IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale
di Antonello Sciacchitano

Analisi matematica vs psicoanalisi

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29 maggio, 2017 - 09:29
di Antonello Sciacchitano

 

Recentemente ho fatto un esperimento che mi ha lasciato perplesso. Ho eseguito un approfondito ripasso delle mie conoscenze di analisi matematica sul manuale di Enrico Giusti (Analisi matematica, III edizione, Bollati Boringhieri, Torino 2002). Perché? Non oso dirlo. Avevo in mente una bislacca idea sulla diffusione dell’omosessualità come malattia infettiva, un modello semplificato, basato sulla curva logistica dell’AIDS, malattia infettiva immunizzante, dove i malati o muoiono o diventano immuni. Non entro nei dettagli dell’ipotesi di esistenza di un virus “culturale”, per non farmi ridere dietro. Tuttavia mi giustifico, convinto come sono che un uomo di scienza non debba trascurare nessuna congettura, neppure la più risibile. I risultati della mia analisi non meritano la comunicazione, essendo stata una semplice esercitazione sui parametri della curva logistica. Però ai margini dell’operazione è emerso un fatto collaterale di un certo interesse, forse non solo per chi ne ha fatto esperienza diretta.

Il manuale di Giusti, su cui ho condotto il mio ripasso, è particolarmente felice. Scrittura limpida; dimostrazioni concise; esempi appropriati ed esercizi illuminanti (con soluzione!). Non mancano poi preziosi riferimenti storici che giustificano l’evoluzione del calcolo nella forma in cui lo conosciamo, offrendo i dettagli della sua genesi all’interno del collettivo di pensiero matematico. Ovviamente, non mi soffermo sui contenuti, ma sulla retorica dell’esposizione che è particolarmente convincente: colloquiale, pur non mancando di rigore.

Tuttavia due costrutti del testo di Giusti mi hanno particolarmente colpito per l’alta frequenza della loro ricorrenza, inusuale in un testo scientifico. Il primo e più frequente è il termine “trucco”, che in un caso relativo al trattamento dell’infinito arriva a essere “furbo”. Il secondo, apparentemente più serio, è l’espressione “caso per caso”. Nell’insieme l’impressione che ne ho tratto è che l’analisi matematica sia più vicina a una tecnica che a una scienza, non molto diversamente dalla psicoanalisi. In analisi matematica bisogna saper riconoscere le differenze caso per caso e applicare i “trucchi” giusti che rendono possibile portare a termine calcoli apparentemente difficili; tutto funziona come in psicoanalisi dove si risolve il caso in cura, applicando le tecniche giuste di manipolazione del transfert, quelle adeguate al caso trattato. L’insegnamento del mio maestro fu proprio che l’analisi non generalizza ma procede “caso per caso” dal particolare al particolare. (Con un granellino di sale…)


 

Il fatto matematico non è più misterioso. La sua verità storica è ormai acquisita. L’analisi matematica, nata su fragili intuizioni concernenti l'infinito, oggi si basa saldamente sulla famosa definizione epsilon-delta della nozione di limite di una funzione, articolata su due disequazioni in sé non difficili da afferrare. Dalla nozione di limite di passa a quella di funzione continua, per la quale il valore della funzione coincide con il limite. Tutto il resto poi si fonda su un teorema, giustamente detto fondamentale ma di dimostrazione non difficile, che stabilisce che la derivazione (cioè il calcolo della tangente a una curva) e l’integrazione (cioè il calcolo dell’area circoscritta da una curva) sono due algoritmi simmetrici, l’inverso l’uno dell’altro. Tuttavia, emerge una differenza sostanziale: mentre per la derivazione si danno regole esplicite di calcolo, tali regole non esistono per l’integrazione, che va calcolata “caso per caso” con qualche “trucco” (per esempio, moltiplicando numeratore e denominatore di una frazione per lo stesso fattore).

Da qui l’importanza degli esercizi, soprattutto di integrazione, per familiarizzarsi con il calcolo e i “trucchi del mestiere”. Gli esercizi sono necessari, perché la matematica è esercizio di scrittura prima che di pensiero. Continuando l’analogia, gli esercizi di analisi matematica corrispondono all’analisi di controllo cui il giovane analista si sottopone per imparare la “tecnica”, esercitandosi in campo clinico.

La ragione vera per cui riferisco la mia banale esperienza di ripasso dell’analisi matematica, come si fa prima di dare l’esame, è che ha messo in evidenza una singolare prospettiva dell’esperienza di analisi, sia matematica sia psicologica, gettando qualche ombra sull’ipotesi che entrambe le analisi possano attingere il piano della scientificità, sollevandosi dal livello dell’applicazione tecnica. Di questo voglio brevemente riferire.

Su queste pagine non ho lesinato strali contro le dottrine psicoanalitiche, argomentando che, se sono inconfutabili, non sono scientifiche. Il punto debole della mia argomentazione (in generale di tutto il falsificazionismo) è il passaggio surrettizio alla contronominale: se una teoria è scientifica, allora è confutabile, che per un rigoroso intuizionista non si può in generale dedurre dal precedente condizionale. Un esempio? Gli attuali presupposti della meccanica quantistica, di cui nessuno mette in dubbio la scientificità, sono tanto incerti quanto tuttora inconfutabili.

Cosa fa sì che l’analisi, matematica o psicoanalitica, sia scienza e non semplice applicazione tecnica? Certo, la confutabilità dei presupposti è necessaria, ma forse non è sufficiente. Che altro ci vuole?

A questo punto la matematica ha qualcosa da insegnare alla psicoanalisi. Ci sono almeno due condizioni da rispettare: una negativa e l’altra positiva.

Innanzitutto va indebolita la presa del principio di ragion sufficiente per cui ogni effetto ha una causa specifica. Che un triangolo abbia un angolo retto non causa l’equivalenza tra i quadrati costruiti sui cateti e il quadrato costruito sull’ipotenusa; l’angolo retto è condizione necessaria – se non c’è il teorema non vale – e sufficiente per l’enunciato pitagorico – se c’è il teorema vale. In matematica non si parla di cause, come in medicina si parla di cause morbose delle malattie. L’eziologia è fuorclusa in matematica ma è tuttora viva e operante in psicoanalisi, che parla addirittura di oggetto-causa del desiderio.

Il secondo insegnamento è il lavoro collettivo. Il collettivo di pensiero matematico produce sapere, ma non con la modalità magistrale. Ci sono stati geni matematici che non furono maestri. Gauss non amava insegnare; Riemann, fu un grande innovatore ma non un insegnante; così anche Einstein, che in matematica si faceva aiutare da colleghi più giovani, avendo problemi con il calcolo tensoriale. È come se oggi i matematici fossero consapevoli che l’insegnamento ex cathedra inibisce il lavoro teorico. Mille e cinquecento anni di geometria euclidea, forse anche perché i tredici libri degli Elementi di Euclide valevano come la Sacra Scrittura della geometria, hanno inibito la nascita delle geometrie non euclidee – pensate, geometrie senza il teorema di Pitagora! Resta il fatto che ogni scoperta matematica è sempre frutto di cooperazione tra più intelligenze, spesso divergenti: una individua un lemma, un’altra trasforma una congettura in teorema, una terza produce una teoria generale che “trasmuta” i valori delle teorie precedenti, in un processo quasi nietzscheano. Insomma, in matematica si coopera con un sano spirito di competizione, per far progredire il sapere.

Entrambi i punti sono ampiamente disattesi in psicoanalisi. Innanzitutto, la metapsicologia freudiana è pesantemente eziologica: le pulsioni sono cause psichiche. Le pulsioni sessuali causano la soddisfazione sessuale (quando la producono); la pulsione di morte forza l’apparato psichico a raggiungere il proprio equilibrio di eccitazione minima. La “scienza” psicoanalitica è modellata sull’antico scire per causas, rispettivamente efficienti e finali. Non esistono teoremi psicoanalitici del tipo del teorema di Pitagora nelle Sigmund Freud gesammelte Werke.

Secondo punto, la dottrina psicoanalitica è insegnata da un maestro, che la codifica secondo i propri inconfutabili ghiribizzi intellettuali. Il primo fu ovviamente Freud, che all’interno del movimento psicoanalitico assunse una posizione chiaramente rabbinica: castrazione e complesso di Edipo sono tuttora gli scibboleth indiscussi della psicoanalisi ortodossa. Le psicoanalisi eterodosse non sono da meno; non escono dall’impianto dottrinario che, anche se diverso da quello originario, come quello prevede solo conferme del dettato magistrale, mai confutazioni; gli eretici adottano semplicemente l’insegnamento di altri maestri, regolarmente “scissionisti”. L’impostazione data alla psicoanalisi da Freud e prolungata da epigoni e oppositori spiega la sua attuale deriva, sempre più lontana dalla scienza e sempre più vicina al discorso medico. Il risultato è davanti agli occhi di tutti: la psicoanalisi è diventata sempre più una Kur, una terapia, e sempre meno una Sorge, un darsi pensiero del pensiero dell’analizzante. Detto en passant, sulla Sorge la speculazione di Heidegger è illuminante e andrebbe ripresa in psicoanalisi nella teoria del controtransfert.

Che dire di più? Cerchiamo di pensare matematicamente in tanti e senza maestri. Forse Massimo Recalcati esagera proponendo lo slogan “difendiamo la psicoanalisi dagli psicoanalisti”. Basta difenderla dai maestri che l’hanno cristallizzata all’interno di una pratica medica. Lo dico da matematico dilettante, non specialista, non professionista, esattamente come da psicoanalista. Concludo con una raccomandazione: alla psicoanalisi non occorrono maestri, bastano buoni istruttori, come quelli che operano nelle scuole guida o nelle scuole piloti, soprattutto se è vero che la psicoanalisi è più vicina all’applicazione tecnica che alla scienza pura. Lasciamo i Grandi Maestri al gioco degli scacchi.

 

 

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