PENSIERI SPARSI
Tra psichiatria, impegno civile e suggestioni culturali
CHE COS’È LA PSICHIATRIA? 50 anni dopo. Parte IV. E oggi?
8. 50 anni dopo: e, insomma, che cos’è la psichiatria… oggi?
E oggi invece, 50 anni dopo - viene spontaneo chiederci - Che cos’è la psichiatria? Oggi che di quella rivoluzione culturale che ha scosso il mondo nel 1968 rimangono certo tante tracce nel costume, ma che hanno così meno spazio di allora l’esercizio della critica, il gusto della contestazione, la disponibilità a cogliere la complessità e le contraddizioni nei problemi, lo sforzo di sottrarci all‘opprimente e anonima dittatura della tecnica, come si riposiziona oggi questo discorso?
Psichiatria e libertà - Oggi che non abbiamo più padri da onorare, come era al tempo di Marandon de Montyel, né padri da dover altrettanto obbligatoriamente contestare, come al tempo di Jervis e di Schittar, ma forse solo ex-figli che sono messi in crisi dal proprio ruolo di padre, di fronte ai quali i figli, quelli veri, non sanno bene che posizione dover prendere; bene, oggi cosa ne è del paternalismo o della reciproca contestazione? Siamo ancora interessati, insomma, oggi a interrogarci in modo dialettico sul senso dei nostri progetti di riabilitazione (e già sull’uso di questo termine ci sarebbe da pensare), sulla loro relazione con la libertà? Sugli spazi di libertà che lavoriamo ad aprire ai nostri pazienti, e su quelli nei quali ci muoviamo noi stessi? E’ ancora importante, oggi, la questione della libertà, è ancora un bisogno che continuiamo ad avvertire, per noi stessi e per gli altri, o si è trasformata in un fastidio, un intralcio alle magnifiche sorti e progressive della nuova parola d’ordine che non lascia spazio a dubbi e discussioni: efficienza?
Credo che rileggere oggi Che cos’è la psichiatria?, ritornare a porci oggi questa fondamentale domanda, debba significare per noi anche riflettere su questo: che cos’era la psichiatria nella sua relazione vitale con il tema della libertà nel 1896, che cosa nel 1967 e che cos’è oggi.
Che cos’è la malattia mentale? - Ma non è questa domanda di fondo, certo, la sola che questo testo straordinariamente ricco ci suggerisce. Altre ne vengono alla mente rileggendo le cose che ci siamo, fin qui, sforzati di evidenziare: che fine ha fatto la tendenza a scambiare, noi psichiatri, quei “fantasmi di malattia” dei quali ci occupiamo - e che forse trovano nelle malattie della medicina la cosa che ad essi forse più si avvicina - per vere malattie? Qual è, oggi, la relazione tra psichiatria e medicina?
Essere terapeutici - Siamo davvero disponibili, come medici e come operatori, a lasciare che sia l’altro a costruire e distruggere il nostro ruolo a seconda del bisogno che ha di sentirsi protetto o di sentirsi autonomo, e siamo sempre abbastanza preparati, formati per questo? Ci sembra utile, nella nostra psichiatria di comunità, ad assumere quella posizione “essenzialmente terapeutica” (cioè naturalmente, spontaneamente, in modo preriflessivo terapeutica), che per Basaglia avrebbe dovuto avere l’operatore della nuova psichiatria, e siamo capaci a farlo? Siamo disposti a tenere inevitabilmente aperta la contraddizione per la quale, tra i nostri pazienti, siamo sì nel gruppo, ma siamo anche ben consapevoli di non fare davvero parte del gruppo fino in fondo?
I luoghi - Siamo sufficientemente preoccupati, e lo sono le nostre amministrazioni, di mettere a disposizione della cura luoghi armonici, che soprattutto non rischino di ricordare l’istituzione, l’ospedale, il collegio, la scuola? Pensiamo ancora, noi e i nostri amministratori, che questo sia importante?
Le parole dell’altro - Siamo abbastanza attenti alla parola dell’altro, alla sua critica anche, come lo erano gli operatori di Gorizia durante quelle due assemblee sul lavoro e la paga? E siamo abbastanza attenti a batterci perché siano recepite le esigenze che l’altro esprime, anche quando si tratta di bisogni materiali, concreti, il lavoro, il reddito? Si sentono abbastanza liberi, i nostri pazienti, di dire la loro, anche quando devono temporaneamente rinunciare allo straordinario potere che dà loro nei nostri confronti (e crea, certo, anche tanti problemi) l’essere “fuori”, , nel territorio, nel mondo, fuori dalle porte delle quali soltanto noi abbiamo la chiave[i], che infondo è la vera novità della nuova psichiatria?
Il lavoro e la ricchezza - E poi - certo anche al di fuori della psichiatria - che fine hanno fatto i dubbi che i ricoverati di Gorizia si ponevano intorno al lavoro, e intorno alla paga? Cioè come stiamo distribuendo il lavoro, chi resta fuori, come lo stiamo remunerando, come stiamo distribuendo la ricchezza? Abbiamo aperto questo paragrafo chiedendoci che fine ha fatto la questione della libertà; ma oggi, anche, in questo centenario del 1917, che fine ha fatto la questione dell’equità? E’ lecito ancora pronunciare questa parola? (Ma questo, d’accordo, non c’entra; non risponde alla domanda: “che cos’è la psichiatria?”. Risponde semmai a quella: “che cosa siamo noi?”).
Il lavoro e la cura - E ritorniamo quindi al tema. Ci ricordiamo abbastanza le parole di quella ricoverata all’assemblea di Gorizia, che - certo - le medicine aiutano a uscire dalla fase acuta della malattia e non ricadervi, ma poi: “aiuta più il lavoro che le medicine”? Il lavoro che dà un senso alla vita, che fa sentire potenti del fatto di trasformare, insieme a tutti gli altri, la realtà; e potenti, anche, di quel po’ di denaro che, con il lavoro, riusciamo ad avere in tasca e a tradurre in libertà.
Psicoterapia e istituzione - Ancora, siamo abbastanza disposti a interrogarci sul nesso della relazione tra psicoterapia e istituzioni psichiatriche, su come la psicoterapia che abbiamo appreso nei nostri setting più o meno privatistici debba trasformarsi per stare dentro all’istituzione, non solo in termini spaziali ma sostanziali, per abitarla, animarla ma anche trascenderla? Siamo in grado di progettare e costruire luoghi che siano davvero “essenzialmente psicoterapici” come proponeva Michele Risso, per operatori che siano “essenzialmente terapeutici” come scriveva Basaglia?
Carriera morale - Siamo in grado di cercare di agire sulla famiglia e sulla società, ma in primo luogo su noi stessi, per evitare che i nostri percorsi di cura si trasformino in carriere morali senza uscita dalla posizione di degente designato, a quella di degente, a quella di ex degente, in ogni caso un povero matto, come scriveva Goffman nel 1961 e come introduceva nel dibattito italiano Franca Ongaro Basaglia in quel 1967?
E’ una domanda, questa, sulla quale vorrei permettermi una digressione alla luce del saggio di Lorenzo Burti uscito sul numero di Psicoterapia e scienze umane diffuso tra la pubblicazione della III e IV parte del nostro ragionamento[ii]. Esso ha per oggetto l’attualità di Asylums e i modi in cui anche nella nuova psichiatria sono possibili “carriere morali” che concorrono a determinare quel soggetto complesso che è il “malato di mente” nella nostra società. Perché, certo, per la degradazione del soggetto a malato sono fondamentali quel tono, quell’atteggiamento, quello stile con i quali ci si rivolge a un matto, a un bambino, a uno straniero talvolta, o si parla di lui. E sono cose che possono essere cambiate dalla cultura, non dalla legge. La legge può cambiare il contenitore, non il contenuto della psichiatria, e lo ha fatto; modificare gli spazi, e i tempi. Poi Burti affronta altre questioni, e segnala come esista oggi un problema di “schedatura psichiatrica”, ben più invadente di quella giudiziaria che il fascismo aveva introdotto nel 1930, pronta ad uscire dai nostri potenti incroci informatici di banche dati quando il soggetto si rivolge a un pronto soccorso, o a una commissione patenti: così, è prima di tutto un matto, poi il resto si vedrà. Segnala l’esistenza di un problema di separazione, ancora oggi, dei luoghi della cura dai luoghi della vita, muri che delimitano istituzioni e che non si fa abbastanza per rendere permeabili. Così gli SPDC, come del resto gli ambulatori, sono luoghi dove si persegue la stabilizzazione (parola terribile), non certo la recovery. E così il modello di malattia tende a interrompere (lo scrivevano, dopo Goffman, Basaglia e anche Risso come abbiam visto nel testo del quale ci stiamo occupando) il nesso tra sofferenza e biografia, facendo della prima un evento che non appartiene più alla seconda. Quanto al delirio, Burti ha senz’altro ragione, forse oggi non gli si parla più, si è perso il gusto e la curiosità di interrogarlo. Nelle nostre istituzioni - ancora per il collega - domina spesso, la percepiamo facilmente, una ritualità acritica e direttiva, non sono accoglienti né elastiche ed è così che gran parte delle situazioni che classifichiamo come “disturbi di personalità” (e questa è un’ipotesi davvero stimolante) hanno in realtà carattere iatrogeno, sono il frutto di ripetuti respingimenti, delusioni ed espulsioni. Burti prosegue, ancora, interpellando epistemologicamente metodi e costrutti dati troppo spesso per scontati, come quello di “abilità”, registra il crollo delle pretese delle neuroscienze. Guarda con preoccupazione, ed è giusto, alla separazione nella residenzialità di strutture a “bassa intensità di cura” destinate a soggetti per i quali si è forse cessato di sperare, il “residuo”, mi verrebbe da dire, della nuova psichiatria, come se ogni psichiatria, manicomiale o comunitaria, ne producesse uno inevitabilmente. A conclusione del suo ragionamento, avanza tre proposte, che meriterebbero io credo di essere diffusamente discusse:
- prevenire il ricovero, in SPDC e nelle residenze, e iniziare immediatamente a porsi nell’ottica della riabilitazione, valorizzando l’autoaiuto
- evitare, il che saggiamente molti pazienti tendono già a fare sottraendovisi spontaneamente, istituzioni emarginanti e cronicizzanti, dove a prevalere è l’intrattenimento fine a se stesso
- chiudere con l’ideologia residenziale, e questa è forse la proposta più originale e coraggiosa, e sostituire le residenze con luoghi di vita il più possibile “normali”, case tra case nel vero “territorio”.
Dinamiche istituzionali - E ritornando invece al nostro testo, ai tanti interrogativi che ci lascia, quanto siamo consapevoli del rischio che le parole e le relazioni nei nostri luoghi possano riprodurre quelle del manicomio, e poi indirettamente quelle del lager, della colonia o della galera? Quanto siamo attenti ad evitare, nel lavoro di tutti i giorni, che questa riproduzione abbia luogo?
Contenzione fisica - E ancora poi, ci soffermiamo sufficientemente a chiederci com’è possibile che qualcuno proponesse che una pratica, la contenzione fisica, fosse bandita dai nostri luoghi nel 1856, in epoca manicomiale e prefarmacologica, e ancora in questi anni capiti di morire in contenzione (di contenzione?)[iii] Siamo certi di fare sempre abbastanza per prevenire la necessità di questa pratica, organizzando adeguatamente l’accoglienza dei nostri SPDC, ma lavorando anche preventivamente nel territorio sulle condizioni nelle quali al SPDC si arriva?
Psichiatria e controllo - E poi, siamo sufficientemente disposti a sperimentare per/con i nostri pazienti sempre il massimo di libertà possibile, e a interrogarci in modo sereno, onesto, senza reticenze sui timori che può destare in loro la sensazione di non avere il pieno controllo dei propri pensieri, a volte degli atti, sullo sforzo di autocontrollo nel quale, in queste situazioni, si impegnano; a cogliere la domanda di controllo che a volte ci rivolgono, a ragionare sulla necessità di tenere sempre aperta la dialettica tra libertà e controllo (senza che nessuno dei due sparisca dal discorso) che è, forse, l’essenza di quella cosa così contraddittoria che, infondo, è la psichiatria?[iv]
Storia della psichiatria - E poi (ancora) quanto, oggi, la storia della psichiatria è per noi storia reale dei rapporti tra psichiatri e malati di mente, o invece rischia di essere solo la nostra storia: una storia dei modi nei quali abbiamo tentato di ridurre il fantasma di una malattia a malattia, e una volta compiuta quest’operazione l’abbiamo classificata, definita, più o meno arbitrariamente parcellizzata; una storia di medici e di malattie, che esclude i malati? E quanto la storia della psichiatria è consapevole di quel filo rosso che l’ha percorsa in direzione contraria, sforzandosi di liberare dove si legava, aprire dove si chiudeva, ascoltare dove si ignorava, avvicinarsi dove si allontanava? E quanto le polemiche di Conolly e di Marandon de Montyel - ma anche in dettaglio quelle del gruppo goriziano divenuto a sua volta in questi 50 anni “storia” della psichiatria - sono note a chi oggi si prepara ad operare nella psichiatria? Quanto siamo interessati a leggere, in quest’”altra” storia, la storia alla quale cercare di dar seguito?
La psichiatria, oggi in Italia - E ancora: che cos’è la psichiatria, oggi, in Italia? E’ una domanda che periodicamente ricorre: se lo chiedevano nel 2002 sul numero 1 della Rivista Sperimentale di Freniatria tra altri Pascarelli, Giacanelli, Piro, Pirella, Tognoni, Piccione e Milano, Scvala, Norcio, Zanobio e Cocchi; e se lo ritornavano a chiedere sul n. 3 dell'anno successivo Scotti, Borgna, Lo Verso, Beneduce, Barone e Bellia, Carta, Crosato e Passione. E oggi? E' un esperimento che possiamo considerare sostanzialmente riuscito di fare a meno del manicomio, quell’esperienza di psichiatria di comunità che Benedetto Saraceno e Mario Maj sono stati chiamati qualche anno fa a rappresentare ricoprendo prestigiose cariche internazionali, o è quell’esperienza affannosa e drammaticamente solitaria nelle notti al pronto soccorso che Gilberto Di Petta documenta, peraltro dalla stessa città di Mario Maj, con le sue toccanti testimonianze su pol. it[v]? E come incidono sulla nostra assistenza alcune novità degli ultimi anni? E non mi riferisco certo alla chiusura doverosa degli OPG, con la quale tanti colleghi continuano a prendersela come se un migliaio di situazioni - a volte certo complesse - in più o in meno da seguire fossero il problema, ma piuttosto ai punti che ha recentemente sintetizzato la SIEP: tagli alla sanità (…), restrizioni al turn-over del personale, “riduzione dei centri di reponsabilità per l’accorpamento delle ASL, con la creazione di Dipartimenti di Salute Mentale “monster” per oltre 1 milione di abitanti e lo snaturamento dei principi fondanti la salute mentale di comunità, ossia la prossimità dei punti di accesso con i livelli di governo, il radicamento territoriale, il legame con le comunità locali”[vi]. E, soprattutto, come possiamo noi professionisti e utenti diretti e indiretti organizzarci, per influenzare le decisioni politiche e amministrative?
E allora, concludendo, che cos’è oggi la psichiatria? - Che cos’è la psichiatria in Italia, allora, 50 anni dopo? E’ un’altra cosa, certo, rispetto a 50 anni fa ed è bene che amministratori, statistici ed epidemiologi si siano occupati di darci finalmente un’idea di cos’è, quali sono i suoi dati strutturali, le sue lacune che è necessario riempire e i punti di forza da rendere ubiquitari[vii]. Ma alcuni nodi, alcune questioni, continuano a riproporsi, irrisolte e forse irresolubili, sia pure in modo sempre diverso e in un contesto sociale e assistenziale, oggi, profondamente diverso. Credo allora che questo vecchio libro, del quale ci siamo occupati per l’occasione dei suoi 50 anni, il cui titolo finisce con un punto di domanda, ci lasci dopo averlo riletto soprattutto domande, che qui ho cercato, per parte mia, di cogliere e riproporre. Domande che forse non ci aiuteranno a capire “che cos’è la psichiatria?” intesa come oggetto metastorico, astratto; ma possono aiutarci invece ad avvicinarci a capire che cos’è la “nostra” psichiatria, cioè che cos’è la psichiatria che qui, oggi, stiamo facendo. Perché la psichiatria infondo è questo, non può essere che questo: è quello che accade in un dato tempo tra noi operatori, i nostri pazienti, il contesto sociale e politico-amministrativo nel quale viviamo. E su questo perciò non dobbiamo stancarci, oggi come allora - quando le porte cominciava a aprirsi - di riflettere. “Che cos’è la psichiatria?”, allora, è la domanda che non dobbiamo stancarci, giorno dopo giorno, di rivolgere a noi stessi, ed è il titolo di uno dei libri dai quali è utile, ogni volta, ripartire.
[iii] Si veda in questa rubrica: SLEGALO! USI E ABUSI DELLA PSICHIATRIA. La presentazione a Genova (clicca qui per il link).
[v] Si veda la rubrica CUORE DI TENEBRA. VIAGGIO AL TERMINE DELLA PSICHIATRIA (clicca qui per il link). E in proposito segnalo anche il commento di Fabrizio Starace: L’emergenza reale della Salute Mentale in Italia. una risposta a Gilberto Di Petta (clicca qui per il link).