Il 1 maggio mi pare una buona occasione per rimettere la testa, dopo un po’ che non lo facevo, sulla questione degli inserimenti lavorativi in psichiatria. Lo spunto è stato l’invito da parte di Giorgio Pescetto, presidente dell’Associa-zione Ligure Familiari Pazienti Psichiatrici, a parlare di questo argomento qualche giorno fa a Sampierdarena a un gruppo di volontari in formazione, che avrebbero poi dovuto costruire dei progetti. Mi si è posto il solito dilemma di queste occasioni: ché dire, che non sia già stato detto alla nausea, o non suoni ovvio e serva invece a insinuare dei dubbi? Perché poi, è mia opinione che è difficile dire nel campo della riabilitazione, perché nel campo della riabilitazione più che da dire c’è da fare. Così, in una notte insonne mi sono venute in mente 5 tesi impertinenti, 5 modi notturni di provare a confutare altrettante affermazioni che riflettono un certo modo diurno e compassato di pensare nella riabilitazione, almeno dalle mie parti non inusuale. 5 tesi che, credo, dicono cose che non sono verità assolute, ma sono solo cose che si potrebbero anche pensare (così come è legittimo pensare il loro opposto). Così, in questa forma impertinente, semionirica e notturna le ho messe giù per i lettori di Pol. it; ma non prendiamole poi troppo sul serio! Perché certo lo so anch’io che una persona allucinatissima, o sprofondata nel baratro della depressione, o saltellante nella levità dell’umore maniacale non potrà lavorare tanto bene, o che nessuno nasce imparato (e chi vive un lungo episodio psicotico può perdere anzi un po’ di quello che imparato aveva prima) e perciò un po’ di formazione male può non fare. Basta che non si esageri. Prendiamole pure come 5 modi per rompere le balle, ma lasciamole lavorare un po’ dentro di noi; per non fidarci troppo delle cose ovvie e non esagerare nella tentazione cui ci è così difficile sottrarci di progettare la vita degli altri.
Per inserire al lavoro una persona affetta da psicosi, dobbiamo essere certi che sia abbastanza sana da non esporla inutilmente al fallimento.
No, per chi vive l’esperienza della psicosi così come per chi vive in senso generale, il vero problema è l’abitudine alla noia, non la delusione del fallimento; il fatto di avere delle chance e scoprire eventualmente di non farcela è la vita, la vita di tutti. Se una persona non è sola, se è adeguatamente accompagnata e sostenuta, la delusione è una possibilità così come il successo; in ogni caso un rischio preferibile alla certezza della noia. Non è così pericoloso, per una persona, salire ad alta quota e provare a volare; il trucco è che abbia il paracadute, e il paracadute possiamo essere noi. Come una vitale corrente del pensiero psichiatrico contemporaneo sostiene, la speranza è terapeutica, una “evidence based hope”, come hanno scritto Beppe Tibaldi e Lia Govers. Forse questa è tra l’altro una delle ragioni per le quali tante delle persone delle quali ci occupiamo sono attratte a scopo di autoterapia, così come lo sono tante altre persone ad altro scopo, dal gioco d’azzardo; perché certo espone molto spesso al fallimento ma ripropone costantemente la chance della riuscita (così commentavamo con la collega Domenica Rosolia a lato di un convegno che si era svolto il giorno prima a Genova in cui, se non ho inteso male, l’oratore riportava il gioco d’azzardo da parte degli psicotici niente meno che… a meccanismi neurorecettoriali). Soprattutto chi vive per tempi più lunghi una situazione di malattia o vive una situazione di malattia più grave, con tutto ciò che essa comporta nel mondo delle emozioni (vissuti umilianti d’inferiorità, d’impotenza, timori di inguaribilità…) ha bisogno di ricordarsi costantemente che per lui può esserci un’uscita. Dobbiamo, insomma, essere attenti ad evitare il paradosso per il quale un matto per lavorare deve prima essere sano. Philippe Pinel, il fondatore della psichiatria moderna, ha scritto in un libro pubblicato nel 1800:
«Come ho potuto constatare personalmente sono molto pochi gli alienati che, anche negli accessi di furore, devono essere allontanati da ogni occupazione pratica».
E la citazione prosegue poi così:
«Che spettacolo penoso vedere in tutti gli stabilimenti [in tante famiglie e in tante residenze protette, sostituirei oggi] del nostro Paese, gli alienati di tutti i tipi agitarsi senza scopo, in un movimento continuo e vano, oppure miseramente prostrati in uno stato di inerzia e di stupore!» .
Allora, se lo scriveva già Pinel, tanto più oggi ogni servizio dovrebbe avere nell’armadio delle terapie anche tante opportunità di lavoro perché quasi tutti i pazienti possano trovare la propria. Perché se non c’è il lavoro, la vita non è normale, non è (non è abbastanza) quella vita normale che l’uscita dal manicomio aveva promesso. Ogni servizio dovrebbe poter offrire un’opportunità su misura di cimentarsi con lavoro a quasi tutti i suoi pazienti importanti. Alcuni servizi non sono in grado di offrire questa opportunità che a una percentuale esigua dei propri pazienti importanti, e ai più soltanto noia, una noia tutt’al più stabilizzata (Racamier parlava di pazienti familiasilari….). In un lavoro del 1988 relativo agli Stati Uniti, W.C. Bingham scriveva che «clienti che hanno tendenze autolesionistiche [ma, aggiungerei, o che hanno (anche per ragioni iatrogene) perso fiducia nelle proprie potenzialità] si lasciano condizionare dagli operatori della riabilitazione, che credono che i disturbi psichiatrici siano un ostacolo insormontabile al lavoro». Sono questioni sulle quali bisognerebbe riflettere, credo, e bisognerebbe riflettere su quali responsabilità abbiamo come operatori della psichiatria in quella che potremmo definire una seconda manicomializzazione più dolce della prima, quella che spesso ha avuto luogo a domicilio o nelle residenze dopo la chiusura dell’ospedale psichiatrico.
La persona affetta da psicosi deve dimostrare di essere un “buon paziente”, prima di poter essere preso in considerazione per essere un “buon lavoratore”
No, studi ormai numerosissimi nei Paesi anglosassoni – replicati in Italia tra altri da Angelo Fioritti e da esperienze condotte soprattutto in Emilia Romagna e più recentemente in Lombardia – dimostrano che gli inserimenti lavorativi fondati sul “place and train”, cioè sull’offrire comunque una chance perché la persona abbia la possibilità di giocarsela e impiegare energie per sostenere sul lavoro piuttosto che selezionare per il lavoro, hanno risultati in genere migliori di quelli basati sul “train and place”, cioè sul fatto di sottoporre la persona alla gradualità spesso autoreferenziale dei nostri percorsi (dai centri diurni spesso purtroppo cronicizzanti al vagabondaggio attraverso corsi di formazione sempre “pre”, alle nostre selezioni spesso tanto presuntuose e tanto fragili, perché la vita non è prevedibile). Pretendere di prevedere la laboriosità di un soggetto su base scientifica rischia di sembrare altrettanto assurdo che pretendere di poterne prevedere, in campo forense, su base scientifica la pericolosità, una richiesta di fronte alla quale oggi giustamente ci si ribella. Perché la realtà invece è che non è possibile sapere come una persona lavora finché non lavora. Perché occorrerebbe, poi, sempre tenere presente che il denaro è la grande forza che muove il mondo, una forza straordinaria, ed è anche una “terapia” potentissima, sorprendentemente capace a volte di farci scoprire con meraviglia che il “cattivo paziente” (quello che non rispetta gli orari, non fa le attività che piacerebbe a noi operatori che facesse ecc.) se è pagato per trasformarsi in un “buon lavoratore”, può farlo e riservarci grandi sorprese.
Il lavoro non deve essere confuso con la cura
No, il lavoro è parte integrante di quell’approccio olistico, globale alla persona, che tiene in conto ciascuna dimensione del suo esistere, che deve essere per noi la cura. C’è un libro dello psichiatra Richard Warner pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1991: riporta una serie impressionante di ricerche condotte per oltre un secolo nel mondo e conclude, in sintesi, che la persona affetta da psicosi se lavora guarisce più facilmente. Pirella e Saraceno l’hanno scritto molti anni fa: il rapporto tra cura e riabilitazione non è sequenziale, la riabilitazione è un vettore che abita la cura e le imprime la direzione giusta, il più possibile in avanti. Per questa ragione il lavoro è (anche) parte della cura, perché può aiutare a guarire. La persona è una, sempre la stessa: un uomo o una donna, un giovane o un vecchio, un figlio – perché questo lo siamo tutti – ed eventualmente un genitore, eventualmente un fratello o una sorella, il partner in una relazione d’amore, un appassionato nei campi dello sport, dell’arte, della politica ecc., e purtroppo a volte anche un malato che se è fortunato può diventare un paziente in una relazione di cura; ed è anche un lavoratore. Se ci poniamo di fronte a questa persona tutta intera, se “prendiamo in carico” la sua esistenza nella complessità delle sue tante dimensioni, questa è la cura per come noi oggi la intendiamo. Una cura più grande, capace di andare oltre la “cura” come un tempo era intesa. Una cura alla quale concorrono i soggetti del “formale”, ma anche quelli dell’”informale” (la distinzione è del sociologo Fabio Folghereiter, il principale teorico italiano del lavoro di rete). Una cura nella quale c’è posto per l’intervento del medico, ma anche dello psicologo, dell’infermiere; ma anche dell’assistente sociale, dell’educatore e del tecnico della riabilitazione, che stanno un po’ in mezzo; ma anche di colui che, da laico rispetto ai “professionisti” della cura, può essere come loro uno strumento prezioso (a volte più prezioso) della cura. E, soprattutto, ci deve essere posto per la persona stessa, i suoi progetti e desideri, e (se c’è) la sua voglia di poter andare oltre la cura e provarci, riprovarci a mettersi in gioco per la vita.
Nell’inserimento al lavoro di una persona affetta da psicosi, il problema principale è la psicosi
No, l’esperienza ci dice che il problema principale è la persona, sono i problemi riferiti alla persona ed è su queste questioni che dobbiamo esserle accanto. Negli anni, mi è capitato di vedere fallire molti inserimenti lavorativi che parevano avviati bene per queste ragioni, che interferiscono in modo complesso sia con l’effettiva possibilità di tenuta sul lavoro che sull’evoluzione del quadro psicopatologico, facendo sì che lavoro, psichiatria e persona siano tre dimensioni dello stesso individuo legate tra loro da una complessa interazione. Potrei citare una casistica discreta, e in alcuni casi mi è capitato di scriverne; non lo faccio in questa occasione, e mi limito a elencarli in sintesi
– Problemi collegati all’interazione tra persona e lavoro: di rispettare un orario, di sopportare la permanenza a lungo nello stesso luogo, di stare sempre al chiuso, di stare sempre all’aperto, di fare a lungo la stessa cosa, di confrontarsi in modo realistico con obiettivi, ambizioni, aspettative, di tollerare frustrazioni
– Problemi generali collegati alle abilità relazionali: la generica capacità di stare con gli altri, di avere dei superiori, di non competere eccessivamente con i pari, di non farsi rodere dall’invidia per chi ha una vita più facile, di tollerare le critiche
– Problemi collegati agli strumenti infinitamente civili ma che possono diventare perversi dell’invalidità e dell’accompagnamento, cioè dell’abitudine a essere pagati per stare fuori dal lavoro, per non lavorare e in definitiva per non essere (qualche anno fa si era proposto di trasformare la pensione d’invalidità in salario d’inclusione, poi complice anche l’aumento della disoccupazione non se n’è fatto nulla)
– Problemi inerenti i meccanismi di adattamento disfunzionali della persona ma anche della famiglia, i vizi e l’averla vinta che sono diventati consuetudine, le incrostazioni comportamentali e le stereotipie relazionali acquisiti durante la storia di malattia, specie se è stata lunga
– Problemi genericamente collegati agli aspetti indisciplinati, irrealistici, capricciosi e narcisistici che sono caratteristici dell’età adolescenziale, e ad essi connessi spesso anche problemi collegati all’uso eventualmente concomitante di sostanze, che certo non aiuta a dare continuità di prestazione
– Problemi legati al tempo libero che può continuare a essere vuoto, alla solitudine, che possono fare sì che il salario non trovi significato e anzi faccia sentire più acuti questi problemi perché ora il denaro c’è, ma si fa la scoperta dolorosa di non essere capaci a tradurlo in momenti che diano piacere, interesse, soddisfazione: la vita della persona è cambiata perché adesso c’è il lavoro, c’è un po’ di denaro, ma dopo il lavoro, intorno al lavoro la vita è rimasta la stessa e ci si sente ancora più soli in un’esistenza che si è desertificata e non riesce a riprendersi (traditi dal lavoro insomma, e a volte anche in tal caso spinti verso l’alcool, le sostanze, il gioco d’azzardo ecc.)
Mi pare che tutti questi siano problemi che ognuno può comprendere, e che chiunque può aiutare la persona ad affrontare quindi; e, aiutando la persona a cercare di risolverli, sarà possibile a ciascuno accanto alla fatica avere sorprese e soddisfazioni.
Da ultimo, una questione politica e una scommessa: la persona deve essere adatta al lavoro
No, per la persona affetta da psicosi così come per ogni altra, è necessario invece che il lavoro sia adatto (si renda adatto) alla persona. Lo so che il mercato del lavoro non funziona in questo modo; ma con la nostra azione modesta, noi come talpe ostinate e silenziose scaviamo piccole contraddizioni nel mercato del lavoro. Che è per definizione selettivo, e che noi pretendiamo di rendere inclusivo. Perché sentiamo come un’istanza di giustizia e umanità l’esigenza che il lavoro, che è una dimensione indispensabile della vita, si pieghi verso la persona perché la persona possa acciuffarlo. Che nessuno resti fuori. E’ questo lo straordinario obiettivo al quale, ne siamo o no consapevoli, lavoriamo. Trasformare il lavoro. Che “lavoro” sia il lavoro del quale la persona – quella persona lì – ha in questo momento la possibilità (ci fu una volta un filosofo, oggi fuori moda, che scrisse: “da ciascuno secondo le sue possibilità”: a pensarci, sarebbe proprio giusto e bellissimo! Eugenio Finardi ne ha fatto anche una canzone). C’è un vecchio film del 1975 che ci presenta scene dolcissime, commuoventi dei momenti nei quali il lavoro si piega verso la persona, è “Matti da slegare”, di quattro registi tra i quali Marco Bellocchio e Silvano Agosti. Ho letto di recente che Agosti ha rivolto nel 2009 una richiesta alle Nazioni Unite e all’UNESCO: che l’essere umano sia riconosciuto patrimonio universale dell’umanità. Forse oggi il matto slegato è lui. Forse no: matti sono gli altri, quelli per i quali le pietre e i luoghi, che pure sono importanti, contano più del corpo dell’uomo e della sua vita. C’è anche un film molto più recente, protagonista Claudio Bisio: “Si può fare!”. E se nonostante tutto l’altra mattina ci siamo ritrovati a nutrire queste speranze e impegnarci su questi temi – e ringrazio Giorgio per la costanza con la quale si adopera a costruire momenti come questo, e anche più grandi – vuol dire che ci crediamo: e insieme, allora, si può fare!
P.S.: Buon 1/5 dunque! W i lavoratori (e anche quelli che vorrebbero diventarlo)!
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