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Ricalcare il maestro?

17 Mag 17

A cura di antonello.sciacchi16

Regolarmente attorno al maestro si assiepa un collettivo. La massa degli allievi segue le orme di un personaggio vissuto come battistrada sulla via del sapere. Per definizione il collettivo che ruota attorno al maestro è discente. Il problema che raramente si pone è se possa esistere un collettivo docente.

Provo a individuare un paio di condizioni necessarie, chiaramente non sufficienti, che renderebbero possibile l’esistenza di un collettivo docente.

Innanzitutto una precisazione terminologica. Il collegio dei docenti delle nostre scuole non è un collettivo docente. Non insegna nulla ai singoli membri che lo compongono; è un organo burocratico, tipo assemblea di condominio, che non è fatto per insegnare ma per amministrare gli insegnamenti. Già questa banale considerazione ripropone il problema: come il collettivo può insegnare qualcosa all’individuo che ne fa parte.

Il sapere distribuito a scuola è un sapere acquisito, relativamente stabilizzato, che i singoli “prof” sono in grado di trasmettere alla classe dei loro allievi. Nell’operazione di insegnamento scolastico la dimensione collettiva è minima. Esistono rapporti verticali tra insegnante e allievi. Sono linee transferali lungo le quali il sapere come un liquido “cola” da chi lo distribuisce – il maestro – a chi lo recepisce – l’allievo. Se esistono rapporti orizzontali tra allievi, non riguardano il sapere “ufficiale” distribuito dall’alto ma altri saperi “ufficiosi”, non iscritti nei programmi scolastici.

Lacan era ben consapevole di questa asimmetria e giustamente la temeva per le sorti del proprio insegnamento. Perciò nella sua scuola promuoveva la formazione dei cosiddetti “cartelli”, gruppi di studio che mettessero a tema e discutessero alcuni spunti del proprio insegnamento. Aveva anche individuato una peculiare modalità di lavoro. Prevedeva che un piccolo numero di interessati a un argomento (da tre a cinque) si riunisse a elaborarlo in presenza di un cosiddetto “più uno”, il quale aveva essenzialmente la funzione “analitica” di orecchio. Non partecipava attivamente al lavoro comune ma avrebbe dovuto segnalare l’emergenza di elementi di novità e di approfondimento.

Da giovane analista in formazione ho partecipato a diversi cartelli, mai in posizione di più uno. Ricordo il titolo del primo: la funzione della scrittura in psicoanalisi a partire dal Seminario XX di Lacan. Devo dire che non ho mai registrato l’emergenza di cose nuove. Tutto si risolveva nella ruminazione della dottrina magistrale, che i membri del cartello si affaticavano a digerire, senza mai metterla realmente in discussione. Chi la metteva in discussione era automaticamente out. Lo schematismo era quello di sempre: ricalcare le orme del venerato maestro, confermando la sua dottrina. Freudianamente parlando, si sa che la ripetizione non apporta mai nulla di nuovo, essendo ripetizione dell’identico.

Capitolo chiuso? Forse no. Il problema resta non risolto: può il collettivo in quanto tale, a prescindere dalle funzioni magistrali ivi inserite, insegnare qualcosa all’individuo che vi partecipa?

Una condizione certamente necessaria è che il sapere da insegnare non sia dogmatico, cioè non sia una dottrina incontrovertibile ma sia aperto alla confutazione. In un collettivo di pensiero non dogmatico chiunque può proporre un teorema, ma chiunque altro può contestarlo, avanzando una possibile condizione di non validità. Lo schematismo è quello illustrato da Ludwik Fleck, che negli anni Trenta del secolo scorso (1927-1947) propose il termine di Denkkollectiv, “collettivo di pensiero”. Tra la formulazione di una congettura da parte dell’individuo e la convalida o confutazione da parte del collettivo (ammesso che si interessi a quella congettura) si estende il tempo di sapere durante il quale tutti i partecipanti al lavoro epistemico apprendono qualcosa in prima persona pro o contro la congettura in questione. Insomma, in un collettivo di pensiero non si è solo riforniti di sapere dall’alto della cattedra, ma il sapere è elaborato dal basso.

Sembra che sia difficile applicare questo schematismo alle scuole di psicoanalisi, forse perché sono troppo scuole nel senso proprio del termine. Non conosco collettivi di pensiero paritetici in psicoanalisi. Anche in quelli apparentemente più democratici predominano i geronti. In ogni caso ho visto che regolarmente prevale un ben preciso pregiudizio: scienza? No, grazie! La scienza darebbe false sicurezze, quindi alla scienza si resiste. Il pregiudizio blocca la strada all’approfondimento scientifico della psicoanalisi. In alcuni collettivi lacaniani ho sentito parlare di scienza addirittura come variante del discorso paranoico, probabilmente confondendo scienza con cognitivismo.
Ma è proprio questa la condizione necessaria per uscire dalla trasmissione della psicoanalisi identificata a qualche maestro e per inaugurare la funzione docente del collettivo: aprire la psicoanalisi alla scientificità. Non è facile come dirlo. Nel caso della psicoanalisi freudiana c’è un lavoro preliminare da fare per accedere alla scientificità. Occorre rimuovere dal pensiero freudiano la rigida intelaiatura medica, articolata nella metapsicologia delle pulsioni come cause psichiche, che sterilizzano le fondamentali intuizioni scientifiche di Freud, quasi che Freud stesso le ritenesse pericolose.

Le pulsioni sono le cause psichiche freudiane, ho detto. Funzionano in base al principio di ragion sufficiente. C’è la pulsione sessuale che spinge il soggetto verso una certa meta: la soddisfazione oggettuale con un oggetto per lo più largamente indifferente. C’è la pulsione di morte che spinge il soggetto verso lo stato di eccitazione minima. Le prime sono le aristoteliche cause efficienti; la seconda è la causa finale. Entrambe le cause non rientrano nella cassetta degli attrezzi del moderno uomo di scienza. La scienza moderna non è più scire per causas come l’antica, essendo largamente indeterministica. La scienza moderna studia in modo probabilistico eventi contingenti che possono sia essere sia non essere: per esempio, la posizione e la velocità di un elettrone nello spazio e nel tempo o la nascita e l’estinzione di specie biologiche.
Certo, il maestro ti insegna a riconoscere le cause dagli effetti, come gli Auguri, un collegio sacerdotale, traevano le loro profezie dal volo degli uccelli. Tolte le cause, si tolgono i maestri. Cosa resta?

Tolta la buccia metapsicologica, pesantemente eziologica, di Freud resta una succosa polpa: l’esistenza dell’inconscio, inteso come sapere che non si sa di sapere; l’esistenza della rimozione originaria, per cui nell’inconscio esistono teoremi indecidibili, che mai saranno dimostrati o confutati; la Nachträglichkeit o l’acquisizione differita del sapere, che non è stato ancora scritto in qualche enciclopedia o in qualche catechismo.

Il problema, allora, è se sia possibile costruire collettivi di pensiero sulla base di questi assiomi. Io li chiamerei collettivi di metaanalisi, perché potrebbero analizzare collettivamente le analisi individuali, in particolare le analisi che portano alla formazione degli psicoanalisti. Devo però dire che, pur augurandomeli, non ne ho ancora visto nascere nessuno. Vuol dire che dobbiamo ancora ricalcare i vecchi maestri? Per inerzia del pensiero? Perché le direttive magistrali ci rassicurano nella pratica clinica? Perché vogliamo guadagnare i galloni di colonnelli del maestro? O perché…

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2 Commenti

  1. renato.carlo.moglia

    A proposito di frutta, di
    A proposito di frutta, di rigide bucce e polpe succose, continuando nella metafora proposta da Sciacchitano mi vien da dire che oggi la PSA è come un prugna secca, con tutto il rispetto per l’industria alimentare che se ne occupa. Nella prugna essicata la buccia è praticamente sparita. Cosa voglio dire, tornando alla PSA ? Che ormai la PSA è una pratica medica, è diventata l’applicazione di protocolli e categorie nosografiche (checché ne dicano i tardivi cultori nostalgici di una PSA “estetico-artistica”) Medicalizzazione che, come ha sottolineato Sciacchitano, si regge sul freudismo eziologico dello stesso Freud, dove le pulsioni sono appunto cause psichiche. E allora ? Allora non c’è quasi più polpa, è stato attuato un processo di essicazione-scarnificazone della polpa, polpa che abilmente Sciacchitano ci ripropone prima della sua definitiva scomparsa. Di sicuro chi partecipa agli attuali percorsi di formazione analitica non sa neppure cosa sia la polpa del pensiero freudiano. Siccome è una polpa scientifica……..Sciacchitano non è nuovo a proporre dei collettivi di metaanalisi, ma sembra che oggi non abbiano molto spazio, forse avranno un grande futuro, chissà. Ricalcare i vecchi maestri, ricalcare disegni già visti, già percorsi ? Per quel che mi riguarda neanche per sogno, ho già dato. Credo che alla base di tutto questo ricalcare – che vedo operare febbrilmente al solo scopo di disperdere giovani e brillanti intelligenze – ci sia una volontà di dominio che attinge alla malafede più assoluta e alla più rocciosa volontà di ignoranza (questa sì la vera roccia altro che castrazione !). Ricordo, concludendo, che nel “Compendio di psicoanalisi” (pubblicato postumo) Freud definisce il lavoro analitico nel suo farsi e nel perseguimento del suo risultato come POSTEDUCAZIONE, alias riforma intellettuale che cambia la posizione del soggetto: da ontologico a epistemico. Dalla gestione dogmatica delle certezze intoccabili, alla gestione epistemica delle incertezze variabili che la vita quotidiana ci propone……

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    • antonello.sciacchi16

      Moglia ha colto l’essenza
      Moglia ha colto l’essenza della mia argomentazione, che non è né contro né a favore dei maestri. I maestri in prima battuta ci vogliono. Quando la scienza è gracile sul nascere , la scuola è necessaria. Penso ai primi anni della meccanica quantistica, quando sotto la protezione della Scuola di Copenaghen, poté svilupparsi e arrivare a maturità. Oggi il collettivo quantistico è andato al di là delle formulazioni, spesso filosofiche, di Bohr. Quando la psicoanalisi andrà al di là dei codici stabiliti da Freud, Jung, Klein ecc.? Recalcati ha lanciato un monito: “Difendiamo la psicoanalisi dagli psicoanalisti”. Non si può che essere d’accordo. A patto di mettere in discussione la nostra stessa formazione, metaanaliticamente parlando, senza astio contro nessuno ma con molta pietà verso noi stessi. Stavo per omettere il riferimento scabroso: metaanalisi vuol dire scientificità della psicoanalisi.

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