IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale
di Antonello Sciacchitano

Dal collettivo all'individuale

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4 giugno, 2017 - 09:02
di Antonello Sciacchitano

 

Non ho bisogno di conferme empiriche. Lo so come due più due fa quattro. Se in uno scrittarello metto un lontano riferimento alla matematica, di sicuro nell’ambiente psi o non suscito echi o vado incontro a censura. La conferma empirica è inutile, perché il fatto è di struttura. La ragione è che la cultura psi è umanistica, cioè antropocentrica. Quindi… Mi spiego.

L’umanesimo nasce e si sviluppa in Europa dal XV secolo in poi, quasi due secoli prima dell’avvento della scienza moderna. In un certo senso buona parte dell’umanesimo, esclusa una parte minore, sviluppatasi come vero e proprio umanesimo matematico, in particolare in Italia (ma poco studiato), si è andata configurando come resistenza preventiva alla nuova scienza e alla nuova matematica, in particolare all’algebra, quasi fosse un pericolo pubblico: una minaccia per l’uomo “umanistico”. Di quale pericolo si trattava? La congettura suona avventata per la maggioranza di chi mi legge, ma credo di poterne dire qualcosa a giustificazione, pur senza pretendere di convincere nessuno.

Con il pretesto di sottrarre l’uomo alla soggezione al trascendente e di porlo su basi naturali, magari come misura di tutte le cose, l’umanesimo ha surrettiziamente introdotto nella cultura occidentale una forma idealistica di pensiero, tanto rigida e categorica quanto la modalità teologica che pretendeva soppiantare. Non diversamente dalla fede religiosa, il pensiero umanistico non ammette incertezze. Non se la fa con congetture; le considera false, essendo indimostrate. La probabilità non rientra nel suo ordine di idee, come già per gli antichi, cui l’umanista si ispira. Per via dell’idealismo l’umanesimo mira all’essenza indubitabile delle cose. “Verso le cose stesse”, predicava Husserl. Come ogni religione, anche quella laica dell’idealismo umanistico pesca nello stesso bacino ideologico, alimentato dall’atavico bisogno di certezze. Ognuno di noi vuole innanzitutto sapere chi è il proprio padre. Non ci importa sapere chi fu il vero padre; ci importa sapere che era certamente molto vicino (nel desiderio dell’altro) a quell’uomo che se la faceva con nostra madre. Freud corse dietro a questa nostra (e sua) debolezza. “Chi era tuo padre?” “Certamente colui che volevi uccidere, per sposare tua madre”. Fanciullaggini, ma guai a trascurarle, considerandole falsità. Quel falso può produrre vere tragedie.

Il prezzo da pagare per acquisire le certezze mitologiche è la coartazione della libertà di pensiero. La moderna libertà di pensiero nasce dal dubbio cartesiano. Cartesio è stato pesantemente osteggiato dai successori, che si sono in mille modi ingegnati a correggerne gli errori, in particolare la sua deriva epistemica e contro-ontologica, proprio perché Cartesio pensava fuori dagli schemi scolastici e indeboliva le certezze acquisite. Gli epigoni volevano riportare Cartesio agli schemi (aristotelici) consolidati. Gaudet aberrare mens mea, ribatteva il Nostro nella Seconda meditazione, precisando che la sua mente non amava essere costretta neppure dai vincoli della verità (sic). Nel caso della matematica Cartesio, preceduto da Leonardo Pisano, detto Fibonacci, importò nella cultura matematica europea l’algebra araba con un certo ritardo. Scrisse una Geometrie, come esemplificazione del proprio metodo, ma era un’Algèbre.

Consentitemi di partire ab ovo. Ripeto quanto affermato nel precedente post: prima che esercizio di pensiero la matematica moderna è esercizio di scrittura. C’è da fare un’osservazione banale ma significativa. I 13 libri degli Elementi di Euclide contengono figure geometriche e commenti su di esse che, guarda caso, sono dimostrazioni spesso eleganti delle proprietà di cui quelle figure godono. Depuis les Grecs, qui dit mathématique dit démonstration, è l’incipit del trattato collettivo del gruppo Bourbaki, il cui titolo, Éléments de mathématique, è una palese citazione. Ma ecco il punto: non c’è una sola formula scritta in tutto Euclide, che non sapeva scrivere neppure i numeri di cui parlava. La geometria euclidea è in buona sostanza retorica. Perciò Cartesio non l’apprezzava più di tanto. La vera scrittura matematica comincia con l’algebra araba, ho detto. Solo se algebrizzata la matematica “non può se non avanzarsi” (Galilei).

Naturalmente la scrittura algebrica accresce la resistenza alla scienza. La ragione è ovvia: essendo una scrittura ideografica, non fonetica, la scrittura algebrica non si legge; non si pronuncia; non ha voce, quindi è sgradita a ogni velleità antropomorfa. La scrittura antropomorfa, invece, è il cavallo di battaglia dell’umanesimo, che oggi sopravvive nel genere letterario romanzesco, che ci racconta storielle di vita a gogo. Il segreto della scrittura algebrica, sta agli antipodi di quella romanzesca; si avvale infatti di simmetrie significanti. Valga per tutte la formula di risoluzione dell’equazione f(x) = 0; essa porge l’immagine inversa dello zero, x = f1(0), cioè l’insieme dei valori che la funzione f applica sullo zero. Allora, moltiplicando a sinistra per f entrambi i termini dell’equazione risolvente, si verifica la simmetria: f(x) = ff1(0) = 0, come volevasi dimostrare.

L’umanesimo “umanistico” non gode di queste simmetrie; le censura perché sono la via maestra verso forme di pensiero meccanico e automatico, che si pensa da solo, senza soggetto umano che lo pensi (e neppure lo insegni). Il meccanicismo non è antropocentrico; esclude l’uomo (il principio antropico) e il suo creatore (principio teologico) come oggetto privilegiato del proprio pensiero; magari il meccanicismo perseguita l’uomo, pensa l’umanista incline alla paranoia (tanto antidarwinismo ha questa matrice paranoica). Il meccanicismo si apprende da buoni istruttori, che non sono necessariamente dei guru; basta fare esercizi in un opportuno collettivo di pensiero, dove ognuno apprende lo stesso schematismo applicandolo come tutti gli altri e controllando i propri risultati con quelli degli altri. Non avendo riferimenti autorevoli in qualche maestro, che lo garantisca, essendo fondato solo su sé stesso e sulle proprie simmetrie, il meccanicismo è dall’umanesimo avvertito come destabilizzante per il pensiero dominante, stabilito dall’autorità riconosciuta collettivamente, quindi l’unico autorizzato.

Il meccanicismo è perciò il pericolo che l’umanesimo teme più del diavolo; è la bestia nera che minaccia la propria sopravvivenza; è il gatto nero che gli attraversa la strada, contro cui fa scongiuri. Allora erige i bastioni dell’idealismo e dello storicismo, supportati da un solido principio di ragion sufficiente: ogni effetto ha una causa e solo una, quella fissata dall’ideologia vigente. Perciò, quando in un mio discorso inclino al meccanicismo, l’umanista che mi ascolta mi dice benevolo: “Interessante, anche se non ho capito tutto”. Giustamente, perché un meccanismo non è fatto per essere capito ma per essere formulato, cioè messo in formule, che ne evidenzino le simmetrie interne.

Il post di oggi ha la pretesa di evidenziare una simmetria “disumana” tra individuale e collettivo, connessa al teorema di Wedderburn del 1905, ai tempi in cui Freud si affaticava sui tre saggi della teoria sessuale. Voglio mostrare nel caso particolare di quel teorema come l’individuale potrebbe discendere dal collettivo. L’uomo discende dagli uomini, sono solito dire: il singolare dal plurale.

Il caso che sto citando è però curioso. Il teorema di Wedderburn – ogni corpo con un numero finito di elementi è commutativo – è raramente riportato nei manuali o nelle storie della matematica. Ciò è strano, perché Wedderburn fu un insigne algebrista, attivo a Princeton, dove insegnava; è famoso per la sua tesi sui numeri ipercomplessi e per i suoi lavori sull’algebra degli anelli e delle matrici. Allora perché il suo teorema, in sé un piccolo gioiello, è poco gettonato in accademia? Probabilmente perché teorizza una verità empirica immediata, praticamente ovvia, come due più due fa quattro, che non apre vasti orizzonti teorici e che tutti conoscono per esperienza, anche gli scolaretti che vanno apprendendo l’aritmetica modulare, inventata da Gauss. Infatti tutti i corpi numerici finiti che si incontrano nella pratica matematica, per esempio i resti della divisione dei numeri interi per un numero primo, sono commutativi rispetto alla moltiplicazione (sono cioè campi). Chi non ricorda la formuletta appresa a scuola? “Invertendo l’ordine dei fattori il prodotto non cambia”. Nel caso dei corpi finiti la commutatività sembra una proprietà ereditata dai corpi infiniti che stanno a monte dei finiti. Non sembra necessario un teorema per stabilirla ulteriormente.

Allora perché cito qui il teorema di Wedderburn, per altro senza dimostrarlo? Perché ha una formulazione che suonerebbe suggestiva all’orecchio dell’analista: non esistono corpi finiti (che non siano anche campi)?

No, lo cito giusto per illustrare come una proprietà collettiva – qui la finitezza del numero degli elementi dell’insieme – trapassa in modo automatico in una proprietà individuale – qui la commutatività del prodotto dei singoli elementi dell’insieme – senza ricorrere a processi identificativi a qualche Führer o a qualche ideale. La mia congettura è che ai collettivi di psicoanalisi e agli individui che li popolano potrebbe andare come ai corpi numerici finiti, che sono necessariamente campi, cioè sono commutativi. Vorrei che fosse chiaro come una proprietà collettiva di un certo tipo si possa trasformare in una individuale di tutt’altro genere, come la finitezza collettiva fa la sua metamorfosi nella commutatività del prodotto dei singoli elementi.

Convincente? Temo proprio di no. Un paio di orecchie sorde… Sarei stato forse più convincente affermando che migliori condizioni igieniche ambientali della popolazione aumentano la speranza di vita dei singoli. Don’t worry. Tra matematica e psicanalisi esistono analogie, ma restano solo analogie. Non c’è bisogno di diventare matematici per fare gli psicanalisti. Per me la matematica è solo un divertimento. In analisi mi serve per mantenere l’attenzione ugualmente sospesa durante la seduta, pensando a qualche teorema dotato di una bella simmetria, come faccio regolarmente prima di addormentarmi. Ma non c’è un unico modo per addormentarsi o per ascoltare analiticamente. Ci sono tanti modi per presentificare l’“oggetto freddo” del desiderio di cui parlava Freud.

Conclusione: perseverare diabolicum. In questo sito probabilmente compariranno altri miei scrittarelli con riferimenti matematici. Non me ne voglia l’editor.

 

Poscritto

(andrebbe inserito in coda al post “Ricalcare il maestro” http://www.psychiatryonline.it/node/6784).

 

L’allievo chiede certezze al maestro. Chi dà certezze al maestro? La stessa massa degli allievi. È questo il solido doppio legame scolastico, ben più difficile da sciogliere di quello schizofrenogenico, individuato da Bateson. Le scuole non si superano facilmente. Di solito le superano altre scuole, ma il doppio legame maestro-allievo migra immodificato da scuola a scuola. Cambiano gli attori ma la scena rappresentata è sempre la stessa e primitiva; è una vera e propria Urszene, quasi mai analizzata. In ambito scolastico il passaggio dalla dimensione individuale alla collettiva, e viceversa, è un cortocircuito autoreferenziale. È un protocollo da cui non si esce.

Non è questione di verità ma di azione di massa. La vera religione è la cristiana, cattolica, apostolica e romana – mi insegnava il mio maestro. La verità del cattolicesimo è massiccia; secondo l’annuario pontificio del 2017 vanta un miliardo e 285 milioni di fedeli nel mondo. In questo caso la verità collettiva determina totalmente l’individuale, come avviene nel teorema di Wedderburn o … nei Dubliners di Joyce.

Si rilegga I morti. Fossi stato più umanista avrei tenuto lo stesso discorso di questo post commentando quel racconto invece del teorema di Wedderburn. Invece, sono più psichiatra che umanista e so come la verità del collettivo incombe sul folle, dissociandone il pensiero senza lasciargli molte possibilità di ricomporlo (senza possibilità di “individuazione”, secondo Jung). Per i non psichiatri valga la testimonianza di un autore che ha saputo attraversare la propria follia con la scrittura, Joyce appunto, che riuscì a ripercorrere la strada dal collettivo all’individuale.

 

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