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LACAN E LE SEDUTE A TEMPO VARIABILE. Intervista a Roberto Pozzetti

20 Giu 17

Di FRANCESCO BOLLORINO, pozzettiroberto
NDR: Sul tema della variabilità del tempo delle sedute analitiche si è consumato, a suo tempo, lo strappo tra IPA e Jacques Lacan. Si tratta quindi di un tema clinico e teorico di grande rilievo su cui varrebbe la pena fare chiarezza anche perché nel tempo sono sorte ulteriori polemiche attorno alla durata intesa come BREVITA’ da alcuni ritenuta eccessiva delle sedute di analisi lacaniana. E’ un tema spinoso ma proprio come tale adatto ad una rivista libera  e polifonica quale è Psychiatry on line Italia ed è con questo spirito che proponiamo questa intervista.
Come  rivista abbiamo deciso di proporre una serie di domande sul tema a diversi psicoanalisti di formazione lacaniana.

Intervistando un lacaniano non si può pretendere che non usi un linguaggio lacaniano ma si può pretendere, e noi lo abbiamo fatto, che, per spirito di chiarezza e per uscire da veri o presunti esoterismi, ogni temine sia spiegato in maniera chiara per consentire anche a chi non conosce il pensiero di Lacan di comprendere pienamente il senso delle risposte. Non si tratta di semplificare o fare della divulgazione si tratta di permettere la comprensione e l’eventuale apertura di un dibattito attorno a questo testo.

Sullo stesso tema si veda l'intervista ad Alex Pagliardini seguendo il link.
Sullo stesso tema si veda anche l'intervista ad Annalisa Piergallini seguendo il link
 
Sullo stesso tema si veda anche l'intervista a Franco Lolli seguendo il link

FRANCESCO BOLLORINO: Su quali basi teoriche e su quali presupposti clinici si basa, storicamente e contenutisticamente, la proposta tecnica di Lacan di istituire un setting in cui il tempo diventi variabile anziché con una durata prefissata e classicamente compresa tra i 45 e i 60 minuti come è  nella psicoanalisi freudiana classica?
 
ROBERTO POZZETTI: Ben prima della sua ormai famosa rottura con l'IPA, quando era un eminente Membro della Società Psicoanalitica di Parigi, noto come uno dei kleiniani francesi di spicco, Lacan eseguì un lavoro rigoroso di messa in forma logica di quanto avviene in una seduta psicoanalitica. In una seduta, prima di ogni altra cosa, si parla. Questo fatto non è accessuale, non è una banalità. Parlare è l'atto umano per eccellenza che avviene fin dai primi mesi di vita, ovviamente in modo diverso in base alle età. Un animale non parla, un bambino parla. 
Lacan studia la logica dell'inconscio freudiano scoprendo, nei testi dello stesso Freud, che l'inconscio è imperniato sulla funzione della parola e sul campo del linguaggio. I sogni, i motti di spirito, i sintomi stessi, evidentemente i lapsus: tutte queste manifestazioni hanno struttura linguistica. In termini lacaniani, l'inconscio è dunque strutturato come un linguaggio. Il linguaggio è la condizione dell'inconscio.
Data questa premessa, una seduta psicoanalitica ha il compito di puntare alla funzione della parola e al campo del linguaggio ascoltando il discorso del soggetto onde risultare davvero incisiva sull'inconscio. Cito uno scritto intitolato, appunto, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, dello stesso Lacan dei primi anni Cinquanta, di poco antecedente lo strappo con l'IPA: “Così, è una felice interpunzione a dare il suo senso al discorso del soggetto. E' questo il motivo per cui la sospensione della seduta, di cui la tecnica odierna fa un'interruzione puramente cronometrica e come tale indifferente alla trama del discorso, vi gioca il ruolo di una scansione che ha tutto il valore di un intervento per precipitare i momenti conclusivi. Il che suggerisce di liberare questo termine dalla sua cornice abitudinaria per sottometterlo a ogni fine utile della tecnica” (Scritti, Volume 1, Einaudi, Torino, p. 245).
Commentiamo questo capoverso di Lacan,  relativo a un contributo dei primi anni Cinquanta. Il discorso del soggetto trova senso quando l'analista mette un punto. Una seduta che si conclude quando suona la campanella, come fosse un'ora di lezione, lascia il discorso interrotto. Si tratta evidentemente di una raffigurazione folkloristica, scherzosa, di una certa psicoanalisi classica in quanto non arrivo a presumere che un analista intelligente ordinerebbe al paziente di tacere perché è suonata la campanella. Tuttavia, il rischio di distogliersi dal valore della parola per occuparsi del timing dell'orologio esiste.  La sospensione della seduta ha il valore di un intervento cruciale, accostabile a un'interpretazione, in quanto focalizza il concetto sul quale l'analista decide la conclusione. Dunque Lacan libera il tempo della seduta dai 45-50 minuti classici iniziando una prassi nuova nella quale il tempo non è più tanto il tempo cronologico quanto il tempo logico. Tempo logico, tempo del logos. Tempo logico, tempo della parola, del linguaggio, del discorso. Tempo logico, tempo del soggetto.
Nello scritto convocato, Lacan ne porta già  un esempio applicativo: “sperimentando le nostre sedute brevi, siamo riusciti a far venire alla luce in un soggetto maschile fantasmi di gravidanza anale con il sogno della sua risoluzione per taglio cesareo, in un intervallo di tempo in cui altrimenti saremmo stati ancora lì ad ascoltare le sue speculazioni sull'arte di Dostoevskij” (ibidem, p. 309).
Le sedute di 45-50 minuti si riempiono spesso di orpelli, di fronzoli, di parole vuote.  Divengono sovente conversazioni poco interessanti oppure talmente avvincenti sul piano dialettico e culturale da sfociare nella dimensione di chiacchierate sulla letteratura, come nel paziente di Lacan il quale parlava di Dostoevskij, sulla musica dei Radiohead o sulla situazione partitica del Parlamento Italiano. Altre volte si gonfiano di materiale ricco ed emotivamente difficile da elaborare, come quando si dice che “vi è troppa carne al fuoco”. La scansione della seduta, il taglio della seduta permette di oscillare nel tempo logico, concludendo in base alla prudenza e alla saggezza dell'analista. Il tempo variabile pone in risalto l'esperienza clinica dell'analista che, anziché venire rassicurato dal timing cronologico dei 45-50 minuti, ha il compito di valutare ogni volta, con saggezza e prudenza, il logos emerso in seduta onde concluderla in base al tempo logico, al tempo di quel soggetto. Sta all'analista scegliere il momento di concludere facendosi partner di quello specifico paziente, in quel preciso momento della sua analisi.
 
 
FRANCESCO BOLLORINO: Per tempo variabile si dovrebbe intendere un tempo che varia  a seconda del momento analitico (per capirci da 1 minuto a molte ore per dire) ma nella vulgata e credo anche nella pratica questo si è trasformato, spesso, in sedute della durata molto breve e ancora si può paventare il rischio che tale durata breve, istituzionalizzata, diventi l’equivalente dei 45 minuti classici con il sospetto che alla fine significhi semplicemente poter ricevere più pazienti nell’unita di tempo. Che ne pensi?
 
ROBERTO POZZETTI: Come si evince dal passo di Lacan che ho citato, la proposta operativa circa il tempo delle sedute viene esplicitata al consesso dei colleghi all'inizio degli anni Cinquanta. Nel corso dei decenni a seguire, riuscirà a fare Scuola.
Credo che istituzionalizzare il tempo breve della seduta come una sorta di nuovo regolamento sia un macroscopico errore.  Non so se qualche collega lacaniano operi davvero secondo tale schema; se così fosse, andrebbe a riproporre esattamente il problema suscitato dalla seduta di tempo standard, analogamente a quanto avviene con i 45 minuti fissi. L'incontro si concluderebbe sistematicamente dopo 10 o 15 minuti oppure allo scadere dei 30 minuti ripresentando, di fatto, il timing cronologico tanto criticato da Lacan. Il paziente ne trarrebbe ben poco giovamento. L'unico ad avvantaggiarsene sarebbe a quel punto l'analista sia in termini commerciali, per il danaro versatogli da numerosi pazienti, sia in termini del potere conferito dalla dinamica del transfert.
Rammentiamo che lo strappo tra IPA e Jacques Lacan si consumò fondamentalmente per un motivo: svolgendo sedute brevi, nulla gli proibiva di ricevere parecchi colleghi in analisi didattica. Questo gli recava ascendente, visibilità e potere istituzionale con tutte le enormi implicazioni, palesi a chiunque, che tutto ciò fomentava. Costituisce un sintomo delle istituzioni psicoanalitiche di stampo lacaniano ? Conflittualità, invidie, rivalità, pregiudizi (che si trovano comunque, in ogni organizzazione umana) sono esacerbate dal fatto che le sedute brevi offrono l'opportunità di ricevere molti pazienti, soprattutto colleghi, senza inviarli ad altri membri delle stesse istituzioni ? E' di tutta evidenza che un analista IPA non è in grado di ricevere più di una dozzina di pazienti al giorno mentre un lacaniano sul quale, per svariate ragioni, si addensa il transfert, ne può accogliere in quantità maggiore.
Ho una posizione critica verso sedute meticolosamente iperbrevi. Nella mia pratica come analista, non le riduco quasi mai a meno di 15 minuti circa e tendo a fissare ogni appuntamento avendo almeno una mezz'ora di margine da quello successivo. Nei primissimi incontri oppure in fasi di acuzie, di urgenza, ho l'abitudine di effettuare sedute più ampie del comune.
Pur in linea di massima brevi, le sedute dovrebbero rimanere di tempo variabile concludendosi in un momento significativo. Come diceva recentemente Bassols, attuale Presidente dell'Associazione Mondiale di Psicoanalisi della quale sono Membro, il taglio delle sedute consegna “una grande responsabilità” all'analista. Credo sinceramente sia del tutto comune fra i colleghi lacaniani operare secondo questo compito di responsabilità etica, senza scimmiottare i tempi iperbrevi raccontati dagli analizzanti di Lacan.
Ricordo Carlo Vigano', con il quale ho condiviso lo studio di Como per una dozzina di anni, rievocare una seduta in Rue de Lille, davvero eccezionale in diverse bicchierate con un ristretto gruppo di allievi, dopo il suo seminario. Sdriatosi sul divano, pronunciò queste parole: “Ho pensato che…”. Lacan intervenne deciso: “Sì, è questo !”. Quindi lo congedò subito dopo. Amici e colleghi che hanno collaborato tanto con Viganò confermeranno senza dubbio quanto sto riportando qui.
Ebbene, credo che queste sedute iperbrevi di Lacan (sempre secondo Viganò, si affiancavano ad altre di circa mezz'ora) siano da leggere come qualcosa di particolare, relativo a una sua posizione non comune. Lacan era allora un analista davvero celebre,  che riceveva pazienti in numero elevatissimo, da varie parti d'Europa, spesso giunti da lui per affinare quanto lavorato nelle precedenti tranches di analisi svolte secondo un setting più classico. Il tempo iberbreve pone in risalto gli elementi essenziali dell'inconscio.
Sono convinto che oggigiorno, almeno in Italia, i colleghi lacaniani operino con sedute di tempo variabile ma senza attuarne quasi mai di iperbrevi. Pare che Lacan avesse addirittura due stanze colme di pazienti nelle quali dar loro un posto prima delle sedute. Affermo tranquillamente che alcuni dei miei supervisori, pur molto esperti e abbastanza noti, di fatto, non utilizzano neppure una sala d'attesa. Altri la utilizzano data l'afflusso abbondante che esperiscono. Per quanto mi riguarda, trovo positivo un certo tempo d'attesa nel quale operare uno smarcamento dalla realtà della vita quotidiana onde facilitare l'emergere della realtà psichica nella stanza della seduta. Molto raramente, però, nel mio modo di praticare la psicoanalisi, capita che nella mia sala d'attesa vi sia più di un paziente. Soprattutto, non ho la consuetudine di svolgere sedute sempre molto brevi.
 
 
 
FRANCESCO BOLLORINO: Connesso con la durata variabile vi è il concetto di “taglio sulla parola”. Puoi spiegare tecnicamente e teoricamente il significato clinico di tale comportamento dell’analista lacaniano?
 
ROBERTO POZZETTI: Il tempo variabile della seduta vuol dire che l'analista la conclude, la taglia in un punto ben preciso. Non agisce, dunque, in basi ai minuti trascorsi né tantomeno sulla scorta di quanto prova nel controtransfert e neppure in qualche misteriosa proprietà del suo stesso mondo emozionale.
L'analista si attiene al discorso del paziente. Il taglio della seduta avviene con una sottomissione avvertita a quanto dice il paziente. Talvolta, si tratta di termini che vengono dall'inconscio. L'inconscio si dispiega con un lapsus (uno tipico è la parola “madre” al posto della parola “moglie” che si intendeva dire), attraverso un termine equivoco per omofonia (per esempio, dicendo la parola “anno” che ha lo stesso suono di “hanno” una ragazza dice qualcosa della propria invidia per gli uomini che lo “hanno”) oppure ancora raccontando un sogno nel quale compare una parola dal doppio senso interessante e significativo (si veda quando, narrando una produzione onirica imperniata su un match sportivo, certuni dicono la parola “fallo”). Altre volte, il taglio della seduta si decide dinanzi a un appello al limite formulato dal paziente stesso (come in un “Dovrei ridurre la mia irruenza”) oppure quando appare un interrogativo capitale circa il proprio posto nell'esistenza (“In fondo, chi sono ?” oppure “Cosa vuole il partner da me ?” oppure ancora “Mi piacciono i ragazzi o mi piacciono le ragazze?” ).
Teoricamente, si tratta di puntualizzare una parola importante rispetto alla direzione della cura. A partire da tale parola, magari, verranno portate integrazioni, a posteriori, nelle sedute seguenti.
 
 
FRANCESCO BOLLORINO: Mi sembra che vi sia una dicotomia tra dominio del tempo (proprio della tecnica lacaniana) e dominio del timing (proprio della tecnica freudiana classica) accomunati dalla necessità o dal tentativo da parte dell’analista di intervenire nel momento migliore per creare consapevolezza nel paziente. Che ne pensi?
 
ROBERTO POZZETTI: Sono d'accordo. Mi pare un punto di vista acuto e saggio.
Penso che, nel setting classico, la tecnica punti a interventi dell'analista nel campo della seduta intesa in forma di contenitore e come un apparato per pensare i pensieri, per dirla à la Bion. Nelle sedute lacaniane, senza negare il valore di una certa funzione di contenimento talora disangosciante, giunge all'apice l'intervento dell'analista per l'appunto nel lampo della conclusione.
Nel setting classico, sempre per rifarsi a un'espressione tipica di un Winnicott, peraltro amico di Lacan dal quale era solito trascorrere alcuni giorni nel corso delle vacanze estive, l'interpretazione viene adempiuta all'interno della seduta. Questo accresce la consapevolezza del paziente e rende maggiormente conscio l'inconscio. Nell'analisi lacaniana, il taglio della seduta, fondato su una parola precisa dell'analizzante, diviene già in quanto tale un atto interpretativo. Basta che l'analista ripeta la parola appena ascoltata per far riecheggiare un altro senso, un'altra scena, la scena dell'inconscio.
Ricevo per la maggior parte soggetti che hanno già svolto altri percorsi analitici, di approccio non lacaniano; non a caso, molti fra loro notano il mio stile più dialogico ma meno interpretativo di quanto hanno vissuto nelle precedenti esperienze di analisi.
 
 
 
FRANCESCO BOLLORINO: Nella tecnica tradizionale per certi versi tutto si conclude all’interno della seduta mentre con la tecnica lacaniana sembra che il working through sia volutamente ed espressamente portato “fuori della stanza di analisi” con un lavoro affidato al paziente e alla sua introspezione. Che ne pensi?
 
ROBERTO POZZETTI: Questo è certamente un argomento cruciale.
Nella tecnica tradizionale, il working through, risulta giocato fra transfert e controtransfert, soprattutto attraverso quanto viene portato in seduta e provato in seduta.
Nell'analisi lacaniana, il paziente, che viene chiamato analizzante anziché analizzato per sottolinearne il ruolo attivo nel decifrare il proprio inconscio e i propri sintomi, viene messo al lavoro anzitutto dopo la seduta. Tra un appuntamento e quello consecutivo, emergeranno elementi correlati con il procedimento degli incontri (associazioni, concatenazioni, considerazioni, sogni, fantasie, timori, angoscia, voci, elucubrazioni): un metodo di lavoro efficace starà nel riportare il suddetto materiale in seduta, riallacciandolo alle tematiche trattate in precedenza come si stesse tessendo una trama, una filiera. Uno dei segni lampanti di un inconfutabile disfunzionamento del dispositivo dell'analisi con un certo soggetto umano – non sempre irrimediabile – starà proprio nel constatare l'impossibilità di operare queste connessioni tanto da lasciare ogni seduta sfilacciata, a sé stante, priva di nessi con quelle precedenti e con quelle successive.
Nella tecnica classica, l'analista mette in gioco un proprio sapere tanto teorico quanto esperienziale quanto, ancor più francamente, relativo al vissuto controtransferale.
Nell'analisi lacaniana, di solito, l'analista fa un passo indietro: deve saper ignorare quello che sa in una prospettiva che valorizza l'ignoranza, il non sapere avvertito. Più l'analista sa o crede di sapere, nell'analisi, più capisce troppo presto. L'analizzante ha il ruolo attivo, è lui che effettivamente compie il lavoro analitico e l'analista dovrebbe lasciare spazio alle produzioni, alle invenzioni, alla creatività che lui porta in seduta.
Nella tecnica classica, la distinzione fra ciò che avviene dentro e ciò che avviene fuori dalla stanza dell'analisi rinvia palesemente a quella fra mondo interno e mondo esterno di matrice kleiniana. Per Lacan, in un modello topologico anziché strettamente geometrico, questa netta suddivisione a compartimenti stagni non convince. La topologia è una matematica in cui interno ed esterno non sono squadrati e ne costituisce un esempio la camera d'aria dove la stessa sostanza (l'aria, dunque) si trova sia all'interno che all'esterno. Il working through analitico avviene sia all'interno della seduta sia all'esterno, nella vita ordinaria e nella vita onirica. Anche per questo, due anni fa, quando abbiamo ideato il nome della nostra Associazione di Promozione Sociale, ci siamo orientato su InOut. Abbiamo preferito scrivere In e Out uniti, senza staccarli, proprio per rimarcare come interno ed esterno non siano così bruscamente disgiunti, per nessun essere umano.
 
 
FRANCESCO BOLLORINO: Ritieni possibile esportare il tempo variabile dentro setting non lacaniani ovvero utilizzare il tempo variabile come uno strumento di miglioramento della qualità clinica dell’intervento psicoanalitico?
 
ROBERTO POZZETTI: Credo che molti clinici, dichiarandolo esplicitamente o meno, talvolta raccontandolo nei conciliaboli di corridoio senza esporlo pubblicamente, per ragioni politiche quanto ai legami con le proprie comunità scientifiche di appartenenza, utilizzino già, con certuni pazienti, il metodo del tempo variabile delle sedute. Sono convinto si tratti di un segno di lucidità, frutto anche di una certa esperienza che porta a smarcarsi da adesioni acritiche e dogmatiche a modelli stantii e messi in discussione dalla quotidianità di una prassi. 
Riporto testualmente quanto scritto, sulla propria pagina FB professionale, dal Professor Andrea Carta, coordinatore del corso di laurea in Psicologia della LUDeS Higher Education Institution – Campus Lugano, dove io stesso insegno Psicologia Dinamica: <<Appare del tutto condivisibile la riflessione circa il tempo variabile della seduta lacaniana anche in setting di psicoterapia ipnotica neo-ericksoniana. In particolar modo avviene un passaggio dal tempo puramente cronologico al tempo proprio dell’esperienza di trance. Se da un lato, infatti, una delle caratteristiche principali della seduta ipnotica è la dissociazione, il soggettivo orientamento nel tempo (fino all’estremo della perdita di cognizione spazio-temporale), dall’altro, la seduta diventa uno scorrere del tempo puramente personale soprattutto del terapeuta, trattandosi di una “situazione comunicativa relazionale” con il paziente. (J. Haley, Terapie non comuni, Astrolabio, 1976). Se è vero, come affermato da M. Erickson, che lo scopo dell’ipnosi è “accedere al potenziale inconscio e alla capacità di apprendere del cliente, depotenziando al contempo i suoi schemi mentali” (Ipnoterapia, Astrolabio, 1982), il tempo e la scansione della seduta devono seguire il noto principio del tailoring: ogni individuo è unico, pertanto sarà “tagliato su misura” anche il setting. >>. Come misconoscere, pur da vertici teorici ed epistemologici sicuramente diversi, delle affinità nella pratica clinica ? Credo che il tempo variabile della seduta sia fruibile da tutti i clinici volti a “tagliare su misura”, come scrive Andrea Carta, il funzionamento della cura in base al tipo di paziente che ricevono e a tenere in considerazione quale determinato momento la cura stessa stia attraversando. Probabilmente, diversi colleghi potranno concordare su una linea tendenziale indirizzata ad ampliare il tempo della seduta nei primi colloqui e nei momenti di difficoltà attraversati da un paziente così come a ridurne il tempo nella prospettiva della fine della cura stessa.
Per concludere, ribadisco quanto scritto sopra, a prescindere dall'orientamento epistemologico e di teoria della clinica di ciascun collega: il tempo variabile della seduta, pone in auge in modo rigoroso la responsabilità etica dell'analista nel concludere la seduta, anziché su capricci e vissuti meramente personali, su un punto significativo per quel paziente, nella sua irripetibilità, in una precisa fase della cura.

 

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5 Commenti

  1. antonello.sciacchi16

    Tutto giusto, obiezioni e
    Tutto giusto, obiezioni e risposte. La giustificazione di Roberto Pozzetti delle sedute a tempo variabile è quella lacaniana ortodossa: funzione e campo della parola, tempo logico e non cronologico, taglio della seduta ecc. Però sfugge a entrambi un punto. La seduta variabile non è una prescrizione tecnica, come potrebbe essere una direttiva del ministero della salute. La seduta variabile è una possibilità contingente: la seduta può essere breve o può non essere breve. Non c’è regola, finalmente. L’atto analitico è sospeso tra analista e analizzante; consegue all’interazione tra transfert e controtransfert.
    Per quel che vale il riferimento personale, noto che le mie sedute con il passare del tempo si sono allungate. Sono tornate sui 35-45 minuti rispetto ai 15 di quando ero ancora identificato a Lacan. Curiosamente, ho un paziente che si autoregola: fa sedute di venti minuti e le conclude prima di quando le concluderei io.
    Il tema caldo resta il controtransfert, sul quale mancano ancora valide intuizioni teoriche, che ci facciano uscire dall’ambito medico della Kur (cura) e ci facciano transitare verso il campo della Sorge (sollecitudine, prendersi cura). Ci vuole tatto, ricordava Ferenczi, ma ci vuole anche un po’ di teoria, magari scientifica (absit iniuria…).

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    • pozzettiroberto

      Caro Antonello, il tema della
      Caro Antonello, il tema della differenza a volte sfumata fra controtransfert e desiderio dell’analista è sicuramente importante. Io rimarrei sostanzialmente d’accordo con il Lacan del seminario VIII quando afferma che non è un buon presagio se un analista non prova mai sentimenti controtransferali. Tuttavia, l’analista dovrebbe essere posseduto da un desiderio più forte in quanto si è prodotta in lui una mutazione del suo desiderio. In sintesi, il controtransfert è del tutto umano e funziona sull’asse immaginario mentre il desiderio dell’analista è una funzione simbolica cui attenersi quando si pratica la psicoanalisi.
      E’ poi chiaro che, quando non siamo nella posizione dell’analista, abbiamo i nostri sentimenti umani e siamo esseri umani come tutti gli altri, calati in un mondo in cui esiste e prolifera l’immaginario. Come analisti, quando riceviamo analizzanti sarebbe preferibile di no. In fondo, anche Bion disse che un’analisi basata sul controtransfert è destinata a fallire. Tu come prosegui nel dibattito ?

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      • admin

        A me sembra che ogni assoluto
        A me sembra che ogni assoluto ha dei limiti ovvero: se da un lato non si può basare una analisi solo sull’analisi del transfert e controtransfert sono molto perplesso della possibilità di escluderli dal campo analitico
        Per altro l’inconscio esiste e temo che il controfranfert buttato fuori dalla porta possa rientrare dalla finestra essendo gli analisti appunto esseri umani

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        • pozzettiroberto

          Anch’io credo sia impossibile
          Anch’io credo sia impossibile escludere il transfert e il controtransfert dal campo analitico. Sono, però, due cose diverse: il transfert è un elemento fondamentale, senza il quale non si avvia neppure l’analisi e si rimane, semmai, a un livello meramente clinico; il controtransfert non è un elemento fondamentale per quanto capiti umanamente. Rispondere al transfert sul piano del controtransfert implicherebbe stare sempre a livello interpersonale mentre, almeno se si considera l’ordine simbolico, si tratta di andare oltre questo piano. Questo senza arrivare a una posizione fredda, asettica: il desiderio dell’analista è importantissimo. Però, il desiderio dell’analista non è il desiderio personale. E’ una funzione logica, una funzione simbolica.

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          • admin

            Risposta compensibile che non
            Risposta compensibile che non mi convince affatto. Mi suona tutto molto poco clinico poco reale molto iniziatico
            L’analisi non è lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta semmai è il diario della motocicletta dove si va in due con ruoli diversi ma in due

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