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CHE COS’È LA PSICHIATRIA? 50 anni dopo. Parte I. Gorizia e Parma

28 Mag 17

A cura di Paolo F. Peloso

E’ tempo oggi di cominciare a fermarci su un altro cinquantenario, dopo quello di Corpo e istituzione[i],  di quel 1967 nel quale il lavoro istituzionale dell’équipe goriziana diretta da Franco Basaglia cominciava a poter essere documentato e discusso. Il 7 giugno 1967 l’Amministrazione provinciale di Parma finiva di stampare il volume Che cos’è la psichiatria? Discussioni e saggi sulla realtà istituzionale – curatore Franco Basaglia e disegno di copertina di Hugo Pratt – che sarebbe stato ripubblicato nella Piccola Biblioteca Einaudi nel 1973 e poi ancora da Badini & Castoldi nel 2013. Per Pierangelo Di Vittorio si tratta del “libro germinale del movimento antiistituzionale italiano”[ii]; in ogni caso, è la prima monografia pubblicata dall’équipe di Gorizia per fare conoscere una sperimentazione che durava da cinque anni, e nasce dalll’incontro con amministratori e operatori della Provincia di Parma.
Che si tratti di un libro importante già nel momento in cui esce è testimoniato dalla presentazione, affidata al ministro della sanità Luigi Mariotti, attento evidentemente a quanto stava accadendo nei manicomi – che, come ricorda Babini, due anni prima aveva paragonato a “lager germanici e bolge dantesche”[iii], e aveva promosso un’indagine a tappeto sulla situazione manicomiale in Italia – e a Gorizia in particolare. L’occasione gli consente di confermare la necessità di una riforma dell’assistenza psichiatrica, alla quale avrebbe posto mano l’anno successivo con la legge n. 431 che emendava, pur senza la radicalità che avrebbe caratterizzato dieci anni dopo la legge 180, la legge 36 del 1904 su alcuni punti comunque utili per chi stava lavorando al superamento dell’ospedale psichiatrico.
Ma la crisi non investe in quel momento soltanto il manicomio. E nella breve introduzione è Fabio Visintini, il cattedratico dell’Università di Parma, a fare della crisi del manicomio un sintomo di una più generale crisi della psichiatria, incapace di “comprensione dell’ammalato e dell’ambiente”. La psichiatria ha bisogno di recepire le nuove tendenze del settore e della comunità terapeutica, e per altri aspetti di trovare una nuova attrezzatura anche sul versante medico-biologico. C’è bisogno che ciascuno faccia la sua parte, medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, amministratori; e Visintini non ha difficoltà a riconoscere negli autori del libro l’avanguardia di questo movimento.
Nella successiva edizione Einaudi i due brevi documenti introduttivi saranno sostituiti da uno più corposo di Mario Tommasini, allora battagliero assessore alle politiche sociali della Provincia di Parma che spiega le ragioni della perdurante attualità del testo, ricordando come qualche tempo prima per ottenere un aumento dell’organico gli infermieri di Colorno avessero organizzato uno sciopero dando dimostrazione dell’uso della camicia di forza su se stessi nella piazza centrale di Parma.  Nell’edizione di Baldini & Castoldi sarà aggiunta un’introduzione di Franca Ongaro Basaglia.
La struttura del volume è senz’altro particolare. Il primo saggio è di Basaglia e s’intitola appunto Che cos’è la psichiatria?. In esso il titolo del volume è idealmente riportato a quello di un saggio di Sartre, Che cos’è la letteratura?, pubblicato nel 1948; “che cos’è la psichiatria?”, prosegue Basaglia, è la domanda cui i saggi raccolti nel volume tenteranno di dar in modo diverso risposta, e diventerà perciò anche il filo conduttore di questa nostra rivisitazione a cinquant’anni di distanza.
  1. Che cos’è la psichiatria, secondo Franco Basaglia?
Essa è forse, apre Basaglia, “un bagaglio di conoscenze tecniche” che rende possibile, a partire dai sintomi, la costruzione del “fantasma di una malattia”, il quale finirà per occultare l’uomo che li presenta, per sostituirglisi. E’ la “frattura” (direi personalmente anche lo scarto, la sproporzione) tra “l’enorme castello di classificazioni, sottoclassificazioni, precisazioni e bizantinismi nosografici” che costituiscono il “rigoroso livello tecnico delle dissertazioni scientifiche” e la realtà del malato mentale negli asili. Chiedersi che cos’è la psichiatria, quindi, corrispondeva allora (e credo corrisponda anche oggi) a chiedersi se il suo campo d’indagine sia rappresentato dal malato nella sua realtà, o dall’insieme delle “sindromi in cui lo rinchiude” (pp. 16-17) o ancora, e Basaglia riprende qui Binswanger, se sia il suo oggetto sia l’uomo reale o l’immagine che scientificamente se ne è costruita (p. 19).
A Gorizia si è scelto di andare decisamente nella prima direzione, cominciando con l’affrontare perciò il nodo dell’istituzionalizzazione come il primo e più evidente problema che il malato (quel malato lì in quel momento e in quel luogo) presenta. E definendo il proprio campo come quello costituito dalle due facce della realtà del malato: “quella del suo essere un malato, con una problematica psicopatologica (dialettica e non ideologica) e quella del suo essere un escluso” (p. 21). Ma il destino della psichiatria già si delinea oltre questo: nello sforzo di andare al di là della gestione  comunitaria dell’ospedale che ne mette in discussione la natura di macchina che cura, per investire al polo opposto anche la società esterna la quale vi scarica le proprie contraddizioni per riconoscersi come una “società sana”.
Da queste premesse, si passa a riportare gli atti di una conferenza tenuta da Basaglia di fronte a personale e amministratori dell’ospedale psichiatrico di Colorno e il dibattito che vi ha fatto seguito
  1. Gorizia e la trasformazione comunitaria della psichiatria.
Dopo i saluti del presidente della Provincia di Parma Giuseppe Righi e del funzionario del Ministero Carlo Vetere, utili a cogliere l’atmosfera di quell’anno, si apre la conferenza di Basaglia con un riferimento alla situazione in piena evoluzione in Inghilterra e Francia. A confronto di quelle,  la situazione manicomiale italiana è resa obsoleta, tra l’altro, nelle sue categorie di agitato, pericoloso, scandaloso dalla incapacità a valorizzare le nuove possibilità offerte dalla scoperta degli psicofarmaci, l’antropologia esistenziale e la psicoanalisi. E ciò anche perché: «Il piano in cui la psichiatria attuale si pone è, dunque, prima di tutto un piano umano e sociale. Esso richiede un tipo di approccio al malato che, sempre tenendo conto dell’efficacia dei trattamenti biologici, non dimentichi di trovarsi di fronte a un uomo e non una malattia cui fare aderire i sintomi, una categoria in cui rinchiuderlo, o una mostruosità da allontanare» (p. 34).
Dopo avere citato ad esempio l’esperienza protocomunitaria di Conolly, che sarà poi approfondita da Pirella e Casagrande, Basaglia passa a illustrare l’esperienza di comunità terapeutica in atto a Gorizia il cui carattere terapeutico deriva proprio dalla «potenza terapeutica che ognuno dei componenti sprigiona nei confronti dell’altro» (p. 35) e dal crearsi di «un clima nel quale sia possibile avvicinarsi reciprocamente in un rapporto umano che, proprio in quanto spontaneo, immediato e reciproco, diventa terapeutico» (pp. 35-36). Tra gli strumenti fondamentali ricorda il reciproco convincimento, la libertà, la dialettica tra le diverse posizioni nella riunione comunitaria e un nuovo significato esclusivamente terapeutico di «stimolo ai rapporti interpersonali tra i malati e (…) occasione di discussioni capaci di alimentare nel malato la capacità di opporsi, per prendere coscienza di sé, dei propri ed altrui limiti» (p. 39) che viene attribuito al lavoro del malato e sarà poi approfondito da Slavich e Jervis Comba. Così come «una collaborazione strettissima con un personale preparato al suo compito» (p. 39). 
Nella realtà comunitaria il medico, in particolare, opererà in contatto col paziente senza avere la possibilità d’ignorarlo (il che rappresentava, rispetto alla prossemica del manicomio, già una rivoluzione copernicana) e dovrà esporre il suo ruolo ad essere «costruito e distrutto dal bisogno che il malato ha di fantasmatizzarlo (di renderlo cioè forte e protettivo) e di negarlo (per sentirsi forte a sua volta». Il che rende indispensabile che «la preparazione tecnica gli consenta – oltre il rapporto strettamente medico che resta inalterato – di seguire e comprendere le dinamiche che vengono a determinarsi» (pp. 39-40). E verrà così stretto tra le esigenze contraddittorie della custodia e della cura, nell’attesa che la società decida verso quale di queste due polarità vorrà che l’assistenza psichiatrica si orienti.
Anche l’infermiere vedrà rivoluzionato il proprio ruolo dall’esigenza di “una capacità di rapporto terapeutico” che la vecchia istituzione non gli richiedeva, e per la quale quindi non è preparato.    
E il malato non si limiterà ad acquisire sul piano quantitativo più libertà, responsabilità, autonomia ma imparerà a «tradurre queste possibilità in un modo personale di approccio, appunto qualitativamente più evoluto e più maturo, con il gruppo in cui vive» (p. 41). La rinuncia da parte dell’istituzione a un atteggiamento sia custodialistico che paternalistico lascerà spazio al “controllo reciproco” e la capacità d’interazione, e quindi di azione terapeutica, nel gruppo dei pazienti e tenderà a enfatizzarne l’importanza, consentendo loro di entrare in dialettica con il medico e metterne in discussione le scelte.
La nuova organizzazione comunitaria non è, peraltro, esente da rischi, ma tali rischi non superano, nella percezione di Basaglia, quelli comunque presenti nell’istituzione tradizionale e soprattutto sono da mettere in relazione il più delle volte con «il grado di coesione all’interno dell’organizzazione; gli stati di tensione non risolti; i momenti in cui la comunità non garantisce un livello protettivo sufficiente» e mettono in discussione più l’azione del medico e dell’infermiere che la imprevedibilità del malato e della sua malattia (p. 44). Temi, questi, fondamentali, che anticipano in gran parte quelli che saranno ripresi e meglio chiariti, l’anno successivo, nell’appendice “Il problema dell’incidente” de L’istituzione negata[iv].
E allora Basaglia così sintetizzata l’esperienza in atto a Gorizia, chiude facendo proprie le parole con le quali Lucien Bonafé richiama l’esigenza, in quel momento, di “realizzazioni concrete più che di speculazioni astratte”[v].   
Il dibattito che segue è interessante perché, da un lato, offre a Basaglia l’opportunità di precisare la propria posizione nell’ambito del dibattito in atto in Inghilterra e in Francia sulla comunità terapeutica e la psichiatria istituzionale, e di ribadire il contributo che sociologia e psicoanalisi potevano dare entrambe alla nuova psichiatria. E poi ritornare sul difficile ruolo dell’infermiere – il cui smarrimento insieme alla buona volontà emerge con chiarezza nella discussione (p. 54) – non più custode ma neppure amico o terapeuta, incaricato di una mansione “essenzialmente terapeutica” tutta da inventare che Basaglia identifica soprattutto nella conoscenza del “valore del rapporto tra gli uomini” e nel: «riuscire a comprendere che ogni atto e ogni gesto nel rapporto con il malato hanno un significato particolare che può aiutarlo a uscire da se stesso o farlo regredire e rinchiudersi nel suo mondo psicotico» (p. 48). E ancora di precisare la propria posizione su un tema, oggi di grande attualità, che è quello della responsabilità dello psichiatra:  «Si va, naturalmente, incontro a dei rischi, ma sono rischi che – nel nostro ruolo di sanitari – dobbiamo correre, come li corre ad es. il chirurgo. Ed è giusto che si debba in qualche modo rispondere delle nostre azioni alla società che, rappresentata dalla Procura della Repubblica, agisce come un controllo del nostro lavoro dove, altrimenti, non avremmo limiti, né responsabilità. Per questo la posizione dello psichiatra risulta ambigua, con una faccia verso l’esterno e una verso l’interno perché, per quanto si possa liberalizzare l’ospedale, c’è sempre una legge da rispettare e cui rendere conto del nostro operato. Questo è il nostro rischio, rischio che siamo perfettamente coscienti di correre, riconoscendolo come parte del nostro lavoro» (p. 53)[vi]. E’ vero che allora vigeva la legge 36 e la gestione della pericolosità occupava il centro del discorso, ma credo che non ci si debba stupire se questi problemi si continuano a porre con la legge 180, perché la pericolosità che può caratterizzare alcune situazioni non può essere abolita per legge e, sebbene in una posizione oggi più marginale, continua a fare parte degli elementi di contesto dei quali deve tenere conto chi lavora nella psichiatria[vii].
Emergono quindi altri temi: l’importanza della parola (riunioni, assemblee) e dello sforzo di “inventare ogni giorno una situazione nuova” per prevenire la cristallizzazione e l’istituzionalizzazione; l’importanza di un clima diverso, comunitario, facilitato dal crearsi, grazie agli psicofarmaci, di un approccio più facile al malato. E, al termine, l’intervento di Mario Tommasini assicura l’impegno della politica ad appoggiare le riforme degli psichiatri ed illustrare i programmi nei quali l’amministrazione provinciale è già impegnata in quel di Parma; seguono i progetti di un nuovo reparto per degenti volontari nell'ospedale psichiatrico, e di un centro di socioterapia e uno di psicogeriatria da realizzarsi nel territorio.
  1. Gorizia e Parma s’incontrano
E’ molto interessante anche il successivo incontro informale tra infermieri, medici e degenti di Gorizia e personale di Colorno in visita, auspicato dal ministro Mariotti. Vi si apprende che a Gorizia non c’è limitazione alla visita dei familiari; a Colorno è previsto invece un orario, ma il personale non sa spiegarsi perché e vi coglie anzi un rischio di dare “l’impressione di una mancanza di libertà”. Non c’è netta separazione tra i reparti a Gorizia, mentre a Colorno essa persiste. I degenti hanno un bar a disposizione a Gorizia, che a Colorno non c’è. A Gorizia i mezzi di contenzione sono stati aboliti (salvo per l’uso parrebbe dell’isolamento nei due soli reparti ancora chiusi) e sono stati sostituiti nelle parole di un infermiere con «una grande preparazione che ci è stata insegnata, poi con una grande disponibilità verso l’ammalato» (p. 85), mentre a Colorno essi sono routinariamente utilizzati. Un infermiere di Gorizia cita un caso di agitazione in delirium tremens di un politraumatizzato; per non ricorrere alla contenzione, sei infermieri si sono alternati al suo capezzale per tutta la notte. Si discute di reparti chiusi, reparti aperti, reparti in via d’apertura; di porte chiuse e porte aperte, gli stessi problemi della psichiatria di allora e di quella di oggi.
Basaglia, sollecitato, rivela quali sono a suo parere gli ingredienti fondamentali della comunità terapeutica: disponibilità e sincerità del personale verso i ricoverati, loro responsabilizzazione, tendenza a evitare l’esercizio del potere in quanto fattore sempre antiterapeutico, tendenza verso un livellamento dei ruoli che non potrà mai, però, essere completo.
Sollecitato poco dopo sulla questione di come debba essere architettonicamente un ospedale, risponde «credo che si possa fare della buona psichiatria in qualunque posto (…) perché quello che conta è il rapporto col malato» (p. 105). Poi l’architetto Dardi specificherà meglio: il problema dell’architettura di un luogo psichiatrico è lo stesso di ogni altro luogo, creare spazi armonici che non ricordino lo schematismo di certe istituzioni totali.
E poi, ancora, emergono nella riunione i piccoli intoppi della quotidianità comunitaria, il rischio della sopraffazione dei più furbi sui più ingenui o il fatto che alcuni perdano a carte tutto il proprio denaro, il fatto che chi vuole restare sveglio la sera disturbi chi vuole dormire, ad esempio. E anche le questioni più grandi che Gorizia sta affrontando in quella fase: i primi passi all’esterno del servizio di igiene mentale o il rischio, intravisto in prospettiva, che la comunità terapeutica si assesti in un nuovo sistema chiuso, una gabbia dorata, e la necessità di romperla – sostiene Basaglia – verso l’esterno, che però si sarebbe posta solo quando l’esperienza comunitaria avesse raggiunto un certo grado di maturazione.
 
Segue parte II, “Lavoro, psicoterapia, istituzione” (clicca qui per il link)
 

[i] Cfr. in questa rubrica: 50 anni di Corpo e istituzione (clicca qui per il link)
[ii] P. Di Vittorio, Foucault e Basaglia. L’incontro tra genealogie e movimenti di base, Verona, Ombre corte, 1999, p. 67.
[iii] V.P. Babini, Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento, Bologna, Il mulino, 2009, p. 207.
[iv] P.F. Peloso, Osare la psichiatria. Benefici, rischi e significato dell’ergoterapia nella polemica degli anni ’70 dell’Ottocento, Rivista di Storia della Medicina, XXV, 2, 2015, pp. 195-215.
[v] Sul rapporto tra pratica e teoria in Basaglia e Foucault cfr.: P. Di Vittorio, Foucault e Basaglia. cit.
[vi] Sul tema generale del rapporto tra pericolosità, controllo e psichiatria rimando al recente contributo personale: P.F. Peloso, Dalla sorveglianza al sostegno. Note su pericolosità e controllo in psichiatria, Psicoterapia e scienze umane, LI, 2, 2017, pp. 285-296, nonché ai commenti critici di Andrea Angelozzi ed Euro Pozzi che ad esso fanno seguito.
[vii] Per la mia posizione sul tema rimando all’articolo in uscita: P.F. Peloso, Dalla sorveglianza al sostegno… cit.

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