sfruttamento e l’abuso), è la condizione fondante della Polis, per quanto essa non si dia alla vista e resti per diversi aspetti incompiuta, sempre minacciata da bisogni prioritari (o supposti tali) che la oscurano.
Il diritto è indissociabile dalla soggettivazione dell’esperienza ed essa è, a sua volta, inseparabile dal dispiegamento del desiderio: l’esposizione, apertura (che contempla il rischio) all’oggetto desiderato. L’appagamento del bisogno non è di per sé esperienza soggettiva. Può essere de-soggettivante –quando diventa scarica pura che riduce l’altro a protesi inanimata- ed è soggettivato solo se associato al piacere erotico della vita.
Dove sono dominanti, i bisogni primari sono rispettati secondo convenienze materiali e il loro rispetto non ha carattere assoluto: fa parte della sua logica di contingenza l’essere oggetto di restrizioni e revoche. Solo il desiderio impegna soggettivamente e questo impegno nei confronti dell’altro, che non è obbligo di legame, non è revocabile. Non soggiace a limitazioni, ma è universale, perché insegue le differenze – altrimenti la soddisfazione si satura – e non può negare a nessuno la potenzialità di oggetto desiderato. Il rispetto della differenza va di pari passo con la parità dei soggetti nella relazione di desiderio – senza la quale la soddisfazione non è possibile – e con la fraternità degli esseri umani che sono fatti della stessa materia di sensazioni corporee, emozioni e sogni.
Differenza, parità e fraternità sono i tre diritti fondamentali.
Senza il loro rispetto, la libertà scivola nell’arbitrio e la ricerca di un personale coinvolgimento e godimento profondo (il vivere che non è sopportazione o distrazione) diventa inganno.
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